In god we trash

Daniele Caspar
ZombiePost
Published in
10 min readOct 25, 2017

Zomboot hill e altre storie

Olofsson Hotel, Port-au-Prince. Seduto sulla veranda di questa vecchia villa trasformata in albergo, sulle prime pendici collinari che si alzano a nord della piana di Port-au-Prince, fumo tabacco nell’illusione di un quieto isolamento dalla città. Il fumo si addensa sopra la mia testa come un volume azzurrognolo e compatto in questa aria stagnante e densa. Le molecole indugiano e fanno gruppo, vapori e odori acquisiscono una consistenza materiale. Vedere gli odori. Il mio fumo è una coltre protettiva. Ma questo muro non serve a molto; da sud, da est o da ovest, si annunciano altre armate clangorose che avanzano lente. Sono i fumi delle spazzature bruciate in mucchi sulle strade. Se ne distingue anche da lontano la composizione disordinata dei singole corpi con le loro insegne: il bluastro del pet, il bruno aranciato del fogliame di palma, il grigio giallo dei cartoni, il rosso amaranto delle ramaglie.

Non è comune che la spazzatura venga ammucchia e bruciata o raccolta. Il grosso del lavoro è affidato all’acqua; acqua piovana che qui cade spesso con violenza, e che spazza via tutte le scorie che incontra per farle confluire in rivi e poi in fiumi e infine, se le piogge assumono la dovuta portata, in mare.

Le dimensioni acquisite negli anni da Port-au-Prince, non garantiscono più la perfetta efficenza di questo modo di trattare lo scarto. I fiumi che escono dalla città hanno acquisito l’aspetto incredibile di canyons, con gole e scarpate alte anche molti metri, composte da ammassi variopinti e innaturali di cose e forme di origine umana. Il gesto rituale più semplice, poco importa che lo si collochi, qui, nella tradizione vodoo, è farsi cadere a piene mani dell’acqua sulla testa; stando in posizione eretta l’acqua deve scendere dal vertice pineale del cranio. Cade e scendendo irrora il corpo defluendo tra le dita dei piedi nel suo corso, verso la terra e da lì disperdersi. A monte c’è la cascata che è il luogo sacro per eccellenza; a valle il mare, che è il luogo dove tutto si dissolve in una immensa memoria collettiva.

Overlookfsson

Jean-Jacques D., è un camereiere dell’Olofsson. Un anziano compassato e distinto, il sorriso compiacente di chi sa molto ma non te lo fa pesare (questo albergo ha alle spalle una storia anche più complicata di quella immaginata da Stephen King per il suo Overlook in Shining); compare e scompare dalle living-room dell’albergo; scruta incuriosito sui pochi nuovi ospiti e a volte indugia con loro con brevi scambi di cortesia: sonda sottile, ascolta, assente, consente. Sospetto una sua appartenenza alla tuttora vivace massoneria haitiana. C’è in ogni caso una certa intesa, ed è importante: bisogna muoversi da qui, bisogna trovare una soluzione che non è scontata, la tentazione di non uscire può risultare soverchiante.

Prime ricognizioni in città. La discesa è impervia, non tanto per l’angolo di inclinazione della pendenza, quanto per l’esercizio continuo di attraversamento che ti costringono queste strade a loro volta attraversate da rivoli fognatici, cumuli di cose, crocicchi di persone, l’incedere massiccio e aggressivo dei suv, lo sferragliare dei tuk-tuk, lo sgusciare indemoniato delle moto. Ogni passo è un impedimento risolto da un’arte della contrattazione che è da imparare in fretta, molto in fretta.

Andare a trovare Andre E. nel suo quartier generale, innanzitutto. Avevamo avuto un suo numero di telefono da Leah G., ma non risponde mai; alla mail sì e scrive che è in città nel suo studio. Provare quindi con la moto; ad ogni angolo di strada ce ne sono alcune.. chaffer adolescenti appoggiati su queste 125, 170 cinesi tirate a lucido che hanno una fondamentale estensione del seillino: ci si può andare in tre, o anche in quattro, se dotati di corporature haitiane. In tre ci stiamo più che comodi. Funziona, il garson (in creolo la c si scrive s) ci porta veloce da Andre. Il suo ‘studio’ occupa un isolato di baracche in lamiera incastonate tra le rovine post-terremoto degli edifici della Grand Rue. Nel primo chiosco un ragazzo taglia i capelli ad un altro ragazzo; sul retro si intravede un brulicare di attività. Una grande scultura incombe nel primo cortile; è fatta in lamiere, parti meccaniche, scocche di computer, pezzi di legno. Una ragazza ci intercetta con lo sguardo: diciamo che stiamo cercando Andre. Ci indica che sta di là, nel cortile successivo. Passiamo la seconda soglia: una grande bobina per i cavi elettrici fa da tavolo, cinque persone giocano a domino all’ombra di un muro in cemento; interrompono per un attimo il gioco, per guardarci; quattro sono giovani, il quinto non si può dire, ma quando si volta ci si ricnosce all’istante. Ha i capelli cortissimi, quasi a zero, come una peluria dorata (è la luce); occhi che sembrano cangiare tra il celeste e il nocciola. Una corporatura robusta a tratti delicatamente pingue. Ho la strana impressione di conoscerlo già; forse il fatto è che mi ricorda Genesis P. Orridge. Fa incredibili sculture cyber-vodoo, è un virtuoso. E’ -come dire- a capo di una vasta organizzazione di street artist che nasce in quello sloom propagandosi piano piano nel resto della nazione; o quanto meno li sta ispirando. Incontremo in molti luoghi, ad Haiti, i segni di questa confraternita che sa usare il machete -attributo dei Tonton Macoute- per scopi civili.

Red Devils

Cimitero di Port-au-Prince. Il grande quadrilatero che contiene le tombe monumentali di Port-au-Prince, ospita anche la storia di questa nazione. Un vialetto centrale ed il perimetro sono gli unici riferimenti per orientarsi in una città dei morti altrimenti cresciuta secondo i criteri di uno slum. Ma è un coas ordinato dal rigore geometrico dei mausolei che lo popolano, costruiti secondo rigide geometrie numerologiche (3X2). I terremoti hanno aggiunto il loro tocco facendo sprofondare alcuni cubi nel terreno, dandogli una inclinazione che ripete, per accidente, l’inclinazione dei timpani triangolari che coronano spesso questi mausolei dipinti in toni chiari, azzurro, verde acqua, rosa pallido e bianco. Intricati bassorilievi geometrici rafforzano il geroglifico metafisico di questo agglomerato, dove le iscrizioni ricordano le vicende dinastiche di gente proveniente da mezzo pianeta: inglesi a fianco di ebrei a fianco di italiani a fianco di francesi in mezzo ad haitiani in mezzo a libanesi e siriani. Baron Samedi ha accolto tutti loro e veglia sui loro simboli e cognomi. I ruderi della tomba di Papa Doc (famiglia Duvalier), raso al suolo non solo per colpa del recente terremoto, introducono al sentiero che tra altre tombe conduce all’altare di Bacalou, Lwa della vendetta. Contrariamente a quanto si può pensare, i Lwa non sono frequentati solo dagli anziani, contadini rugosi e decrepite superstiziose. Un esemplare molto urbano di una ventina d’anni, occhiali e completo scuri, compie il suo breve rituale: tre passi avanti, due indietro, tre avanti; si arrampica sull’altare e accende una pipa irrorando di fumo le insegne del Lwa; bisbiglia qualcosa ad un orecchio invisibile. Soddisfatto, con un ghigno, se ne va.

Sul lato opposto del cimitero, intorno all’altare di Baron Samedi e Maman Brigitte, una giovane donna brucia le sue offerte con fare sbrigativo ed esperto. A fianco sulla stessa scena: una edicola coperta, sopraelevata di un metro o due, forse appartente ad una tomba abbandonata un tempo intonacata di bianco, tre ragazzetti incastrati quasi con le teste al soffito impovvisano un rap creolo sul suono diffuso dallo speaker di uno smartphone; muovono passi sincopati, un po’ piegati su se stessi, hanno jeans neri, magliette e nike rosse. Tutto si consuma come in un veloce abbaglio, anche se non si percepisce alcuna fretta.

Hells Angels

Suv, moto e tuk-tuk; non ci sono altri mezzi per muoversi nel paese via terra; le strade sono poche, strette e in larga parte dissestate. Il traffico si impesta con niente, per niente, in estenuanti code che trovano soluzione grazie a leggi proprie o le occulte abilità psichiche dei guidatori; niente semafori nè strisce pedonali, cartellonistica stradale rara e di concenzione barocca. Frequenti gli incidenti: camion rovesciati sul fianco e macchine con le ruote in su; moto distese di sbieco al centro della strada. Non stupisce che il noleggio dei mezzi abbia prezzi stratosferici. Sono perlopiù utilizzati da funzionari politici e piccoli oligarchi, agenti delle Ong e dell’Onu (in versione bianca, perchè più buoni). Ma sono lenti; si intasano e intasano le strade; pericolosi di notte, chiedono di ospitare oltre a conducente e passeggeri un contractor, guardia armata o body guard a tua scelta.

Il trasporto pubblico vero e proprio non esiste; ma esiste quello collettivo gestito dai privati, che offrono -mille padroncini- una pletora di soluzioni più o meno sconquassate di ferri autoassemblati e riciclati; pittoresco a vedere, un po’ più faticoso a praticare; imprevedibili i tempi, caldo e sovraffollamento sovraumano.

I moto-taxi, infine; sono utilizzati quasi eslcusivamente per passaggi urbani e sub-urbani. Dicono siano molto pericolosi; ad Haiti non si usano i caschi, le strade son quello che sono, e son governate da una gerarchia di passo non detta ma guai a sgarrare, ti buttano fuori strada.

Ma è un esperimento da tentare. Forse è anche il fatto di non voler avere a che fare con questi chauffeur scafati, tutti un pò avanti con gli anni, parte di una sorta di racket delle licenze che riesce a fare impallidire anche quella delle peggiori tra le città italiane. Ci si prova: lasciare la città; tariffa a giornata e kilometraggio (un litro di benzina costa tre euro e cinquanta) condivisa a grandi linee prima, e congugliata poi. Spesso è l’occasione di un primo contatto tra giovani haitiani e stranieri strani. Diventano in fretta buoni amici, guide improvvisate e compagni di gita. Sguardi incrociati, antropologia cannibale.

L’ultima conoscenza fatta in questo modo. Dopo aver già compiuto assieme due discrete imprese, l’accordo è di accompaganrci all’areoporto per una certa ora. Passa il tempo e lui non si presenta; non ha un telofono (troppo giovane, quello che guadagna preferisce spenderlo per studiare). Si assolda quell’altro tizio appaggiato alla sua moto sull’angolo della strada. E si arriva in tempo, al filo; fatte le pratiche di imbarco, un ultima boccata d’aria fuori dal terminal, prima di affrontare l’inferno della catena del freddo aereoportuale. Lui è lì fuori, sorridente, arrivato per suo conto. Gli indico l’ora allargando le braccia, sorrido e gli chiedo ..non hai orologio e ti regoli col sole?.. indica il polso -che non ha l’orologio- e sfoggia un sorriso ancora più ampio. Jules Tout-le-Garcon è il suo nome.

Zomboot hill

Île-à-Vaches. La scena è qui campestre, arcadia nel cuore di un’isola minore. Sulla destra, un declivio ospita una scena animata: intorno alla casa, sotto all’ombra degli alberi, uomini e donne sono seduti sulle sedie; silenziosi, composti, vestiti con completi che dispiegano tutta la gamma dei toni di grigio, fino a quello più scuro, il nero. Nere e lucide le scarpe, cravatte sobrie su camice bianche o grigio chiaro. Gli occhi guardano non si sa dove; girano in sincrono uno sguardo intenso e assente su di noi per poi tornare inavvertitamente alla loro originaria occupazione. Nella penombra, in questo accordo cromatico, anche il colore della pelle dei volti e delle mani, appoggiate sulle ginocchia, sembra intonarsi alla palette cinerea. Una costruzione azzurra se ne sta in disparte, posata sull’erba, a una decina di metri dall’abitazione.

Le tombe haitiane si presentano come dei cubi, are/mausolei/condomini; sono colloquialmente chiamate ‘caveau’; conservano in effetti le ossa degli ancestori, in appositi compartimenti, due file di tre, simili ai colombari. La veglia funebre è per un anziano, morto all’età di 160 anni; ci viene ripetuto con convinzione, non c’è da metterlo in dubbio.

Il dubbio sorge dopo; è per reticenza che non abbiamo in alcun modo mai affrontato là il tema degli Zombies. Ci sono, dove sono, cosa sono, che significano. Ma in quella collina in qualche modo, erano presenti o evocati. L’inverosmoglianza del non morire apre una prospettiva allucinata. Più volte la sensazione che il giorno sia notte. Che questa luce diurna si ingeneri per un effetto-inversione tutto mentale e i cui toni abbacinanti oscurino in realtà la visione in una stasi percettiva che sembra provenire dal sonno, da un sonno profondo e di deaumbulazione idiota. Di giorno le campagne son deserte. I lavori, la vita, cominciano al calar del sole e poi, la notte, dove la vita, quella rigogliosa dei viventi, riprende finalmente slancio.

Il tema dello zombie, acquisisce in questa epoca una portata politica, laddove questa vita, che si vuole oggi nuda, tutta visibile, ossia completamente svelata, oppone con il suo non-moririe una resistenza ottusa, si ammanta di negligente vaghezza, scambiando la notte per il giorno.

Solar island

Ilet Permanotis. Isola minore di un’isola minore, Ilet Permanotis si raggiunge in mezzo’ra di navigazione da Île-à-Vaches e rappresenta bene quanto di più remoto si può trovare ad Haiti. E’ un affiorramento di sabbia con una circonferenza di poco superiore ai cinquecento metri. Nonostante le dimensioni ridicole, è densamente abitata da una popolazione di pescatori che hanno saturato la sua superfice con piccole costruzioni in fibra vegetale. Le sabbie libere danno rifugio a minsucole imbarcazioni intagliate nei tronchi e fornite di una singola vela triangolare ricavata dalla giunzione di sacchi di riso. Le reti adagiate ad asciugare al sole occupano lo spazio rimanente. Non ci sono coltivazioni ma qualche animale, dei polli: il mare con gli anni offre sempre di meno. In mezzo alle abitazioni, nel punto più elevato dell’affioramento, è piantato un palo di legno. Appoggiato al palo un pannello solare da cui diramano come tentacoli cavi di alimentazione. Qui, come in molti luoghi di Haiti, il sole tiene in vita telefoni e curiosi sound systems. Sono valigette compatte, dotate di maniglia e due speackers interni; su uno dei lati stretti, un semplice ma esaustivo sistema di controllo: volume, equalizzazione, menu che, via bluetooth, consente la gestione di file provenienti da dispositivi esterni. La scatola incorprora al suo interno un sistema di led luminosi multicolor, che si animano sulle basi ritimiche dei pezzi suonati. Di notte l’isola è buia; ma sotto la luna, in mezzo alle tenebre, si è acceso un lampione.

(fine prima parte)

--

--