Una leadership “vegetale”

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8 min readJun 12, 2020

di Marco Ossani

Photo by Hasan Almasi on Unsplash

Lo so, il titolo è provocatorio: immagino qualcuno di voi (ne conosco alcuni nel mio mondo di accademici, imprenditori, manager e leader aziendali) che sorride sollevando un sopracciglio, pronto a fare battute paventando “strategie dell’insalata” o “leadership della foresta”.

Ma spero che proseguiate la lettura, perché faccio sul serio, come fa sul serio Stefano Mancuso nel suo straordinario La Nazione delle Piante” (Laterza, 2019): un affascinante viaggio naturalistico e filosofico attraverso l’evoluzione e le prospettive della vita, che mi ha ispirato.

In questo viaggio Mancuso prende costantemente come modello e punto di riferimento il mondo delle piante: perché? Perché le piante sono una straordinaria “storia di successo” che non ha paragoni con la nostra misera apparizione sulla Terra. E perché sono l’origine, il motore e la ragione ultima dell’esistenza della vita e del pianeta come lo conosciamo (un sistema in cui ogni cosa è strettamente interconnessa, un unicum inestricabile di influenze reciproche).

E, anche se ci costa molto -vista la nostra convinzione antropocentrica-dovremmo avere l’umiltà e l’intelligenza di imparare da questi nostri silenziosi (per noi…) “conviventi”, di provare a comprendere le ragioni di questo successo. Ci servirebbe a essere manager, cittadini, persone migliori e, forse, ad evitare di portare a termine quella “sesta estinzione” che, secondo gli studiosi, entro questo secolo decreterà la fine del mondo come lo conosciamo.

Il nostro posto

Noi umani ci sentiamo i padroni del mondo (secondo Donald Trump, forse anche dell’intero Universo), pensiamo che tutto esista per soddisfare le nostre necessità e i nostri desideri: continuiamo a consumare risorse che non si rinnoveranno, cancelliamo (direttamente o indirettamente) intere specie ogni anno.

Questo è un pregiudizio fortemente radicato in credenze religiose e filosofiche, ma è assolutamente infondato. La nostra numerosità sul pianeta è trascurabile rispetto a quella di altre specie: siamo gli ultimi arrivati e, purtroppo, nessuno pensa che avremo una “durata” superiore ai 100.000 anni, quando, come ci racconta Mancuso, la vita media di una specie qualsiasi è di circa 5 milioni di anni, e il ginkgo biloba -l’albero sopravvissuto alle esplosioni nucleari di Hiroshima- è su questo pianeta da più di 250 milioni di anni…

Quindi, in termini evoluzionistici (se l’obiettivo della vita è la sopravvivenza della specie, le “più adatte”, quelle di maggior successo, sono quelle che “durano di più”), senza invocare millantate predilezioni divine, non abbiamo davvero alcuna ragione di considerarci “migliori” di chicchessia. Questo esame di realtà dovrebbe essere un salutare bagno di umiltà, un ragionevole ridimensionamento delle nostre pretese, un ritrovato rispetto per il resto dell’universo e una severa limitazione della nostra attività predatoria e di sfruttamento.

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I limiti dello sviluppo

Le piante sono radicate in un posto preciso. E lì restano, per tutta la durata della loro vita: non sono immobili (tutte le loro parti si muovono, ma “al rallentatore”, per cui noi non percepiamo questo movimento), crescono e si espandono, si piegano, si orientano, si aprono e si chiudono in base alle condizioni esterne. Ma non possono spostarsi dal luogo di radicazione e quindi dipendono dalle risorse disponibili in loco. Questo “vincolo” ha prodotto una serie incredibile di capacità che vanno sotto il nome di “plasticità fenotipica”: le piante possono modificare il loro metabolismo, ridurre le loro dimensioni, le loro esigenze, possono addirittura smettere di crescere. Pur essendo una invenzione “umana”, i bonsai sono un esempio estremo di questa strategia che a noi animali è assolutamente preclusa.

Gli animali, invece, possono spostarsi: non sono vincolati ad un “posto” e per di più noi umani abbiamo sviluppato un’infinità di mezzi (che consumano risorse) per muoverci più liberamente e velocemente di quanto consentano i nostri mezzi naturali. Quindi andiamo a cercarci risorse dove si trovano e dove sono disponibili; in questo modo e con i nostri mezzi “potenziati” ci sembra di non esaurire mai le risorse di cui abbiamo bisogno, perché le andiamo a cercare altrove e, quindi, finiamo col consumare tutto ciò a cui abbiamo accesso. Ma le risorse del pianeta sono limitate e molte sono non rinnovabili, dunque il nostro tragico destino è segnato: soccomberemo (come specie) per l’esaurimento (di cui siamo gli unici colpevoli) delle risorse vitali.

Questa lezione sulla necessità di pensare in termini di risorse è straordinariamente importante su due diversi livelli:

1. Non siamo “plastici” come individui, ma dobbiamo esserlo come specie: dobbiamo adattarci alle risorse disponibili, ponendoci dei limiti condivisi ed equi, perché ci sentiamo responsabili di prenderci collettivamente cura del bene comune. Non siamo “troppi”, non è un problema di popolazione -per quella il posto c’è, e tanto- ma di consumi (obiettivi, esigenze, abitudini e stili di vita) e delle loro inaccettabili ineguaglianze.

2. Anche le organizzazioni e le imprese possono accedere a risorse limitate e, spesso, gli obiettivi di crescita richiedono la ripartizione di quanto disponibile fra progetti e attività diverse e potenzialmente in conflitto. Questa è una parte importante della strategia e, in questo caso, la storia di successo delle piante ci insegna che le risorse devono andare dove servono (in termini di sviluppo) e non, come spesso vediamo, dove sono richieste o semplicemente ripartite in quote “eque” (pensiamo al dibattito surreale sui sussidi in questi giorni di pandemia).

Leadership, Concentrazione e Distribuzione

Gli animali si sono evoluti utilizzando un modello strutturale altamente centralizzato: le funzioni essenziali sono concentrate in un numero limitato di “organi vitali” e il malfunzionamento di uno solo di essi porta a risultati disastrosi. Noi umani, con il nostro straordinario cervello, siamo stati consapevoli di questo principio costruttivo fin dai primordi della nostra conoscenza e lo abbiamo sistematicamente applicato a tutto ciò che abbiamo costruito, dalle macchine alle organizzazioni (come sempre, l’approccio religioso è fondamentale: se “qualcuno” ci ha fatti così vuol dire che questo è il modo “giusto”).

Le piante, al contrario, sono un esempio fondamentale di organizzazione decentralizzata, distribuita: non c’è concentrazione di funzioni in “organi” specializzati, ma la loro diffusione su gran parte dell’intero organismo. L’assenza di centri “nevralgici” (pensate ad uno dei nostri organi vitali: cervello, cuore, polmoni) rende l’organismo estremamente “robusto”, cioè capace di sopravvivere a danni importanti; in questo modo, le funzioni critiche non vengono a mancare a causa di un trauma “locale”, perché la loro estesa distribuzione le rende disponibili “altrove”.

Una conseguenza diretta e vistosa dell’architettura centralizzata si può individuare nelle gerarchie che abbondano nelle società animali e nelle organizzazioni umane — inseriamo diversi livelli funzionali gestiti da autorità differenti, una dipendente dall'altra. Se questo, in alcuni contesti (un gruppo limitato, un branco o una “banda” con unico “capo”), ha l’indubbio vantaggio della “velocità” di risposta (uno solo decide), nelle organizzazioni umane complesse non funziona, perché la gerarchia richiede una burocrazia, cioè un sistema in cui ogni livello funzionale ha un suo “capo” e tutto si basa sul passaggio dei “comandi” da un livello all'altro.

La gerarchia porta con sé anche la maledizione della competizione interna: la volontà di “crescere nell'organizzazione” è un danno alla collaborazione e un elemento di straordinaria instabilità che ci riporta, almeno in termini aspirazionali, alle dinamiche del branco o della banda.

Da tempo lavoro con le organizzazioni più disparate per aiutare le persone a sviluppare una cultura di leadership che superi la classica concezione meccanicistica, gerarchica e autoritaria; un nuovo paradigma centrato sulla condivisione e la partecipazione. Tutto inizia col lavoro di Peter Senge, sintetizzato nella sua straordinaria affermazione:

“La Leadership è la capacità delle comunità umane di plasmare il loro futuro”

Come vedete non si parla più di autorità e di gerarchie, la Leadership viene intesa come la competenza diffusa di una comunità di condividere un futuro “desiderato” e realizzarlo insieme. Possiamo chiamare questa leadership diffusa, distribuita o condivisa: l’essenziale non è più il rapporto tra un’autorità e dei sottoposti, ma una comunità che condivide uno scopo (“purpose”) e una serie di obiettivi operativi. Il purpose di un’organizzazione è il senso ultimo di quello che fa, il perché della sua esistenza (come ci racconta Simon Sinek nel suo “Start with Why”); gli obiettivi sono i raggiungimenti pratici che ci permettono di dire che ci stiamo muovendo nella direzione del purpose.

Possiamo affermare che questo nuovo tipo di organizzazione ha diverse cose in comune col mondo delle piante, dove il “purpose” è la sopravvivenza della specie, mentre gli obiettivi “compatibili” col purpose sono le loro varie attività vitali (fotosintesi, respirazione, meccanismi sensoriali, di comunicazione e di difesa, tropismi…). Non voglio dire che questi modelli organizzativi siano direttamente ispirati alle strutture vegetali, ma trovo affascinante evidenziare queste analogie tra ciò che vado “predicando” e strutture viventi di così ampio e durevole successo.

E le analogie si fanno sempre più profonde se si considerano alcune caratteristiche dell’organizzazione “ideale” di Frederic Laloux (in “Reinventing Organisations”), un punto d’arrivo evoluzionistico che lui chiama “TEAL Organisation” (mi piace pensare che non abbia scelto a caso il colore “teal”, una bella tonalità di verde che in italiano potremmo tradurre con verde-acqua):

Auto-determinata e auto-gestita

Mirata al cambiamento, all'evoluzione, all'innovazione

Distribuisce le risorse in base alle necessità, per soddisfare il purpose e raggiungere gli obiettivi

Decentralizzata — piccole “cellule” che governano se stesse e il modo in cui interagiscono

Basata sulla partecipazione e la cooperazione, priva di competizione interna

Caratterizzata da leadership diffusa e ruoli molteplici, auto-scelti, fluidi

Queste organizzazioni prosperano per la loro capacità innovativa, nutrita da una partecipazione empatica totale al contesto in cui operano, guardano ai Clienti e trovano al loro interno il modo di offrire loro valore, non “competono”, non vedono i concorrenti come un nemico da schiacciare, non fanno “meglio” quello che gli altri già fanno, ma inventano e si reinventano ogni giorno. Giocano un gioco “infinito”, il cui solo scopo è continuare a giocare.

Capisco che non sia facile assumere questa prospettiva: viviamo in un mondo costruito su un fraintendimento della teoria darwiniana, in cui le specie o gli individui (con i loro “geni egoisti”, come direbbe Richard Dawkins) lottano per la sopravvivenza, competono con gli altri in un gioco “finito”, che non ha un vincitore senza un vinto (si dice anche che è un gioco “a somma zero”).

Nel gioco dell’evoluzione, di cui le piante sono un esempio di successo, si può vincere senza che qualcuno perda, c’è spazio di innovazione per tutti: l’obiettivo non è la “crescita” a qualunque costo, ma la sostenibilità.

Spero leggerete il libro di Mancuso o guarderete la conversazione necessaria di Wyde per esplorare una prospettiva nuova per essere leader migliori. Confido che, se non altro, da oggi in poi guarderete con un occhio diverso il ficus che sta nell’angolo del vostro ufficio…

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