Cupole

ottimo cemento, mesti umani

Lucio Apolito
ZombiePost
8 min readNov 29, 2017

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E’ il 2004.
Sono in un parcheggio. L’aria stagnante, i riverberi dell’asfalto e una grande insegna a lettere mobili di fronte a me mi obbliga a pensare alla scena finale dello ‘Stato delle cose’ di Wenders, un attimo prima che una pallottola vagante ribalti per sempre l’inquadratura. Sto guardando una struttura di cupole, dipinte di quella vernice che mio nonno usava per rinnovare l’aspetto del tubo della sua stufa. Io e i miei complici stiamo cercando posti per ambientare una puntata pilota da proporre a un canale Fox. L’abbiamo chiamato ‘Il manuale del playboy’, l’idea è quella di leggere stralci di un vero manuale di seduzione degli anni 60, di quelli in vendita alle edicole delle stazioni ferroviarie, fotografare le amate spoglie dei locali di quegli anni, ascoltare i comizi d’amore dei seduttori contemporanei e succeda quel che succeda. Non funziona, viene rifiutato, ‘avevamo in mente qualcosa di meno nostalgico’.
Abbiamo passato una settimana a fotografare vecchi dancing e balere lungo la via Emilia: un capannone con un Cessna per insegna, una struttura in vetro e acciaio che lascia crescere un albero svogliato al suo centro, piramidi, rotonde, tempietti vittoriani, pompei di cartapesta.
Queste cupole però parlano chiaro, parlano di un’altra civiltà, tempo, galassia. Sono atterrate qui, al centro di un parcheggio di Castel Bolognese, utopia in un non luogo.
Parliamo con i proprietari; ce ne sono altre, ci dicono, altre tre o quattro, tra l’Emilia e il Veneto, tutti dancing che una pioggia improvvisa di soldi ha distribuito come una ventata di spore lungo lo stradone.

E’ il 2013. In ogni schermo giornalisti concitati spiegano con foga immotivata come procederà il recupero del relitto del Costa Concordia. Bisogna ottenere di nuovo ambienti stagni, mi spiegano, e quindi iniettarli di aria compressa per poter muovere il relitto. Certo, mi dico; certo che conosco questa storia.

E’ il 1964. Vengono trasportate 65 tonnellate di palline di polistirolo via aerea, da Berlino a Kuwait City. Una fregata militare affondata sta ostruendo l’ingresso al porto. Viene dato credito a un inventore danese, Karl Krøyer, che propone di riempire lo scafo per riportarlo a galla. Funziona. Vuole registrare il metodo di recupero e ottiene un brevetto inglese e uno tedesco. L’ufficio olandese glielo nega (pratica NL 6514306). Esiste già una descrizione grafica di questa procedura, dicono, documentata e popolare.

E’ il 1977, una domenica mattina. Sono nel letto dei miei genitori, leggo un nuovo numero dei classici di Walt Disney. Zio Paperone sfida Paperino a recuperare uno yacht affondato nel porto. Qui, Quo, Qua hanno l’idea di riempire il relitto con milioni di palline di ping pong. Funziona. E’ una storia di Carl Barks, l’ha scritta nel 1949. Una buona idea trova sempre la sua strada.

E’ il 1967, alla vigilia di una dimostrazione da tenere alla Columbia university, Dante Bini si trova nella fungaia di famiglia, a Castelfranco Emilia. Si è laureato in architettura cinque anni fa e ha scritto un libro: ‘Building with air’. Ha di fronte Mario Salvadori, l’ingegnere che lo ha invitato negli Stati Uniti. Ai margini di un’area circolare vengono ancorate delle molle in metallo, annodate tra loro come farebbe un orefice con una collana. Sotto di loro una semisfera gonfiabile. Sopra, una membrana contetiniva, un grosso sac à poche pronto a trattenere diverse gettate di calcestruzzo a diverse percentuali di ritardante. Il calcestruzzo riempie il sacco, il gonfiabile inizia a crescere come un fungo. Dopo sei ore si è ottenuta una cupola.
Nella dimostrazione americana Dante Bini ne fa crescere una di 15 metri. Mario Salvadori lo aiuta a formalizzare un brevetto internazionale: Binishell.

E’ il 1974 quando apre la prima vera discoteca italiana, la Baia degli Angeli, a Gabicce. Niente orchestrine, niente gruppi beat. Per la prima volta la musica viene esclusivamente da una coppia di giradischi. Nessuna pausa, nessuna alternanza 3 ballabili — 3 lenti. Incontro Giancarlo Tirotti l’anno scorso. Nel 1974, quando inaugurò la Baia, era un facoltoso venticinquenne che parlava tre lingue. Dopo un anno a New York, mi racconta da una poltrona trapuntata nella hall del suo albergo, mi sono reso conto che la cosa nuova non erano i locali eleganti di Soho ma quelli che aprivano alle 3 di notte nella Bowery, locali piccoli, gay. Loro avevano i Disc Jockey.
Ne porta 2 in Italia, Bob Day e Tom Sison.
Riflessioni utopiche sul leisure, architettura, autostrade, musica elettronica, tutto parla di futuro, di viaggio e di spazio in quegli anni, anche a Castel Bolognese.

Mari, Sottsass, Scarpa e Colombo, dicono gli annali.
La madonnina del Ferruzzi, le sedie savonarola, i centrotavola in Moplèn, carte da parati viniliche, collezioni di piatti del buon ricordo, pareti perlinate, centrini in pizzo canturino, tinelli. Da questo, invece, fuggiva la gioventù, durante gli anni della scuola, prima di quelli della fabbrica, dopo i pomeriggi della televisione dei ragazzi.
Un parcheggio è più che sufficiente. Un parcheggio in cui allineare le Citroën DS, ascoltare i mix di Baldelli dalle autoradio, farsi una pera. Il parcheggio della discoteca.
Il parcheggio delle Cupole, attraverso gli anni si è guadagnato un nome proprio: ‘Il piazzale delle Cupole’. Mappato anche da Google. Ci hanno agonizzato, torturate dal sole, le ultime decadi di Feste de l’Unità.

E’ il 1970 quando viene costruita la struttura di Castel Bolognese. E’ solo una delle centinaia, forse migliaia di edifici che il micelio di Dante Bini ha generato. Una generazione di adolescenti non sa ancora che è quello il posto in cui fra pochi mesi vorranno abitare, immaginare e vivere il dispositivo della discoteca nei suoi paramenti e liturgie. Dante Bini ha già fatto quel che doveva, tra poco se ne andrà per sempre, salvo tornare occasionalmente in una casa in Versilia.

La settimana scorsa cerco il suo nome sul sito di paginebianche.it, il caro e vecchio elenco del telefono. Bini, arch. Dante, località Bagnaia. Segue numero di telefono. Segreteria telefonica.

E’ il 1970 ma noi non lo sappiamo, ci è stato tenuto segreto per decenni. E’ il 1970 e Dante Bini firma un obbligo di riservatezza: divieto di pubblicazione, nessuna fotografia o menzione pubblica del progetto. In Sardegna, Costa Paradiso, Dante Bini scrive una delle sue migliori poesie, una cupola di due piani ad uso residenziale, immersa in una profumata selva di mirti, sfiorata dal mare, un ingresso separato per il piano superiore, un ponte verso l’avamposto che mi obbliga al ricordo delle copertine Urania di Karel Thole. E’ solo calcestruzzo, è solo una semisfera ma non è un bunker sulle coste albanesi. Siamo su Ganimede, la sabbia profuma, c’è solo silenzio. Il proprietario forse non voleva paragonarsi a Curzio Malaparte, forse non voleva seccature, è sempre stato riservato, è cosa nota.
La villa gli venne commissionata da Michelangelo Antonioni per sé e per Monica Vitti pochi mesi dopo il termine delle riprese di Deserto Rosso. La villa verrà consegnata nel 1970. Antonioni e Vitti si sono già separati e non la visiteranno mai insieme, fino ad abbandonare la struttura al sole e alle lucertole. Non riesco a immaginare un monumento più struggente e appropriato.

A questo punto mi piacerebbe poter scrivere che tutto si dissolve, che vincono sempre le ortiche e che non esistono nemmeno ricordi pietosi di questa utopia, ma Dante Bini è vivo, rilascia interviste e non ha nessuna intenzione di crepare. Vive a San Francisco dopo aver costruito cupole per un decennio in Australia, silos in Pakistan e, si mormora, installazioni militari negli Stati Uniti. Ha ottantacinque anni, esibisce la montatura frivola dei suoi occhiali, camicie di buon taglio e mi sorride placidamente dallo schermo di YouTube.
All’incirca dieci anni fa è iniziata una nuova attenzione al suo lavoro: interviste su magazine della San Francisco bay, un riconoscimento diretto da parte di Rem Koolhaas, un documentario sulla sua biblioteca costruita a Melbourne e sul suo periodo australiano, un cortometraggio sulla villa di Antonioni. Infine un libro e una mostra del politecnico di Milano di un anno fa che cerca di ricominciare il discorso dalla tecnica: Mechatronics di Antonio Pennacchio e Giulia Ricci.

Qualche giorno fa non sapevo nemmeno se Dante Bini fosse vivo, cerco Giulia Ricci su facebook: 4 amici in comune, bene, posso sperare di non essere scambiato per un maniaco. Sono in un bar con una nuova gestione cinese a porta Mascarella mentre aspetto che arrivi l’ora dell’appuntamento telefonico con Giulia. Giulia è davvero molto giovane, molto decisa, molto competente e mi dice più o meno tutto quello che so ora su Dante Bini. L’ha incontrato per Mechatronics ed è evidentemente affascinata dai modi di questo ottuagenario. Arrivo alla mia domanda più importante: Dante Bini ha un’opinione su come siano cambiati i fruitori delle sue discoteche? Pausa. No, ha costruito centinaia, migliaia di strutture, di molte non ha ricordi.

A questo punto mi piacerebbe poter scrivere che le Cupole di Castel Bolognese sono una rovina che ci interroga da un piazzale di sterpi in una piega della pianura, ma non è così. E’ un impresa florida: balli di gruppo, baby disco domenicale, grandi orchestre di liscio e da due anni ci fanno anche la pizza. 4087 followers, un logo rifatto con Microsoft paint, volantini in cui ogni font, ogni palette è lecita. Due signore vestite in abito da sera circondate dai sette componenti del complesso in giacca bianca e camicia nera mi ricordano che l’orchestra ‘Nuova Romagna Folk’ mi aspetta. Ingresso + pizza + birra o bibita + dolcetto = Uomo 17,00€.
Se solo evitassero di chiamarla discoteca.

Al tramonto sul mare di Gabicce del 1974 corrisponde un’altra data, sulla lapide: un’alba livida del 1996 in Piemonte.
L’Ultimo Impero, una delle rovine più amate da droni e fotografi.
Una discoteca che fu, per un periodo, la più capiente d’Europa, 8000 persone.
Ad Airasca, alle porte di Torino, venne costruita in tre anni di lavori da una civiltà che dovette credersi millenaria: resta come monito e monumento all’ambizione, all’avidità, a ricordarci di quel periodo di massima espansione che coincide con la morte. L’apoteosi della discoteca delle cubiste, delle multipiste, dei vocalist (Gradiska, Franchino, Zicky il Giullare, Joe Tequila), della contessa Pinina Garavaglia, immensa, smisurata, condannata fin dal nome.
D’ora in poi non ci saranno più DJ residenti ma solo label, one-night e serate.
Addio discoteca, benvenuto club.

Le Cupole di Castel Bolognese sopravvivono ibernandosi e regredendo ad una forma di vita precedente: il dancing, la balera.
Dall’esterno sembra un cargo cult, indigeni che hanno visto gli aeroplani e si stringono al centro delle loro semisfere nella speranza che ritornino, carichi di doni, per salvarli.
In un parcheggio periferico della provincia ravennate apparve un’astronave, cinquanta anni fa. I viaggiatori spaziali che vi atterrarono ritennero di non tornare.

Dante Bini è vivo, noi siamo morti.

Link

Il libro Dante Bini | Mechatronics
di Antonio Pennacchio e Giulia Ricci
http://www.postmediabooks.it/2016/150dantebini/9788874901500.htm

La brochure originale della ditta BiniSystems
www.binisystems.com/oldsite/Binishells%20SpA%20Brochures.pdf

La pagina Facebook della discoteca le Cupole di Castel Bolognese
https://www.facebook.com/lecupolediscoteca/

Lucio Apolito è parte di Opificio Ciclope.
Opificio Ciclope sta lavorando ad un progetto di documentario sull’era aurea delle discoteche: Disco Ruins.

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