Emozioni da Teatro

Wyde Publishing
Wyde PlayGround
Published in
8 min readAug 29, 2020

di Simona Gonella

Ormai da molti anni mi occupo di studiare i meccanismi che legano, nell’arte teatrale, l’emozione e la sua rappresentazione. Ho sviluppato un training specifico per imparare a riconoscere i segni corporei associati alle sei emozioni fondamentali (gioia, rabbia, paura, disgusto, sorpresa, tristezza) e una serie di riflessioni teorico-pratiche per comprendere meglio quei meccanismi individuali e relazionali che scattano quando ci emozioniamo. Per un attore è fondamentale conoscere e riconoscere questi meccanismi per poterli poi rigenerare sulla scena, ma per una persona? Intendo un individuo che viva il proprio continuum emotivo nell’ambito della sua vita privata o professionale? Non sono sicuramente la prima a lavorare sul corretto riconoscimento, legittimazione e gestione delle emozioni.

È ormai lettera nota che l’intelligenza emotiva vada di pari passo con quella cognitiva e che una sapiente gestione delle proprie emozioni ci renda esseri relazionali migliori, nonché persone più flessibili e organiche. Credo, tuttavia, che nella metodologia sviluppata per il teatro risiedano una serie di tecniche -che si sviluppano in aula secondo criteri esperienziali più che teorici- grazie alle quali i gruppi, così come i singoli soggetti, possono avere un accesso più semplice ed immediato al proprio mondo emotivo e alle tecniche per guardarlo, relazionarcisi e gestirlo.

Per affrontare con maggiore proattività ciò che spesso ci porta a vivere gli stati emotivi come ostacolanti la nostra vita relazionale (personale o professionale) ritengo sia necessario un approccio che si sviluppi su diversi step:

in primis, bisogna invitare il partecipante a definire ciò che vede/fa/sente a livello emozionale attraverso un linguaggio innovativo che esca dalle considerazioni ovvie e banali;

poi è necessario farlo lavorare in modo che comprenda come il corpo abita/agisce lo stimolo che genera uno stato emotivo;

infine, occorre dargli una serie di strumenti che gli/le consentano di modificare/gestire l’azione conseguente a questo stimolo, se questa risulta inadeguata.

Workshop Wyde On Emotions — Ottobre 2019

Gli attori, quando hanno necessità di accedere alla rappresentazione di una emozione attuano più o meno una strategia simile: cosa mi fa cambiare (lo stimolo)? Come agisce il mio corpo in risposta? Cosa cambia in me a livello fisiologico?

Mutando i concetti sulla persona: qual è lo stimolo? Come mi ha cambiato? Cosa ha fatto il mio corpo? Quale azione ho compiuto in risposta?

La parola emozione deriva dal latino e/moveo, vale a dire muoversi da qualcosa o, meglio, essere mossi, spostati da qualcosa. In effetti è ciò che capita quando, nel normale andamento della nostra giornata, qualcosa o qualcuno provoca in noi un movimento (positivo o negativo che sia nella nostra percezione) cui noi diamo il nome di un’emozione.

Se per un attimo ci astraiamo dal giudizio legato a ciò che proviamo, in particolare per quelle emozioni che noi percepiamo sgradevoli o addirittura spaventose o profondamente disturbanti, e guardiamo alla fenomenologia di ciò che ci accade, vediamo che dato uno stimolo, il primo ad agire sarà il nostro corpo, attivato in maniera più o meno evidente a livello muscolare, cardiaco e nervoso. Senza scomodare analisi troppo dettagliate di come reagisce il nostro cervello possiamo accennare che, data una situazione che ci “sposta” dalla nostra normale condizione (detta in termini più scientifici omeostasi), vivremo prima una sollecitazione della parte limbica del nostro cervello (quella più antica, quella sviluppatasi ben prima dell’homo sapiens) che attiverà una serie di sostanze chimiche per renderci adatti a fronteggiare questa situazione, poi avremo una risposta corporea, ed infine una razionalizzazione dell’accaduto. Il tutto in una frazione di secondo.

Per fare un esempio paradossale: un gruppo di persone è seduto tranquillamente in un giardino. All’improvviso, arriva un orso: la parte limbica invierà un segnale alle nostre ghiandole surrenali affinché venga prodotta adrenalina, la quale agirà sui nostri muscoli rendendoli più pronti alla fuga, che sarà l’azione che compiremo. Solo in un secondo momento ci diremo che siamo scappati per la paura. Sarebbe infatti un meccanismo stupido (e poco adeguato per una specie che si è evoluta) che prima ci dicessimo che abbiamo paura e poi scappassimo: il tempo giocherebbe decisamente a nostro sfavore.

Esiste quindi una condizione profondamente corporea, radicata in noi all’alba dei tempi e fondamentale per la nostra capacità di adattamento e reazione, che merita non solo di essere indagata, ma che occorre imparare a riconoscere, legittimare, farsela amica e, non ultimo, saper gestire. Risulta quindi chiaro come attraversare una serie di esercizi fisici che risvegliano alcune consapevolezze e che ci aiutano a tradurre nel corpo e con il corpo il modo con il quale solitamente “reagiamo” ad uno stimolo emotivo, sia oltremodo efficace per cominciare a ragionare su quali tecniche di coping (fare fronte, gestire, re-agire in un’unica efficace parola) possiamo attuare per vivere meglio situazioni di ansia, stress, rabbia, timore, gioia e così via.

Volendo fare un esempio di un esercizio pratico: immaginiamo un gruppo in cerchio dove tutti pongono al centro un “oggetto” che scatena solitamente la loro irritazione (oggetto che può essere una persona, un compito, un pensiero, ecc…) e invitiamo ciascuno dei partecipanti a prenderlo fra le mani e poi ad “usarlo” come sono soliti fare. Vedremo che alcuni lo scaglieranno a terra, altri lo faranno in mille pezzi, altri lo lanceranno alle spalle, altri lo nasconderanno o ingoieranno, altri lo lasceranno a terra e si allontaneranno.

Attraverso la visualizzazione e l’azione sarà più semplice ed immediato per tutti capire quali e quante diverse modalità si attivano rispetto ad un oggetto che genera irritazione e più facile capire come cominciare a trovare altre forme di relazione con quello stesso oggetto, che siano meno ostacolanti e più proattive.

Piccola nota che ci dovrebbe far riflettere: l’ormone che il nostro copro secerne quando siamo allertati nell’area della rabbia è il cortisolo, estremamente utile se dobbiamo per qualche ragione sfondare un muro, ma molto poco efficace nelle situazione quotidiane! Non a caso è stato definito l’ormone dello stress.

Un esercizio come questo aiuta a comprendere che l’emozione è soprattutto una relazione con l’oggetto che la genera e che noi possiamo, una volta compreso come siamo soliti abitarla, cambiare questa relazione. E allora si comincerà a vedere, per esempio, che l’oggetto che ci provoca irritazione è fondamentalmente un ostacolo che si frappone tra noi e ciò che desideriamo/vogliamo o non vogliamo fare, vedere, incontrare e che non sempre prenderlo a pugni o gettarlo alle spalle o ingoiarlo è utile. Anzi, nella maggior parte dei casi è dannoso perché raramente si riesce a distruggerlo o nasconderlo e nella maggior parte dei casi torna, più forte di prima e con carichi di stress maggiori. Allora, forse, prima di scagliarlo dobbiamo rallentare, tenerlo in mano per un po’, capire se possiamo guardarlo da un’altra prospettiva, magari dividerlo in pezzi più piccoli e più facili da digerire, magari cambiare noi punto di vista o strategia o, addirittura, obiettivo o opinione. In ultima istanza potremmo anche decidere di imparare a conviverci, con consapevolezza.

Workshop Wyde On Emotions — Ottobre 2019

Una volta visualizzato, preso in mano, capito e legittimato quello che ci accade sarà meno faticoso gestirlo.

Ecco, questa alternanza fra lavoro con il corpo e briefing più teorico e tecnico è quello che muove il mio lavoro con i gruppi, questo attivare un piano creativo ed insieme cognitivo, questo costruire una comunità che lavora, studia, scambia, cambia insieme. E, soprattutto, impara a relazionarsi senza giudizio o pregiudizio con un altro che non solo è diverso ma sente ed agisce in maniera diversa da sé.

L’effetto che fa a ciascuno di noi un dato stimolo è giocoforza diverso, ma troppo spesso guardiamo alle azioni/reazioni altrui con le lenti della nostra percezione e di conseguenza il mondo può trasformarsi in un “nemico” che non obbedisce ai nostri criteri. Quando, infatti, ci relazioniamo con gli eventi e con le persone a partire da un pacchetto di criteri personali, formatisi nel tempo e di per sé né giusti né sbagliati ma semplicemente personali, potremmo avere grande difficoltà ad entrare in una relazione serena con l’altro o con l’evento perché vorremmo piegare le risposte, le azioni, i pensieri, le opinioni al nostro esclusivo modo di vedere le cose.

Assumiamo quindi che ciascuna esperienza, nel nostro caso emotiva, è legittima in quanto dato profondamente personale e non soggetto a giudizio (potremmo infatti forse dare un giudizio “morale” su alcune esperienze in sé e quindi su un lato della medaglia, ma come giudicare l’altro lato e cioè l’effetto che fa?) e accettiamo che a parità di esperienze ognuno di noi ha risposte differenti e gestioni diverse delle conseguenze. Se un evento che a me non dà timore suscita un’altra emozione in un collega, cosa è più produttivo? Restare sulle mie posizioni e, sminuendo o aggredendo, creare una situazione di tensione con l’altro o comprendere la diversità di risposte e lavorare rispettando il sentire altrui e semmai creando le condizioni perché le mie ragioni di tranquillità rispetto all’evento possano diventare una base comune? Allo stesso modo cerchiamo di essere maggiormente flessibili a come ciascuno personalizza i segni esteriori nella modulazione della propria risposta emotiva: rispetto a ciascuna esperienza infatti, pur in una gamma data di segni esteriori, ognuno declinerà la sua propria sfumatura.

La gioia, ad esempio, ci induce al sorriso ma per ciascuno sarà il proprio sorriso, la rabbia ci spinge verso la tensione ma per ciascuno sarà la propria tensione, la paura ci spinge verso l’agitazione ma per ciascuno sarà la propria agitazione. E non dimentichiamo che l’effetto che ci fa, in termini sia di risposta sia di segni esteriori, potrebbe risentire del contesto e della presenza o meno di altri individui, come ben sa chiunque lavori in gruppo.

È facile quindi comprendere, se si accetta che a parità di accadimenti ciascuno legittimamente agisca in maniera soggettiva, che nessun atteggiamento giudicante può avere spazio: come è possibile infatti, se si comprende che il sentire è assolutamente personale, giudicare un altro o un gruppo sulla base del loro diverso sentire?

In sistemi complessi come i luoghi di lavoro, la capacità di modificare il proprio sguardo rispetto alle relazioni interpersonali in favore di una maggiore flessibilità personale e rispetto della singolarità dell’altro può contribuire a creare una maggiore ecologia dei rapporti e a spianare la strada ad una comunicazione più fluida e meno “intasata” di preconcetti, giudizi, autoreferenzialità. È quindi di fondamentale importanza creare contesti formativi nei quali allenarsi, nella forma protetta dell’aula, a separare l’esperienza che genera un movimento emotivo dalla conseguente risposta/azione che ciascuno esprime.

--

--