Incubo di Natale | Racconti

Pasquale Capasso
Writer on the Road
4 min readJan 1, 2020

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Casa di zia Mary

«La notte in cui la mia vita cambiò radicalmente me la ricordo alla perfezione, ma per ogni storia che si rispetti partiamo dal principio. Mi chiamo Edward McRayan, ho diciassette anni, vivo a Coltron Blacke, una piccola cittadina al centro dello stato del Maine. Era il 17 dicembre del 2011 quando tutto ebbe inizio; quell’anno le scuole furono chiuse prima per via di una tormenta di neve.

La notizia che lassù da noi fosse già “Natale” giunse con una certa celerità ai miei parenti di New York, dato che nel giro di un paio di giorni ce li trovammo fuori la nostra porta. Fu un immenso piacere per me rivedere i miei cugini Fred e George e i miei zii Betty e Wilfred. La fatidica proposta arrivò il pomeriggio del giorno in cui arrivarono; quelle due volpi dei miei cugini me la presentarono come una sfida, sapevano benissimo che corde toccare e io come un pollo ci cascai: accettai di entrare in quella casa, nella casa diroccata di zia Mary, morta due anni prima. Dovevo restarci per tutta la notte e non in una qualsiasi, no. La notte di Natale. Da mezzanotte fino alle prime luci dell’alba. Da solo, con una torcia e nient’altro. Accettai le condizioni senza batter ciglio e attendemmo. E alla fine arrivò Natale. Trascorsi quel giorno pensando a quella sera; ignorai quasi del tutto i regali che trovai sotto l’albero e i racconti cittadini della zia Betty e dello zio Wilfred, storie che mi avevano da sempre affascinato, eppure nemmeno quello riuscì a distogliere la mia attenzione dalla sfida. La cena di Natale fu un pasto frugale e passò in un istante, o almeno così mi sembra di ricordare. Ricordo, però, che non fu difficile trovare una scusa e schizzare fuori casa; qualche minuto dopo ci trovammo davanti a quel rudere che un tempo era stata la casa di zia Mary. Fred e George mi fecero alcune raccomandazioni e dopo qualche istante fui da solo davanti alla porta, con la mia torcia e il cuore in gola. Non dovetti nemmeno spingere giù tutta la maniglia che la porta si aprì con un lento cigolio e fui accolto da un tanfo terribile, muffa misto a spazzatura o non so che altro, che mi fece venire i conati di vomito. Resistetti, accesi la torcia ed entrai. Era come la ricordavo, non fu difficile per me trovare il salone dove Lei era solita ospitarci. Ora c’erano assi di legno alzate e muri incrostati. Superai il senso di disgusto e mi sedetti per terra appoggiando la schiena a una di quelle pareti. Dalla mia prospettiva potevo vedere quella che un tempo fu la cucina. Detti uno sguardo al mio Casio. 0:30 segnava. Emisi un lungo sbadiglio, spensi la torcia e lasciai che il sonno mi agguantasse. Fui svegliato qualche ora dopo da un urlo agghiacciante. Ora che ci penso, non era un urlo ma un lungo lamento, come quello che emette una persona prima di spirare sul proprio letto di morte. Non so se fu una mia impressione, ma quel tremendo suono tornava in continuazione, come l’eco in una grotta. Tremavo e fu un’impresa prendere la torcia e puntare il fascio di luce davanti a me.

Silenzio.

Non durò molto. Fu sostituito da lenti scricchiolii di assi di legno; qualcuno o qualcosa stava venendo giù dalle scale. Sognavo? Di certo no.

Fu di nuovo silenzio.

Il mio cuore non ebbe modo di riposarsi: una mano lunga avvizzita, a tratti scarnificata, si posò sullo stipite. E poi la vidi. Vidi zia Mary fare capolino dalla porta. Aveva il volto allungato, come se fosse uscita da un dipinto di Modigliani, e degli occhi completamente bianchi. Non appena entrò nella stanza ebbi modo di vederla meglio: arrivava a sfiorare il soffitto. I suoi capelli fluttuavano nell’aria, la pelle cinerea metteva in risalto le sue ossa spigolose e accentuate in diversi punti, come se volessero sbarazzarsi di quel decrepito guscio. Avanzò lentamente verso di me. Puntai tremante la torcia su di lei con la speranza che sortisse qualche effetto. Così non fu. Sul suo volto si fece largo un sorriso che mise in mostra dei denti appuntiti e poco dopo mi ritrovai la sua mano che mi stringeva il collo. Mi alzò a mezz’aria. Spalancò le fauci e ritrasse la testa, per prendere la rincorsa presuppongo. E lì lo gridai: “È colpa mia se sei morta. Ti vedevo stare male e non volevo che soffrissi. Pensavo che una pillola in più non ti avrebbe ucciso. Ti prego!”. Quella confessione funzionò. Zia Mary sparì e io svenni. Sono passati due anni da quel giorno e da allora non riesco più a dormire la notte. Ho sempre il suo volto stampato nella testa e son stretto dal rimorso» Mi fermai qualche istante e scrutai lo psicoterapeuta. «Cosa ne pensa lei? Qual è la sua sentenza?»

«La mia sentenza?» chiese sorridendo. «Fine pena mai» disse e portò il capo all’indietro esplodendo in una risata diabolica che mi gelò il sangue. Non capivo, ma tutto mi fu chiaro quando riabbassò la testa. Non ho mai lasciato veramente quella casa, zia Mary non mi avrebbe mai lasciato andare. E ora che vedo di nuovo il suo volto inumano avanzare verso di me, mi rendo conto che l’incubo di Natale non avrà mai fine.

Racconto elaborato per il concorso “Un Natale Horror 2019” organizzato dal sito LetteraturaHorror.it

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Pasquale Capasso
Writer on the Road

Author & Giornalista✍️| Scrivo storie. Leggo molto. Mi è capitato di pubblicare qualcosa