La peste del linguaggio e gli umani 4.0

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5 min readApr 2, 2021

di Claudia Peverini

Siamo in molti a condividere la percezione, a tratti anche molto nitida, di essere giunti nel punto in cui si guada un torrente in piena. Un guado -una transizione linguistica, sociale e culturale, una rivoluzione umana prima ancora che tecnologica- di cui facciamo fatica a capire bene dimensioni e durata e che sembra avere:

  • una larghezza notevole: le quantità di messaggi che ci raggiungono dalle fonti più disparate si moltiplicano in maniera esponenziale;
  • una profondità instabile: mai gamma di contenuti, di registri, di significati e significanti a cui siamo esposti fu tanto eterogenea nella storia dell’umanità;
  • una lunghezza variabile: da un lato, i tempi di reazione e di interazione si accorciano. Se prima occorrevano settimane per vedere una serie tv, ora basta una notte grazie a Netflix. D’altro canto, viviamo un tempo dilatato e sospeso in cui gli orizzonti spazio-temporali non scanditi sembrano allargarsi.

Siamo nel pieno dell’era della tecnica e della tecnologia, il cui paradosso sta nel fatto che prodotti tecnici generano prodotti al di fuori della tecnica ovvero prodotti che mutano linguaggi, comportamenti e paesaggi culturali.

Questi effetti extra-tecnici, che richiederebbero tempi di adeguamento della psiche umana ben diversi, si impongono invece prepotenti e rapidi. Ci ritroviamo dunque a decodificare linguaggi innumerevoli che passano velocemente e a ciclo continuo dalla superficie alla profondità, con vette anche estreme di specificità e tecnicismi. Usciremo dal guado? O è il guado il nostro nuovo habitat linguistico e socio-culturale?

Da tempo assistiamo al graduale svuotamento semantico del lessico e al livellamento verso il basso del dibattito pubblico. Sono molte le parole che rischiano di perdere il loro significato, di ridursi a gusci vuoti senza un senso: significanti, grafici o fonetici, che non rimandano più a nulla.

Mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive […]. Non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d’immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili.”

Era il 1984, solo l’inizio della parabola ascendente della peste del linguaggio e delle immagini, e Italo Calvino descriveva già con lucidità i termini della questione, pur non potendo prevedere in alcun modo la portata del fenomeno. A che punto siamo di questa parabola? Abbiamo buoni elementi per credere che il vertice sia stato raggiunto e che ora si sia entrati in una fase discendente.

Lungi dall’essere mera questione demografica -giovani vs boomers, nord vs sud, città vs campagna- la riappropriazione del linguaggio ci arriva dritta dritta dagli Umani 4.0: umani che si ribellano al vuoto semantico compiendo uno sforzo per ridare al mondo parole e immagini piene.

Certo, sono segnali ancora deboli e frastagliati, spesso coperti dal frastuono digitale, ma senz’altro resi più evidenti nell’ultimo anno. È come se invece di cambiare casa -la “prigione-casa del linguaggio” a dirla come Nietzsche- si stessero rifacendo tutti gli interni ad insaputa dei vicini. Un rinnovamento strutturale in sordina, dunque.

Che caratteristiche hanno gli Umani 4.0? Sono umani consapevoli: sanno di essere nel guado, ma non hanno paura di rimanere travolti dal torrente, né hanno fretta di uscirne. Sono attenti: sanno captare, decodificare, tenere traccia e amplificare tanti segnali.

Sono abitanti transitori di molti mondi diversi che attraversano e da cui si lasciano attraversare. Sono quindi trasformativi, flessibili, adattabili. E aggregativi.

Trasformano e aggregano molte realtà sia nella dimensione fisica (corpo, comportamenti, vestiario, abitazioni) che in quella digitale (il racconto linguistico e iconico di se stessi sui social e nei blog): sono hashtag viventi. Sono i primi umani della generazione digitale capaci di fornire rappresentazioni trasparenti e narrazioni di sé autentiche: rigettano la dieta di realtà photoshoppata che gli è stata imposta rifiutando di ripulire ossessivamente lo storytelling della loro vita. Sono ibridi che non si nascondono, attivisti che prendono posizione, con un linguaggio nuovo che li riflette a pieno.

Da loro emerge un bisogno: che autentici siano anche le aziende, i media, i professionisti della comunicazione. Non più proiezioni amplificate e distorte di noi stessi e del mondo. Il linguaggio come specchio del reale, nella sua complessità e imperfezione, piuttosto che rappresentazioni patinate, quindi incomplete e distorte.

Questa quiet revolution plasmerà il futuro perché sta facendo emergere una sensibilità diffusa incentrata su tematiche valoriali intorno alle quali si possano costruire comunità con un senso e un linguaggio preciso. Fine, dunque, della comunicazione da uno a molti, delle immagini omologate, dei servizi e dei prodotti one-size-fits-all, dei linguaggi rigidi e inflessibili che mal si adattano a paesaggi perennemente mutanti.

La peste del linguaggio e delle immagini sta diminuendo in intensità e forza. Gli anticorpi sono loro, siamo noi: i portatori di linguaggi human2human, autentici e ibridi. Costruire un nuovo linguaggio significa fare un salto nell’ethos: acquistare un’identità valoriale chiara, per installare consapevolmente la forma mentis che ci consentirà di andare oltre, di uscire dal guado per raggiungere altre sponde.

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Claudia Peverini

PhD, Linguist & International Programme Manager

Claudia ha una formazione internazionale, con un MPhil e un dottorato di ricerca in Sintassi (italo-)romanza comparata presso l’Università di Cambridge (UK). Oggi, accompagna imprese e startup nella creazione di grammatiche aziendali, fornendo strumenti e linguaggi che trasformino anzitutto il mindset.

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