Le comunità di innovazione nelle Marche, origini e futuro

Wyde Publishing
Wyde PlayGround
Published in
7 min readAug 31, 2020

di Giorgio di Tullio

La rivoluzione culturale che anticipa il Rinascimento italiano, ha come origine Giotto e soprattutto, i giotteschi minori che attraversano le valli tra Assisi e Marche decorando piccole cappelle e pievi ed illustrando storie evangeliche e vicende di francescani e benedettini. Quello straordinario periodo dell’arte è successivamente arricchito dalle innovazioni di Piero della Francesca, di Giovanni Santi e di suo figlio, Raffaello Sanzio e si conclude sostanzialmente con la piccola scuola fiamminga dell’ascolano, a cui appartengono Lorenzo Lotto, Francesco Podesti e Filippo Crivelli.

Un mondo diverso ne è scaturito, le basi per un diverso atteggiamento vitale sono gettate: le comunità religiose, rurali, urbane del centro Italia, hanno conosciuto e praticato un modo di vivere attraverso la conoscenza trasportata dall’arte e dalle narrazioni ecclesiastiche in pievi e monasteri. La chiave è nella norma monastica che Giorgio Agamben (filosofo contemporaneo) definisce altissima povertà: si tratta di un codice di comportamento, a suo modo solidale, basato sulla condivisione dei progetti e delle prospettive, dei luoghi e dei mezzi, delle risorse naturali e di quelle umane, che fa dell’uso delle risorse di comunità, contrapposto alla proprietà chiusa e solipsistica, tipica di certo medioevo e poi di certo capitalismo industriale, un potente mezzo di sopravvivenza vitale e sociale, spirituale e materiale e di prospettiva. La pieve (da plebe/popolo) era il nucleo dell’organizzazione delle campagne e delle piccole città, svolgeva le funzioni civili e amministrative del municipio romano, era il centro del territorio di competenza. Il pievano oltre a governare le anime, assolveva funzioni civili e amministrative: teneva i registri delle nascite, custodiva i testamenti e gli atti di compravendita dei terreni. Coordinava i lavori per la difesa del territorio: bonifiche, canalizzazioni. Le chiese della pieve erano dotate di un proprio ospedale; il sagrato era anche il luogo del mercato.

E’ la diffusione larga della bellezza sociale e della norma a costituire matrice che permea di sé tutto il territorio: è un luogo, una raccolta di pratiche che trasferendo il valore dalla proprietà all’uso, anticipano tematiche più che contemporanee, come lo sharing e lo streaming.

Il paesaggio, la campagna, il costruito sono tutte forme del condiviso, se ne gestisce ed informa l’uso a beneficio collettivo. Si restituisce alla comunità curando la terra e non solo i frutti. Bellezza e regola, coltura della terreno, orti e paesaggio implicano una prospettiva profonda nell’organizzazione di vita, resa dolce da morfologie territoriali morbide (colline, campi, radure, acque tranquille, montagne possibili).

Queste matrici consolidate e permanenti in queste genti, i caratteri della marchigianità, hanno favorito la crescita nella valli che attraversano la dorsale appenninica, di una appartenenza territoriale e sociale profonda che ha motivato e permesso la costituzione e la crescita di imprese basate su conoscenza e saperi, attente alle persone ed alla propria terra, che agiscono nel mondo per potenziare il sé della propria comunità. Sono comunità prima familiari, poi rurali, ancora territoriali, infine internazionali. Tutte unite da una visione orientata alle prime materie o competenze o concezioni locali e proiettate su una scala internazionale per potenza e risonanza.

La povertà degli spazi e, talvolta dei mezzi, la sobrietà degli atteggiamenti, diventa cifra e modalità, è ricerca di un processo basato sul minimo e non sulla ridondanza, per numeri, dimensioni, consumo.

E’ questo il cuore di quelle micro, piccole e medie imprese che tanti economisti hanno condannato all’irrilevanza perché troppo deboli, piccole, frammentate.

Ma che in modo antifragile hanno dimostrato di resistere ad ogni tempesta; talvolta il sistema si disperde, cede importanza, si sgretola, invecchia, ma in un modo o nell’altro si rinnova e rinasce dai propri frammenti.

Quello che colpisce, in particolare nella storia della piccola impresa di questo centro Italia, è la sua narrabilità, è il concetto di interscambio tra intenti creativi e comunità territoriali: in questo scambio il codice principale è appunto quello di un’altissima (come attitudine ma anche come ricerca estetica) povertà (come sobrietà ed essenzialità, come lento perseguimento degli intenti). Il profitto diventa un mezzo, non un fine; è, a suo modo, strumento da usare per restituire potenza alla comunità culturale originaria, per espanderne i limiti. E’, per dirlo con le parole del sociologo Aldo Bonomi, Potenza del Limite:

“Il margine sono i significati, le esperienze di comunità, i paesaggi che mutano; margine, confine, limite è lo sguardo contemporaneo sulle cose e sul mondo”.

Sorgenti, estetiche, innovazione nell’Innovation Playground del MATT

Se il margine è il cuore del significato, la nostra attività quotidiana dovrà dedicarsi alla espansione, esplorazione ed osservazione di quella frontiera tra ordine e caos. Osservare significa alimentare, prendere cura, coltivare attraverso originarie (memorie, leggende, parole passate, storie narrate) e contemporanee (fotografie, supporti digitali, stampe, hard e soft disk) forme di scambio.

Cogliere il senso ultimo delle cose, stabilire una connessione tra forma, tecnica dell’espressione e senso di una prospettiva di visione sul mondo, permette di individuare una modalità unica, che solo in questi paesaggi, solo in questa umanità, si conserva e stratifica e che costruisce un intreccio fatto di nodi, link, tracce, rimandi, segmenti, percorsi, riferimenti ad un sistema valoriale (alimentato da matrici e codici e progetti) che individua metafore che agiscono come un tessuto interattivo, programmatico.
Le connessioni tra le attività che aprono nuovi mondi ed il paesaggio come teatro nel quale l’uomo si rappresenta (E.Turri) ci portano alla consapevolezza di intrecci capaci di far cogliere, nella loro complessità, la radice naturale base di una passata-futura antropologia di comunità.

E’ in questi spazi, investigati, aperti, commentati, che risiede la possibilità di sperimentare forme originali e rivoluzionarie di vita, comunicazioni, dati, informazioni, passioni ed interessi, per abitare quella dimensione divina, che è mondo.
Louis Wirth (sociologo tedesco poi negli Usa) parla della

“scomparsa dell’unità territoriale come base di solidarietà sociale, cui corrisponde la ricerca di nuove forme di aggregazione, fondate sulle aspirazioni individuali e che danno origine a raggruppamenti mobili e dinamici nei quali gruppi eterogenei di individui comunicano tra loro attraverso lo spazio”.

Esito di queste scomparse e ri-aggregazioni sarebbe, seguendo Zygmunt Bauman, la liquidità dell’individuo. Ma quando l’unità territoriale solidale si conserva ed espande, possiamo registrare la nascita di nuove tipologie di connessione, si scopre quanto oggi sia fondamentale progettare la condivisione prima dell’artefatto, cioè il fondale, la scena, il palcoscenico, il teatro condiviso, il metodo, i processi, al posto del prodotto. Conclusasi l’era delle ideologie, caduto il mito del progresso basato sulla produzione solo-fisica di oggetti e sulla distribuzione di concreti-manufatti, che costituiva la base della nascita e dell’evoluzione del progetto industriale, oggi termini quali evolutiva, reversibile, temporanea, condivisa, immateriale, attraversabile, collaborativa, segnano il passaggio dall’epoca meccanica a quella connettiva. Ciò che emerge con forza, dall’osservazione, dallo studio della prospettiva di mondo del lavoro, è come tutto questo già fosse contenuto in quelle opere ed attività dei monaci, in quell’epoca che tende, prima di ogni altra, a pensare la mondializzazione, la relazione tra globale e locale, come spostamento di equilibri, come nuove orditure di progetto.

E’ questa la natura del laboratorio, secondo la regola benedettina: da una parte propone un modello di vita preciso, una scrupolosa descrizione del ritmo della vita e dei comportamenti, imposti ad ogni membro della comunità, facile da “copiare” in ogni epoca, luogo e situazione, mentre dall’altra, lascia spazio a molteplici varianti, valorizzando così le diverse attitudini di ciascuna piattaforma ed il suo contributo di innovazione. Questo atteggiamento crea flussi continuamente alimentati, stimoli per la “coltivazione innovativa” delle geografie e dell’essere collettivo.

Alla linearità del tempo e degli accadimenti (pietre miliari come amplificazione della progressività temporale — il tempo dell’innovazione procede per balzi, non per linee rette) si sostituisce l’idea del tessuto, dell’intreccio, del reticolo, che vede ogni evento in spostamento spaziale multidirezionale, ma anche simbolico, rappresentativo, temporale, con l’orditura che la precede e trova la propria forma mobile nell’intersecarsi dei saperi naturali e di quelli umani.
Questo continuo divenire mette in connessione dinamica realtà fisica e mondo delle idee: i prodotti tecnologici e quelli architettonici, gli interventi sul paesaggio, si trasformano in una rete di possibilità e di combinazioni infinite e perennemente mutabili, tale da lasciare immaginare una civiltà nuova fatta di persone, mercati, oggetti ed economie, la cui caratteristica principale è quella di essere in relazione tra loro.

L’antropologia filosofica ci fornisce le chiavi: pensa l’uomo in quanto ente relazionale che non può mai esser valutato singolarmente, in modo isolato rispetto ad altri uomini e altre cose, afferma che l’uomo è dotato di una sorta di meta-facoltà che gli permette di cogliere la distanza di fondo che lo separa dalle cose. L’uomo quindi non è, diviene nell’avvicinamento all’origine, appartiene ad un processo, diviene “noi”, sviluppa consistenza nello “stare/tenersi insieme” di piattaforme/conoscenze/comunità diverse, lontane: sincronicamente.

«L’avvenire è l’origine della storia.[…] Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma sta di fronte, davanti a noi.»

(M.Heidegger, dalle “Lezioni del semestre invernale 1937W38”).

E ancora

«Essere contemporanei significa […] tornare ad un presente in cui non siamo mai stati»

(G.Agamben “Che cos’è il contemporaneo”).

E’ quindi l’indagine sulle origini, che sono nel futuro, una delle azioni necessarie per comprendere e poi trasferire la visione speciale, particolare, innovativa, della cultura di questi territori.
E’ l’identità locale, quella che va valorizzata, nella sua sottilità, “nella e grazie alla” struttura sottile (sub-textilem, che sta sotto il testo visibile e che lo sostiene).

Quattro sono, le direttrici possibili di comunicazione, o per meglio dire, di messa in comune dell’identità territoriale:

  • Il territorio costruisce senso.
  • Il luogo favorisce la consistenza (cum-sistere, esistere insieme).
  • La comunità fa accadere l’identità.
  • Il lavoro è coltivazione di una terra fatta di connessioni alimentate dalla creazione di reti, cluster, piattaforme. Il lavoro su questa terra è la destinazione, l’origine futura, delle Comunità territoriali di Innovazione.

--

--