Architettura: olografia versus autografia
Il Corriere Fiorentino e la mostra “Visions of Paradise: Botticini’s Palmieri Altarpiece” alla National Gallery di Londra (passando per l’Alberti e Victor Hugo)
Indice:
- Ὅλος (hólos), o dell’Intero Omologato
- Dal disegno di rilievo al restyling 3D
- Rilevare il monumento, rivelare il documento
- Museo degli orrori: il turbamento della conoscenza
- Architettura è Conservazione
- ‘Quid tum’: ritorno all’hardware
- “Meravigliosa risonanza e risonante meraviglia”
Ὅλος (‘hólos’), o dell’Intero Omologato
Che cos’hanno in comune la mostra “Visions of Paradise: Botticini’s Palmieri Altarpiece”, aperta presso la National Gallery di Londra fino al 28 marzo 2016, e la relativa recensione firmata da Eugenio Tassini sul Corriere Fiorentino? Entrambe sono il riflesso di una grave distorsione culturale diffusa tra chi pensa all’architettura, alla storia urbana e alla cultura materiale come a immagini stereotipate prive di consistenza fisica, come a ologrammi sottratti al divenire nel tempo, all’uso, alle culture artistiche e alla dimensione fenomenica, come se fossero cionondimeno articoli destinati ad essere esposti sugli scaffali di un supermercato.
Del resto, l’articolo pubblicato sul Corriere auspica la logica del marketing per promuovere le risorse culturali costruite e museali come se fossero startup suscettibili allo stato in cui languono i rispettivi account sui social network più diffusi, anziché e prima di preoccuparsi della conservazione di quelle risorse e renderle oggetto di conoscenza tra quanti non sono abituati a considerarle nella loro complessità di valori e significati. Il che accade regolarmente in tutto il mondo, ma soprattutto in quello anglosassone.
Coerentemente con questa visione, la delusione denunciata dall’Autore nel confronto con un’eccellenza italiana (“gli Uffizi di Botticelli”) lo spinge verosimilmente a supporre e auspicare che tutti i musei del mondo debbano evolvere omologandosi a uno schema unico, globalizzato e indifferente alle diverse storie culturali e mentalità, senza evidentemente farsi sfiorare dall’idea che, così come è presentata nel video diffuso sul web, la mostra di Londra possa probabilmente rappresentare l’unico modo per stimolare nel pubblico locale e internazionale un minimo di curiosità per quella complessità storico-architettonica che distingue le città italiane nel mondo.
In un’epoca in cui la realtà virtuale pare finalmente, e paradossalmente, a portata di mano nella sua tridimensionalità artificiale e immateriale, l’iniziativa descritta è in effetti assolutamente ed esclusivamente adatta a una platea insensibile a una dimensione non mercificata e realmente non bidimensionale della cultura, a destinatari rimasti all’oscuro di cosa siano le stratificazioni materiali presenti sia pure in misura diversa in tutti i nostri centri storici, perché abituati a vivere in luoghi gestiti secondo criteri per lo più estranei anche nelle dichiarazioni di principio al concetto di tutela conservativa della fisicità del costruito. Una platea abituata a frequentare musei che generalmente non sono essi stessi edifici di interesse storico o monumentale inseriti in un tessuto urbano altrettanto storicizzato.
« Ecco, io penso che i musei, alcuni musei, servano precisamente a questo: a rafforzare, per quanto lo consente la loro limitata sfera d’azione, il senso di appartenenza (…) » | Fredi Drugman, ‘Alcuni appunti per una lezione’, 1997
Se è vero che la funzione didattico-educativa è propria dei musei, mentre questa funzione è in realtà eminentemente civica, di servizio pubblico e di relazione attiva e affettiva possibilmente biunivoca con il contesto sociale e persino politico, è vero anche che essi dovrebbero stimolare cultura e scienza e alimentarle in profondità anziché fornire ai frequentatori schemi banalizzanti e semplicistici, consolatòrî e rassicuranti; fare cioè dell’utente un appassionato amante e non un consumatore ottusamente acritico.
Dal disegno di rilievo al restyling 3D
La modellazione digitale tridimensionale è uno strumento relativamente recente che in ambito architettonico risulta particolarmente apprezzato per motivi di funzionalità connessa al mezzo tecnologico, ma anche per la possibilità di produrre immagini di estremo realismo, che sono alla base dell’immediatezza della percezione dei significati visivi anche da parte di chi abbia una scarsa dimestichezza con la decodifica degli elaborati grafici prodotti secondo le più tradizionali tecniche bidimensionali: piante, sezioni, prospetti.
Neanch’essa si sottrae tuttavia al principio fondante di qualunque altro metodo di rappresentazione in scala di un oggetto reale: alle dimensioni e alla possibilità di fruizione concreta della restituzione grafica corrisponde sempre una selezione dei caratteri dell’oggetto rappresentato che si attua attraverso la scelta di un rapporto di scala adatto a un’illustrazione sufficientemente chiara e dettagliata dei contenuti esaminati. Rapporto che è a sua volta funzionale allo studio di particolari aspetti del manufatto edilizio, analizzati di volta in volta in modo tematico (caratteri geometrico-stilistici, spaziali, tecnologici, stato di conservazione, fasi costruttive, etc.), tralasciandone altri.
Ma l’utilità di un modello digitale generico e privo di adeguati riscontri nella realtà, mostrato frettolosamente in un video destinato al mercato anglosassone o almeno anglofono, non sarebbe chiara neanche se si intendesse fornire a un pubblico con un minimo di educazione estetica un’idea dell’impianto spaziale generale di un oggetto architettonico complesso quale è un edificio perduto su cui la città storica si sia fisicamente e simbolicamente sedimentata.
Sedimentazione che anche nel caso della chiesa fiorentina trecentesca di San Pier Maggiore, modificata nel Seicento e demolita nel tardo Settecento, ha lasciato testimonianze materiali notevoli, come quasi sempre avvenuto in Italia grazie a quel minimo di sensibilità filologica per le tracce storiche che tendenzialmente da noi sopravvive persino nei frangenti di più abietta speculazione edilizia ai danni del contesto esistente, secondo una mentalità praticamente assente ormai anche nella Londra della National Gallery oltre che nel resto del mondo. Mentalità che tuttavia non manca affatto, che ne siano o meno consapevoli, a uomini e donne abituati fin dalla prima infanzia ad aggirarsi per i centri storici del Belpaese.
Il punto è probabilmente un altro, ossia che la reale finalità della mostra “Visions of Paradise” e del prodotto audiovisivo basati sulle indagini dei ricercatori inviati a Firenze risiede verosimilmente in una volontà che non è tanto quella di favorire l’apprezzamento della meravigliosa ricchezza storico-architettonica di un brano del tessuto edilizio fiorentino modificatosi nei secoli e di una sua eccellenza artistico-monumentale scomparsa, quanto, come già accaduto con eventi espositivi di quel paese centrati su risorse culturali italiane, nell’esigenza di “valorizzare” quelle che, più che come opere d’arte, sembrano volersi proporre al meglio come “prodotti nazionali”. Ottenuti attraverso un sapiente ma piuttosto capzioso processo di appropriazione e/o restyling di opere d’arte e risorse culturali non necessariamente sottoposte alla propria giurisdizione.
O quantomeno della loro immagine più superficiale, immancabilmente presentata con accenti, tecniche e riferimenti estetici degni di una campagna pubblicitaria. Obiettivo che nel caso specifico dell’evento londinese è stato raggiunto in modo all’apparenza altrettando creativo, grazie alla chiara visualizzazione della collocazione originale della tavola quattrocentesca raffigurante l’Assunzione della Vergine di Francesco Botticini e del trecentesco polittico dell’Incoronazione della Vergine di Jacopo di Cione (detto il Robiccia) e bottega, fiori all’occhiello della collezione londinese già ospitati fuori dal contesto sacro in cui erano anticamente collocati.
Rilevare il monumento, rivelare il documento
Non si capisce peraltro, e il video non ritiene utile specificarlo, su quali fonti documentarie certe, e diverse dalle tracce “archeologiche” di vari frammenti murari, membrature ed elementi strutturali inglobati dalle facciate o nascosti nei vani dei successivi palazzi circostanti, sia basato il modello ricostruttivo virtuale di San Pier Maggiore. O quali fossero i diversi e specifici attributi delle singole colonne e dei capitelli delle sue navate, come delle finestrature, della struttura della copertura o delle varie altre e multiformi parti costitutive del complesso organismo architettonico.
Forse chi ha concepito il video e gli stessi autori della ricerca li considerano dati superflui e non sufficienti, come anche il recensore suggerisce sul Corriere, “a raccontare una storia, arrivare a più persone possibili, non solo agli appassionati di arte o agli esperti”, ritenendo più importante illuderli con una configurazione che, nella generale tendenza omologante rivelata dal suo aspetto, potrebbe essere generica e arbitraria anche se fortunatamente soltanto virtuale, e la cui proposta non ha niente a che fare con i compiti di una seria istituzione museale.
Se così non fosse stato, sarebbe stato il caso di soffermarsi più seriamente sulla documentazione consultata o prodotta, magari esibendola nel dettaglio come richiesto dal suo fondamentale ruolo di supporto scientifico alla mostra. E facendone materiale degno di essere adeguatamente illustrato anche nel video di presentazione.
Il video spiega che una delle fonti usate per il modello virtuale tridimensionale di ricostruzione di San Pier Maggiore è rappresentata dall’immagine del modello della chiesa stessa che il personaggio di San Pietro regge nel polittico trecentesco di Jacopo di Cione (fratello del più famoso Andrea, detto L’Orcagna), come spesso avviene nei dipinti medioevali e rinascimentali i cui temi e programmi iconologici si fanno racconto che mescola terreno e ultraterreno.
La scheda sul sito del museo aggiunge:
«To better understand the original function and contexts of both works, the show will include a specially designed three-dimensional digital architectural reconstruction of the church of San Pier Maggiore, a building largely destroyed in the 18th century, using surviving archival, archaeological and visual material» | Nationalgallery.org.uk | link.
Ma l’accenno al suddetto “surviving archival (…) material” non è esattamente l’indicatore più convincente di ciò che si intende per rigore storico-filologico e tecnico-scientifico, senza contare che per le ricerche su cui basare una mostra di tale profilo presso la National Gallery di Londra sarebbe stato come minimo opportuno eseguire un approfondito rilievo metrico originale dello stato attuale del sito. Magari da illustrare innanzitutto proprio mediante la bidimensionale efficacia descrittiva di piante, sezioni e prospetti, presupposto tecnico e metodologico ineludibile di qualunque suggestiva immagine tridimensionale e sempre attuale strumento di conoscenza di vecchia o vecchissima scuola, da supportare con le più moderne tecnologie analitiche di cui la gloriosa istituzione londinese sicuramente dispone. Oltre che titolari di una suggestione estetica innegabile che non pare fuori posto in un’occasione pensata per “raccontare l’arte”.
«We combined conventional site surveys and the latest photogrammetric techniques, that stitch together digital photographs to create 3D-models»
Il citato rilievo fotogrammetrico assunto come base per la ricostruzione 3D avrebbe senz’altro meritato un ruolo espositivo di primo piano in quanto cardine scientifico della rassegna, anziché di essere relegato, come pare dal filmato, a quello di mero sfondo o supplemento, quasi fosse un semplice artificio scenografico adottato per fornire un’idea generale dell’assetto di un quartiere e fare da sfondo ad una più precisa resa dell’ubicazione dei due celebri dipinti.
Ma sarebbe opportuno anche interrogarsi sui criteri scientifici seguiti per giungere alla ricostruzione, dichiaratamente ottenuta integrando rilievi nuovi e antichi e probabilmente non poco approssimata soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo verticale dell’edificio, di cui pare restino riferimenti troppo vaghi non solo nell’assetto edilizio sorto dopo la demolizione voluta in epoca illuminista (probabilmente nel 1784) dal granduca lorenese Pietro Leopoldo, ma inevitabilmente anche in rilievi datati, probabilmente cartacei, eseguiti con un margine d’errore ben diverso da quello consentito dalla moderna fotogrammetria architettonica.
Museo degli orrori: il turbamento della conoscenza
In realtà, le indagini a prima vista sommarie mostrate fugacemente nella presentazione e svolte dagli esperti della National Gallery sulle tracce superstiti durante le ricognizioni tecniche non rappresentano attività molto più evolute di quelle a cui un contemporaneo munito di un minimo di cultura generale, di un interesse non necessariamente specialistico per la storia della città e di un discreto spirito di osservazione sia spontaneamente portato a lasciarsi andare durante un pomeriggio libero dedicato a un approfondimento sufficientemente disincantato dei luoghi che frequenta.
Immediato e inevitabile il riferimento all’idea di museo diffuso, definito attraverso il rapporto tra museo tradizionale, architettura e territorio e inteso come strumento che permette di ritrovare sul campo le tracce delle vicende storiche, secondo una concezione teorizzata da Fredi Drugman, uno dei massimi interpreti della museografia italiana contemporanea. Il museo, quindi, come
«bene culturale accessibile a tutti, (…) servizio sociale e urbano da portarsi a scala di quartiere e da rendere attivamente partecipe al progetto della città» | (Mariella Brenna).
«Il museo, la mostra, non sono entità statiche, bensì una sorta di campo magnetico in cui entrano in gioco distinti e autonomi, tre elementi: chi produce gli oggetti, chi li espone, chi va a vederli» | (Fredi Drugman).
D’altra parte, e viceversa,
«Un museo è come un centro storico o un nuovo quartiere di periferia: ha percorsi, punti di fermata, possibilità di esperienza diverse, di socialità densa e rarefatta e individualizzata. Esso va dunque progettato con la consapevolezza che ci si deve appaesare al suo spazio, perché si possa spaesare il visitatore con l’esperienza di altri mondi» | P. Clemente, ‘Graffiti di museografia antropologica italia’.
e, ancora,
«La sua natura di percorso, di viaggio in uno spazio-tempo capace di trasformare e di mettere in dubbio le certezze arricchendo gli orizzonti critici, deve essere marcata da una scenografia allestiva che costruisce il dialogo con il visitatore, che proponga sorpresa, “spaesamento”, esperienza forte e non generica, interattività, stimolo a proseguire la ricerca lungo le risorse più profonde del museo (l’hardware disponibile per studi e approfondimenti)» | Ottavio Cavalcanti, ‘È del museo il fin la meraviglia’ | link
Nel suo celebre saggio del 1991 ‘Resonance and wonder’, il premio Pulitzer Stephen Greenblatt cita analogamente il caso del museo ebraico di Praga, diffuso in vari edici del ghetto e in pratica esteso all’intero quartiere di Josefov, come massimo esempio della risonanza. Un concetto su cui torneremo e che riguarda specificamente l’effetto generato nell’osservatore in relazione alla distruzione e all’assenza dovute alla precarietà, vulnerabilità e fragilità della risorsa materiale, contrapposte alla sua integrità o reintegrazione. Effetto che, secondo Greenblatt, contribuisce al successo culturale dell’esposizione.
« I am fascinated by the signs of alteration, tampering and even deliberate damage that many museums try simply to efface » | Stephen Greenblatt, ‘Resonance and wonder’ (in ‘Exhibiting cultures : the poetics and politics of museum display’, a cura di I. Karp, S. Lavine)
Per radicare il concetto nella modernità e persino nella cultura pop, Greenblatt racconta inoltre l’effetto straniante destato dalla vista di un chiosco della Coca Cola inaspettatamente trovato a pochi passi da una piramide Maya nello Yucatan, e di aver provato l’impulso di volerlo trasferire al MOMA (luogo di “intense, indeed enchanted looking”) di New York, come esempio della risonanza che si fa meraviglia.
« Looking may be called enchanted when the act of attention draws a circle around itself from which everything but the object is excluded, when intensity of regard blocks out all circumambient images, stills all murmuring voices. To be sure, the viewer may have purchased a catalogue, read an inscription on the wall, or switched on a cassette player, but in the moment of wonder all of this apparatus seems mere static. »
Incanto che non è, tuttavia, una reazione meno attinente all’intelletto. Fermo restando che un museo debba rivolgersi a chiunque, le sue funzioni dovrebbero infatti rifuggire da un intento meramente spettacolare o linearmente didascalico, a favore di un impegno culturale che metta alla prova le capacità critiche individuali e a vantaggio di un ruolo didattico maturo nel condurre il visitatore attraverso un percorso di ricerca, scoperta e apprendimento affascinante ma non per questo poco rigoroso, impegnativo, problematico.
Una critica ovviamente non ideologicamente dettata da una volontà di censura, da biasimo o disapprovazione, ma subordinata al primato della conoscenza dell’oggetto, della sua storia e della parola, intesa allo stesso tempo come strumento di indagine vivisettoria ed espressione di discernimento e inquietudine intellettuale, concettualmente sostanziata e ispirata alla ricerca delle radici teoriche, secondo l’esempio e la lezione di illustri precedenti del pensiero nel periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e l’attualità, quali Nietzsche, Heidegger, Adorno, Benjamin, Habermas, Barthes, Foucault, Baudrillard, Tafuri, Jünger, Augé, Virilio, Cacciari, Maldonado, Dal Co…
Un percorso di ricerca, quindi, tutt’altro che indifferente e, anzi, partecipe delle suggestioni più profonde offerte dal contesto architettonico dell’allestimento ed eventualmente dallo stesso progetto museografico. In grado cioè di mobilitare le risorse intellettuali oltre che emotive di fruitori opportunamente coinvolti, anziché sedarle. Liquidarli con contenuti superficiali ed elementari e umiliarli con formule preconfezionate e prive di seri fondamenti scientifici è invece quanto di peggio si possa chiedere alla funzione democratica delle istituzioni culturali.
«Vuo’ dar una mentita per la gola
a qualunque uomo ardisca d’affermare
che il Murtola non sa ben poetare,
e c’ha bisogno di tornare a scuola.
E mi viene una stizza mariola,
quando sento ch’alcun lo vuol biasmare;
perché nessuno fa meravigliare,
come fa egli, in ogni sua parola.È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente e non del goffo):
chi non sa far stupir, vada alla striglia!
Io mai non leggo il Cavolo e ’l Carcioffo,
che non inarchi per stupor le ciglia,
com’esser possa un uom tanto gaglioffo»
Ma la meraviglia dell’esperienza estetica o artistica è un sentimento ben più antico. Se essa è individuata dal poeta barocco napoletano Giovan Battista Marino (1569–1625) come centrale per chi componga versi, lo stesso stato emotivo animava già da almeno un secolo anche gli aristocratici spettatori delle Wunderkammer rinascimentali, eterogenei gabinetti di curiosità o stanze del tesoro allestite nel cuore dei palazzi del potere del Principe tra il Quattro-Cinquecento e la fine del Settecento.
Un fenomeno che resiste in qualche modo fino alla Restaurazione, con la casa-museo di Sir John Soane, e fino alle tracce moderne e contemporanee ravvisabili nelle residenze di D’Annunzio al Vittoriale, nella casa romana di Mario Praz e in quella di Federico Zeri a Mentana (Roma). O anche nel Museo Ettore Guatelli degli strumenti di lavoro quotidiano a Ozzano Taro Collecchio presso Parma, autentico «Mausoleo della cultura subalterna» che declina il tema nella chiave rurale dell’abitudine contadina del riuso, spesso legato all’esigenza di non buttare via niente per ragioni di indigenza,
«[…] ricorrendo ad esempio a restauri incredibili e reiterati, di fronte ai quali quello della giara, di pirandelliana memoria, è quasi uno scherzo» | Ottavio Cavalcanti, ‘È del museo il fin la meraviglia’ | link
Le camere delle meraviglie sono dunque esempi in cui è possibile rintracciare le più chiare origini della concezione museale passando per la storia del collezionismo. Osserva Marco Dezzi Bardeschi:
«Il museo, del resto, è pur figlio irrequieto della curiosità, del desiderio inesauribile di sapere, dell’avventura senza fine del collezionista e dunque del perenne bisogno dell’uomo di conoscere, classificare, ordinare e rendere pubblici i propri “trofei”. Che poi sono sempre state le singolarità stesse della Natura o le meraviglie dell’Arte, che nell’indescrivibile accalcato tutto-pieno delle prime Wunderkammern, piacevolmente ben convivevano esaltandosi a vicenda. Il museo della Natura e il museo dell’Artifico sono nati e cresciuti generando, come proprio contenitore emblematico, il museo d’Architettura come spazio consacrato al grande rito collettivo della comunicazione e del riconoscimento sociale» | M. Dezzi Bardeschi, ‘Restauro: due punti e da capo’.
Sul piano critico e storiografico ha inciso invece non poco sulla genesi del fenomeno museale il ribaltamento del canone classico e romantico dell’arte occidentale, secondo un nuovo paradigma di ricerca che è stato esplorato da studiosi del calibro dell’italiano Egenio Battisti, autore del poderoso L’antirinascimento, e del lituano Jurgis Baltrušaitis.
Scrive Pierluigi Panza (‘L’arte europea anticlassica’, Corriere della Sera, 10 gennaio 2007):
« Il canone classico nell’arte occidentale e, in particolare, nell’architettura, è una delle grandi cattedrali del sapere che sono state costruite a partire dal Rinascimento e rinforzate nella seconda metà del XVIII secolo. Il tentativo di ricondurre tutte le architetture al codice vitruviano (i cinque ordini, gli archetipi, le proporzioni…), sostenuto con forza nella stagione trattastica di Alberti, Vignola e Palladio, è una costruzione che ha cercato di mostrare la propria tenuta ancora nel 1963, quando John Summerson pubblicò ‘Il linguaggio classico dell’architettura’. Ma che si trattasse — come ormai messo a nudo da Michel Foucault anche per altri “epistemi” — di una costruzione del sapere, era emerso sin dagli studi sul Tardoromano di Alois Riegl e, in Italia, con il geniale ‘L’antirinascimento’ di Eugenio Battisti. »
Arte, magia, alchimia e “historia naturalis”, ma anche geografia, metallurgia, mineralogia, astrologia e bibliofilia fornivano allora le uniche categorie disponibili per interpretare il mondo in assenza e in attesa di quelle che la scienza avrebbe iniziato presto a maturare. Sono le sensazioni di sorpresa, stupore e fascino suscitate dallo spettacolo elitario ed eclettico degli oggetti più bizzarri, esotici, rari e persino orrorifici provenienti da ogni angolo del globo esplorato a placare la sete di conoscenza e l’inquietudine dell’homo melancholicus che, precursore dell’uomo di scienza agli albori dell’età moderna, aspira a risolvere il grande enigma del creato sforzandosi di riprodurre il theatrum mundi nella vertigine collezionistica del proprio studiolo eletto a microcosmo domestico.
« La Wunderkammer è quindi anche un grande memento mori poiché ogni piccola cosa, anche la più comune, ricorda la morte, la sua fine e la sua piccolezza nello sterminato teatro del mondo. » | Rocaille.it | link
Spiega ancora Dezzi Bardeschi in ‘Restauro: due punti e da capo’:
« La storia del collezionismo (che è all’origine del Museo) si muove tra devozione (sacra o profana) e mitizzazione feticista, passione per la raccolta delle cose più rare e perfino improbabili (il corno dell’unicorno, il dente da latte della Madonna, l’anello di fidanzamento di S. Giuseppe, il calice usato da Gesù nelle nozze di Caana, ecc.) come proiezione mitopoietica in un passato lontano. La stessa collezione di Ferdinando IV (del Tirolo, n.d.G.F.V.) è stata paragonata dallo Schlosser (in ‘Die Kunst und Wunderkammern der Spätrenaissance’, 1907, n.d.G.F.V.) al museo, molto popolare ai suoi tempi, di Barnum, lo scaltro affarista americano che sfruttava la creduloneria popolare e la curiosità da baraccone (il suo “più grande museo del mondo” sarà anche il primo esempio di museo mobile ed itinerante). »
Julius von Schlosser (1866–1938), prosegue Dezzi Bardeschi,
« ripercorreva la storia di alcune raccolte d’eccezione: dai grandi tesori degli ordini e delle corporazioni religiose, ai Thesauri e ai Cabinets mondani di regnanti e principi, alle raccolte di rarità curiosa (naturalia et artificialia), di oggetti mitici, cianfrusaglie, il più delle volte falsi simulacri, come ad esempio quelli accreditati agli inizi del Quattrocento dal collezionismo credulone del duca Du Berry. Con i Medici, una parte della raccolta privata, conservata a Palazzo nella galleria chiamata appunto Palatina, viene esibita al pubblico (la Galleria degli Uffizi), mentre una parte viene addirittura portata all’esterno, in piazza: l’esempio fiorentino di piazza Signoria e della loggia dell’Orcagna è, di fatto, il primo esempio di museo all’aperto. »
E ancora:
« La Camera delle meraviglie è il prodotto di un’accumulazione di oggetti e di un’esasperazione sentimentale. L’esibizione in Museo delle raccolte d’arte si realizza, all’insegna del tutto pieno, sfiorando l’horror vacui, come nella tribuna degli Uffizi del Buontalenti. » | video
Tensione intellettuale probabilmente meno antiromantica delle interpretazioni più avanzate delle antiche mirabilia ma ugualmente degna del loro spettacolo, attualizzata in termini di armamentario cognitivo e però memore dello shock estetico vissuto in quelle stanze, è proprio lo sforzo conoscitivo richiesto oggi al visitatore di fronte a materiali documentari, tecniche e strumenti di allestimento tradizionali solo apparentemente vetusti e oscuri a permettere di vivere l’esperienza museale come occasione di arricchimento personale autentico. Anche a chi non è “appassionato o esperto d’arte” o ai forzati museali dello status cool sul social network trendy.
In ambito architettonico e storico-architettonico, il lascito prezioso di questa generazione di risorse museali è rappresentato al meglio proprio dai modelli fisici e dai disegni, qualunque sia la loro età e con buona pace dell’indignato paragone dell’articolista con la mostra su Federico Barocci agli Uffizi, ‘Federico Barocci disegnatore — La fucina delle immagini’, che è visitabile fino al 3 aprile 2016.
«Gli Uffizi affidano tutta l’emozione a quando lo spettatore si troverà davanti alle opere (…)» | Eugenio Tassini, ‘Firenze, la chiesa perduta ricostruita dalla National Gallery’ | Corriere Fiorentino
È infatti soprattutto e innanzitutto grazie alla bidimensionalità del documento grafico che quello sforzo di astrazione contribuisce alla costruzione di immagini mentali adeguatamente ricche di senso ed espressive di un rapporto intellettualmente evoluto e mai banale, oggi si potrebbe dire ipertestuale, sia con l’oggetto osservato sia con la realtà a cui esso allude, svolgendo un ruolo cruciale nella percezione dell’organismo architettonico più che di ogni altro genere di testimonianza o fenomeno d’arte e cultura.
La bidimensionalità espressa dal dato materiale, quasi paradossalmente contrapposta alla tridimensionalità del supporto digitale, può quindi porsi come requisito eventualmente non sufficiente ma assolutamente necessario all’apprezzamento estetico o più semplicemente alla comprensione dell’architettura e del suo volto perturbante, per dirla con Vidler e Freud. Temi su cui il pretesto londinese può stimolare riflessioni più generali.
Architettura è Conservazione
Espressione dell’ingegno scientifico-tecnico quanto di magisteri e valori storici, estetici e simbolici, quella architettonica è un’arte o meglio una disciplina da considerarsi, malgrado il diverso parere di voci notoriamente schierate contro il fronte culturale della sua conservazione materiale, come categoricamente non allografica al pari delle altre sfere e manifestazioni della creatività umana i cui esiti siano inseparabili dalla propria evidenza fisica. L’identità dell’opera che le compete è cioè legata a valori quali:
- il rispetto — e il senso radicato nel dato sensibile — dell’autenticità degli effetti tangibili della sua produzione, fruizione e gestione
- la contingenza — definita dallo stato odierno della sua consistenza materiale — del suo essere hic et nunc di filosofica eco
- l’unicità e irriproducibilità dei segni concretamente impressi su di essa con la forza testimoniale e la rilevanza etica del documento autografo dall’insieme delle pratiche e culture che la riguardano nel senso artistico, antropologico e sociologico più ampio.
Contributi che pongono la necessità inalterabile, l’ἀνάγκη (‘ananke’, fatalità) della conservazione dell’architettura così intesa, come materia signata la cui cura è aperta a una dimensione genealogica basata sulla consapevolezza dell’incoerenza, contraddittorietà e discontinuità degli apporti passati anziché sulla loro valutazione storicamente lineare. Dimensione basata quindi sul rifiuto del paradigma storiografico dello storicismo di matrice ottocentesca, impostato sulla ricerca di evoluzioni coerenti, rassicuranti e progressive.
Dimensione altresì inseparabile da quella del progetto, sospeso tra permanenza dell’esistente e innovazione compatibile secondo linguaggi non mimetici e culturalmente avanzati, alla larga da tentazioni imbalsamatorie e in un continuo dialogo ermeneutico tra memoria e futuro. Questi ultimi si ridefiniscono circolarmente nella condizione attuale del manufatto, inteso come fenomeno sempre provvisorio che accade contemporaneamente nelle due direzioni temporali.
Osserva Laura Gioeni (‘ΑΝΑΓΚΗ n. 74/1-2015) a proposito dell’atteggiamento genealogico:
«Una siffatta impostazione della questione del Tempo e della Storia porta con sé una conseguenza determinante nell’orizzonte del restauro. Se infatti ciò che è ripetuto permane e nello stesso tempo cambia, il passato, — l’ORIGINARIO — è perduto per sempre. Ma è perduto per sempre in quanto è conservato; nella conservazione è perduto; nella tradizione diventa altro; nella continuità si allontana; nella ripetizione non è più lui.
Implicita in tale concezione è dunque l’apertura della storia al PROGETTO. La storia è il processo dialettico in atto tra permanenza ed emergenza, tra l’evento in atto, il suo provenire e le forme di possibilità che lo rinnovano. Detto in altri termini: la memoria è già progetto del futuro. Il che vale ad affermare il carattere dinamico e progettuale della memoria: memoria e progetto sono il medesimo, situati su quello stesso limite oscillante e in perpetuo movimento tra passato e futuro.
Così i monumenti, le architetture, non sono spazi fisici in sé con un passato in sé, ma luoghi di relazione e di memoria, la cui identità è la traccia di un limite in oscillazione tra le due metà symballiche del passato e del futuro.
La Storia dunque da imbalsamante venerazione riacquista utilità per la vita solo aprendosi verso il Progetto, in una visione che rilancia la Storia fatta nella storia da farsi, attraverso il superamento del Restauro verso una pratica di CURA E CONSERVAZIONE dell’esistente che non esclude ma, anzi, trova il suo senso compiuto nel progetto del nuovo. L’atteggiamento genealogico porta nella pratica del restauro la consapevolezza che si tratta di esercitare un duplice sguardo indirizzato verso ciò che si conserva, la permanenza, e, in ugual modo, verso ciò che si trasforma, il progetto.
“Genealogia” e “Progetto” indicano dunque i due poli di una corretta pratica di restauro nella direzione del superamento di una visione della Storia imbalsamatrice, come osserva Nietzsche, opposte alla vita»
L’architettura è dunque permanenza nella metamorfosi e gestione eticamente responsabile del cambiamento. Una visione opposta al tradizionale restauro inteso come alterazione, manomissione, sottrazione e travisamento materiali finalizzati al ripristino o al recupero creativo di schemi astratti e “archetipici” di “congruenza formale” o “coerenza stilistica”, dettati dalla linearità di visioni storiografiche assunte a spese del costruito come guida operativa delle pratiche di cantiere. Una visione, quella architettonica, sempre consapevole delle ragioni culturali storicamente ispiratrici dei mutevoli modi di intervento sulle risorse costruite, che tuttavia rifiuta il rango di mero strumento filologico e storiografico privo di uno specifico disciplinare.
Una visione schierata a favore di una conservazione materiale delle preesistenze che sia esente tanto da vocazioni romanticamente ruinistiche quanto da intenti nostalgici di cristallizzazione di presunte configurazioni “originali” o originarie, più spesso dettate dall’ingenuo bisogno di conformarsi alla versione inevitabilmente fantasiosa e spesso autocelebrativa di specifiche soglie di quel processo storico.
«La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile» | Charles Baudelaire, ‘Il pittore della vita moderna’ (1863).
Lungi quindi dall’esaltazione o promozione del rudere a fonte di mero compiacimento estetizzante, la conservazione architettonica giustifica e implica anzi il mantenimento in un necessario uso contemporaneo attraverso il progetto del nuovo, solitamente concepito come parte del progetto di riuso, ovvero di ridestinazione funzionale.
Progetto di adeguamento volto all’aggiunta materiale intesa in senso concettuale, funzionale, tecnico o tecnologico, come formalmente ed esteticamente autonoma ed estranea all’ossequio o sudditanza a criteri imitativi o di mimesi stilistica, e possibilmente ispirata al principio del minimo intervento e ad un profondo dialogo simbolico e iconologico con la memoria nel contesto dato, in modo tale da mobilitare le migliori risorse della ricerca culturale contemporanea in un dialogo continuo con le esigenze di aggiornamento scientifico-tecnologico. Un riuso pensato come un sistema di relazioni profonde tra contenitore, contenuto, autore e utenti (progetto di relazione), che nel caso museale assume significati culturali e civili notevoli.
« Il processo all’autore non va fatto, come troppo spesso si tende a fare, sulla tendenza all’eccesso o alla rarefazione discorsiva, ma al rapporto con i dati autentici della materia storica su cui si opera. » | Marco Dezzi Bardeschi, ‘Restauro: due punti e da capo’, a cura di Laura Gioeni.
A proposito delle relazioni profonde introdotte e indotte dal progetto nell’intervento sull’esistente, è proprio il museo, a partire dalla Rivoluzione francese, a diventare archetipo per il riuso di antichi conventi e sedi di varie altre istituzioni religiose soppresse in omaggio all’ateismo razionalista e all’antiautoritarismo di fine Settecento, e quindi a farsi stimolo per il successivo recupero in età contemporanea «di vecchie fabbriche abbandonate dal lavoro o di moderne istituzioni civili in disuso. Si parla allora di un monumento come di “Museo di se stesso”». Prima delle altre soppressioni, è in epoca illuminista che nasce il
«museo come accalcato luogo-rifugio e deposito di antichità strappate al proprio contesto genetico di appartenenza, ma risignificate ed “eccitate” in un inedito dialogo comunicativo (per epoche, tipologie, temi: il caso Lenoir insegna)». | Marco Dezzi Bardeschi, ‘Restauro’, cit.
È appunto ad Alexandre Lenoir che si deve la fondazione e lo sviluppo a Parigi, nel 1795 all’interno del convento dei Petits Augustins, oggi École des Beaux-Arts, dell’originario Musée des Monuments Français. Esso nasce, proseguendo la sua attività fino al 1816, come museo “di necessità” e con il preciso intento di accumulare, riunire e custodire le vestigia dei monumenti religiosi dopo le alienazioni dei beni ecclesiastici. Déplacer pour sauver: la rimozione e l’isolamento dal contesto originario di appartenenza diventano l’unica soluzione alla dispersione, al saccheggio e al trafugamento dei beni culturali incamerati dallo Stato e l’unico strumento per la loro sopravvivenza e resurrezione.
«Le statue dei 28 Re di Giudea vengono distrutte; si salveranno solo 21 teste che oggi si trovano al Museo di Cluny. Alla base di questo scempio c’è un errore: i rivoluzionari erano convinti che le statue rappresentassero i Re di Francia» | Viaggioineuropa.it — link.
È per iniziativa di Lenoir che si provvedererà al recupero e al salvataggio dei frammenti delle statue che avevano ornato la Galleria dei Re nella massiccia facciata della cattedrale di Notre-Dame, edificio ridotto dai rivoluzionari a spettrale ‘Tempio della Ragione’ per poi essere ripristinato a metà Ottocento da Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc e Jean-Baptiste-Antoine Lassus con un intervento esemplare di principi e metodi informatori del cosiddetto ‘restauro stilistico’. Non prima di essere sfuggito al concreto rischio della totale demolizione in epoca napoleonica grazie soprattutto alla mobilitazione di intellettuali del calibro di Victor Hugo, entrato di diritto nella cultura della conservazione architettonica in quanto autore, oltre che dell’affresco storico di Notre-Dame de Paris (1831), anche del meno popolare pamphlet significativamente titolato Guerre aux démolisseurs! (1825-1832).
«Il serait temps enfin de mettre un terme à ces désordres, sur lesquels nous appelons l’attention du pays. Quoique appauvrie par les dévastateurs révolutionnaires, par les spéculateurs mercantiles et surtout par les restaurateurs classiques, la France est riche encore en monuments français. Il faut arrêter le marteau qui mutile la face du pays. Une loi suffirait; qu’on la fasse. Quels que soient les droits de la propriété, la destruction d’un édifice historique et monumental ne doit pas être permise à ces ignobles spéculateurs que leur intérêt aveugle sur leur honneur; misérables hommes, et si imbéciles, qu’ils ne comprennent même pas qu’ils sont des barbares! Il y a deux choses dans un édifice, son usage et sa beauté; son usage appartient au propriétaire, sa beauté à tout le monde; c’est donc dépasser son droit que le détruire» | Victor Hugo, ‘Guerre aux démolisseurs’ (1825) | link.
Al più famoso episodio relativo alla galleria scultorea della cattedrale si aggiungono i frutti meno documentati dell’opera di paziente asilo offerto a un’infinità di altre opere sfregiate e rimaste vittime dell’ignoranza e della furia rivoluzionaria e iconoclasta (termine al tempo stesso inadeguato a rendere la gravità della perdita fisica e indicativo dell’indifferenza nei suoi confronti) non solo di matrice spontanea popolare e sanculotta, ma anche ufficializzata dalle istituzioni giacobine.
Del 14 agosto 1792 è infatti il famigerato decreto dell’Assemblea legislativa che ordina la soppressione dei simboli feudali e monarchici da tutti i monumenti pubblici, incoraggiando i cittadini ai più disinvolti vandalismi privati sotto il controllo del regime. Gesti che suggeriscono, inevitabile, l’accostamento agli incomprensibili sfoghi di certa barbarie contemporanea più o meno recente, con cui l’insensatezza di alcune minacce di improbabile ripristino per anastilosi sembra aspirare a competere. Quella del Musée è, comunque, una fase in cui conservare significa innanzitutto immagazzinare, ma che preclude a una risemantizzazione dell’opera che è funzionale alla sua esposizione.
In epoca napoleonica e con Milano capitale del Regno Italico, sarà invece il Museo di Brera a coagulare la nuova dimensione pubblica della funzione museale di estrazione rivoluzionaria all’interno del palazzo tardobarocco rinnovato da Giuseppe Piermarini a partire dal preesistente collegio gesuita concepito nel Seicento da Francesco Maria Richini su ciò che rimaneva di un convento trecentesco dell’ordine degli Umiliati. Fu nel 1808 che si procedette a ricavare la nuova pinacoteca tramezzando e suddividendo in due piani la chiesa conventuale di Santa Maria (costruita a partire dal 1229) e sacrificandone impietosamente alle necessità di ampliamento la splendida facciata. Decorata da un portale gotico e sculture, questa era stata completata nel 1347 in marmo bicromo dal pisano Giovanni di Balduccio, attivo a Milano su invito di Azzone Visconti anche nella Cappella di Pigello Portinari presso Sant’Eustorgio e nella chiesa palatina di San Gottardo in Corte.
«La Pinacoteca di Brera nacque a fianco dell’Accademia di Belle Arti, voluta da Maria Teresa d’Austria nel 1776, con finalità didattiche. Doveva infatti costituire una collezione di opere esemplari, destinate alla formazione degli studenti» | Brera.beniculturali.it | link.
A differenza di altre istituzioni museali anche milanesi originate, come si è visto, dal collezionismo privato aristocratico o principesco, la Pinacoteca nasce come fenomeno collezionistico di stato allo scopo di raccogliere e organizzare, grazie alla fervida attività del pittore e commissario per le Belle Arti Andrea Appiani, il patrimonio artistico sottratto ai paesi conquistati dalle armate del Bonaparte e quello acquisito alla proprietà pubblica per effetto della soppressione degli organismi religiosi (1806) milanesi e di altri dipartimenti del Regno. In questo senso, il museo milanese condivide con l’esempio parigino il carattere “emergenziale” legato, in questo caso, alla necessità del potere politico stesso di mettere in salvo le opere d’arte incamerate o trafugate dallo Stato.
Si tratta della terza ondata di soppressioni di ordini e istituzioni varie della Chiesa dopo la prima fase giacobina e teresiana (1770-’80) e prima di quella post-unitaria del 1861. Da allora, «il recupero a destinazione museale ha costituito, e costituisce tuttora, la soluzione meno traumatica, spesso auspicata ancor oggi dalle Soprintendenze, per evitare la temuta mano dell’architetto» (Dezzi Bardeschi, Restauro, cit.).
Fondato sulla destinazione ad usi compatibili con la massima salvaguardia della corporeità della fabbrica, ossia “implementabili” con scelte tecniche e formali il più possibile rispettose di essa, il progetto del nuovo ne integra il progetto di conservazione, centrato invece sul primato del cantiere di intervento e sulle conoscenze scientifiche applicate al complesso delle indagini condotte sul manufatto, e riguardanti le tecniche costruttive, le leggi biologiche e le strategie di contenimento del degrado chimico-fisico. Il progetto di conoscenza trova tuttavia i suoi presupposti ineludibili tanto nel rilievo (geometrico, materico e del degrado) e nell’approfondimento diagnostico, quanto nell’area umanistica dell’indagine storica e iconologica condotta sull’oggetto architettonico.
« Architectura nascitur ex fabrica et ratiocinatione » | Marco Vitruvio Pollione, ‘De architectura libri decem’
Esaltando con queste premesse la compatibilità di un uso responsabile e la ricerca dell’efficienza statica e tecnologica, la conservazione come gestione del cambiamento sostanzia l’unica possibile “valorizzazione” architettonica. Una valorizzazione che non si riveli generico restyling ineluttabilmente e irreparabilmente incline alle manomissioni più arbitrarie, avventuristiche e scientificamente inconsapevoli si dimostra infatti culturalmente vincente anche sul piano di un’economia della tutela del patrimonio culturale, architettonico e ambientale. Si impone la necessità di un modello economico e politico in grado di generare sviluppo e plusvalore a partire da presupposti comunque inerenti l’essenza e il pregio intrinseco di quel patrimonio, e non, viceversa, subordinando alla ricerca prioritaria dell’utile la fondamentale scelta di criteri e metodi per la sua gestione.
Tornando al tema dell’autenticità, è opportuno ricordare con Stella Casiello che
«L’autenticità in architettura va considerata in termini diversi da quelli relativi alle altre arti. L’opera di architettura non risulta da un’esecuzione diretta del progettista (iniziale, n.d.G.F.V.), poiché gli edifici subiscono nel tempo trasformazioni che appartengono alla loro storia» | Wikitecnica.it — link.
La nozione di autografia su cui si regge l’opera di architettura non va cioè intesa come prerogativa limitata all’auctoritas di un progettista o esecutore iniziale ma, per così dire, estesa a tutti quei singoli segni di scrittura del testo edificato che riguardano l’intero processo della sua esistenza storica fino alla contemporaneità, in vista della trasmissibilità alle generazioni future di un complesso e stratificato palinsesto senza il quale andrebbe persa anche l’immaterialità dei valori iconici e dei significati simbolici, cui pure è demandato il valore estetico e progettuale.
Come visto sopra, l’uso quotidiano passato e contemporaneo è circolarmente attivato dal progetto e a sua volta in grado di attivare le risorse progettuali, in modo da integrare e sugellare le pratiche conservative radicandole culturalmente nel tessuto sociale e produttivo. In questo senso esso rientra in modo specifico tra le pratiche e azioni produttrici di “scrittura del testo”.
Il che può forse contribuire a fare della fabbrica architettonica e della disciplina un caso a parte tra le attività dotate di un fine artistico-estetico e nel panorama culturale, innalzando il livello dell’impatto sulle esistenze umane con un’evidenza e una necessità pratica che, in qualche modo, aumentano probabilmente il bisogno individuale di impostare il proprio rapporto con l’architettura su un tentativo di comprensione immediata.
Considerazioni che dovrebbero procedere di pari passo con la più generale idea per cui, nella sua generalità, l’arte, intesa nel senso più ampio possibile, non andrebbe né potrebbe essere tuttavia, almeno in prima istanza, necessariamente “compresa” e tantomeno forzata a trovare una risonanza nel gusto personale, ma innanzitutto e semplicemente affrontata con l’impegno di una prospettiva conoscitiva, per essere colta e possibilmente accolta al meglio nella contraddittoria complessità del suo spessore culturale.
Senza voler affatto con ciò intendere i musei come santuari della scienza riservati a specialisti e “addetti ai lavori” o invocarne la chiusura al pubblico, ma proprio alla luce del valore etico e sociale ancor prima che culturale di questi presìdî di civiltà, questa posizione rimane lecita persino in un orizzonte più superficialmente divulgativo, che a ben vedere dovrebbe rimanere estraneo o almeno alquanto defilato rispetto alla funzione museale e, se non altro in ambito strettamente artistico, ripugnare a chiunque abbia a cuore il patrimonio culturale oppure ne avverta sia pur vagamente l’utilità.
‘Quid tum’: ritorno all’hardware
L’interrogativo è una criptica quanto ironica espressione di ambivalenza, quasi un invito probabilmente rivolto a chi senta l’urgenza di interrogarsi sul senso della fatica del vivere. Due parole forse seguite da un segno interrogativo ben dissimulato, l’ennesimo, costituiscono il motto retorico ciceroniano ripreso da Leon Battista Alberti, primo esempio storico di architetto-intellettuale a pieno titolo, in quella sorta di geroglifico ermetico da lui tracciato in più versioni e poi inciso su medaglia da Matteo de’ Pasti. Motto che pare lo sprone ideale per sfidare la conoscenza non solo architettonica: Explicanda sunt mysteria, dice l’Alberti per bocca di Consilium nell’intercenale Anuli, come ricorda un dotto e documentato saggio albertiano che dobbiamo all’acribia critica e filologica di Alberto Giorgio Cassani.
Inseguendo gli arcani riferimenti disseminati nelle molte opere vergate su carta o pietra dal grande umanista autore del De re aedificatoria, scorgiamo l’occhio alato dell’architetto dotto e prudente, capace di vedere ciò che ad altri è negato. Oltre la concinnitas vitruviana va cercata, secondo il paradigma albertiano, la visione diretta e non mediata della realtà. Quella dell’exemplum, che per Leon Battista è la fatica del rapporto quasi carnale con le vestigia della classicità romana, compulsivamente misurate e disegnate. Ma anche quella della maestria artistica capace di applicare artifici e finzioni per rimediare agli errori propri e all’imperizia e imprudenza di altri, che architettino o meno.
L’idea per cui conviene usare maschere per mettersi in gioco sulla scena del mondo traspare dalla fascinazione albertiana per le realtà nascoste, dissimulate o segrete. Ma, come un’ulteriore dissimulazione o un artificio indossato a mo’ di protesi o di maschera, l’occhio alato di chi vuol vedere oltre le apparenze permette di fatto a chiunque di mettersi in gioco di persona e penetrare financo i temibili mysteria museali nascosti oltre la facies tangibile della risorsa esposta.
Come permette di svelare anche qualunque altro universo simbolico, semantico o iconico a cui gli artefatti umani e il patrimonio culturale, e architettonico in particolare, possano variamente alludere per il tramite della propria evidenza e concretezza documentale, vecchia “ferraglia” che rimane un riferimento ineludibile e inderogabile nella sua singolare specificità, nella materialità della sua contingenza storica.
“Meravigliosa risonanza e risonante meraviglia”
Pafrasando il cavalier Marino con Dezzi Bardeschi nel titolo di un capitolo del citato saggio sul restauro, possiamo dunque retoricamente domandarci se sia del museo il fin la meraviglia. L’autore, massimo teorico della Conservazione architettonica militante, amplia il discorso osservando che quello dell’allestimento museale è, in altre parole, «il tema del monumento abitato, anzi ri-abitato da “altri” oggetti e presenze (opere d’arte, documenti di storia e di cultura)». Riprende poi le riflessioni di Greenblatt sulla suddetta capacità di generare ‘risonanza’ e ‘meraviglia’ come componenti che determinano il successo di un’esposizione:
«per risonanza intendo il potere di cui è dotato l’oggetto esposto di varcare i propri limiti formali per assumere una dimensione più ampia, evocando in chi lo guardi le forze culturali complesse e dinamiche da cui è emerso e di cui l’osservatore può considerarlo un campione dimostrativo; per meraviglia intendo il potere che ha l’oggetto esposto di arrestare l’osservatore sui propri passi, comunicandogli un senso di unicità che lo afferra suscitando in lui un’attenzione intensa»
«Credo», conclude il saggio dello studioso statunitense,
«che la forza d’impatto di molte mostre aumenterebbe se in partenza si facesse fortemente appello alla meraviglia, la quale potrebbe a sua volta generare un desiderio di risonanza (…). Le poetiche e le politiche della rapresentazione trovano pieno compimento nell’esperienza di una meravigliosa risonanza e una risonante meraviglia»
Indicando come felice esempio di rapporto tra contenente e contenuto, rapporto con il contesto e dialogo con i materiali, Dezzi Bardeschi cita, ancora, la magistrale lezione di Carlo Scarpa alla Gipsoteca canoviana di Possagno e al museo di Castelvecchio a Verona:
«L’esporre è soprattutto l’estrinsecazione, il suggerimento di uno stato d’animo di consonanza con la fabbrica e l’oggetto di conoscenza e, conseguentemente, dal progetto di cura e dal programma di riuso, al museografo e all’allestitore (brutta parola) si richiede di accendere i desideri, moltiplicare domande, sollecitare curiosità per coinvolgere, far partecipare emotivamente, commuovere. Un museo vivo deve essere capace di stimolare rapporti interattivi fisici e sensoriali, deve muovere passioni intense e appassionare all’età, ai modi di produzione e al destino (pietas — com-passione), suscitare rimbalzi tra il trascorso della fabbrica e quello dei suoi oggetti.»
Impossibile non trarre da queste parole lo stimolo, che è anche un auspicio, a trovare una perfetta continuità di intenti, a intrattenere una sorta di silenzioso colloquio asincrono che poi corrisponde al «campo magnetico» di cui parla Drugman, tra l’impegno (e l’opera) di chi progetta l’esposizione e l’esperienza vissuta dai visitatori-utenti. A cui si somma quella di chi in tempi moderni o contemporanei ha progettato, eventualmente in modi e tempi contestuali all’allestimento, la stessa funzione museale del contenitore architettonico, sia questo realizzato ex novo oppure un edificio storico sottoposto a un più o meno recente intervento di riuso o riordino.
Intervento i cui esiti, come nel caso di esempi ormai perduti o anche dell’opera di Scarpa, possono risultare essi stessi storicizzati per il loro valore culturale e dunque devono essere oggetto di conservazione. Al recente esempio dello sfregio all’opera dei BBPR se ne aggiungono altri più datati e forse meno noti al grande pubblico, di
«smantellamento di sistemazioni museografiche ormai storicizzate: come è stato fatto di recente per l’antesignano allestimento di Morelli nell’Accademia Carrara a Bergamo, dove il tutto-pieno storico precedente è stato sostituito da un “freddo vuoto”; o com’è avvenuto qualche anno fa nel S. Matteo a Pisa a spese dell’originale allestimento di Piero Sampaolesi degli anni Cinquanta: o, ancora, nel Museo Archeologico a Firenze, qui a spese dell’allestimento neoegizio del Milani. E ora è in atto una discutibile iniziativa di riscrittura museografica anche nel Castello Sforzesco a Milano (a spese dei BBPR) (n.d.GF.V.: risalendo al 2001, il testo si riferisce a stravolgimenti precedenti a quelli attuati in occasione di Expo 2015) e nella stessa Galleria d’Arte Moderna a Torino e nel Museo Archeologico a Milano che si sta pensando di trasferire nell’area dell’Ansaldo». | M. Dezzi Bardeschi, ‘Restauro’, cit.
Attraverso la partecipazione attiva e circolare del pubblico ai riti della tutela e celebrazione della “memoria del sapere” descritta da Pietro Bassiano Rossi, la funzione civile, etica e culturale del museo si dimostra dunque una ulteriore conferma della necessaria intransigenza sulla pratica di un recupero culturalmente responsabile.
Nel saggio ricordato, che è del ’99, Cavalcanti riflette sul carattere innovativo del citato esempio di Ozzano Taro, rilevando tuttavia la rottura storica rappresentata dai musei della civiltà contadina già a partire dal precedente di San Marino di Bentivoglio nel Bolognese, e respingendo l’idea sostenuta da Giulio Carlo Argan negli anni Settanta per cui «l’area della cultura collima sempre con l’area del potere: da noi le masse proletarie si sentono (e sono fatte) escluse da un’eredità culturale».
La polemica intrattenuta con il famoso storico e critico d’arte torinese, che è databile agli anni di esordio del caso bolognese di Villa Smeraldi, non impedisce a Cavalcanti di fare riferimento allo «pseudoattivismo» di chi si limita «a prendere possesso dei musei», visti negli anni Settanta da Argan come «una conquista della democrazia borghese» e come luoghi visitati «con la mentalità (o per formarsi la mentalità) del comproprietario», ovvero per succedere al «privato privilegiato come titolare di un patrimonio».
La stessa polemica non impedisce, soprattutto, una rivalutazione del giudizio di Argan – giudizio pur apparso in un testo che sul finire dello scorso secolo Cavalcanti definisce «datato quanto altri mai» –, da parte di chiunque sia interessato a riflettere su alcuni meccanismi della fruizione museale contemporanea intesa come fenomeno di massa. E quindi, ad esempio, sulla superficialità con cui sempre più spesso essa è oggi recepita e interpretata da tanti forzati della “Cultura”, oltre che gestita dalle istituzioni, come mero evento mediatico, fenomeno di moda o di costume, gesto di comunicazione, bene di consumo o persino, negata, come strumento di contrattazione affaristico-imprenditoriale.
I cataloghi delle mostre e la rete con le sue applicazioni sono pensati per un approfondimento che, utile a chiunque e a tutti i livelli, dovrebbe preferibilmente precedere la visita al museo ed estendersi quindi a tutti i temi della specifica situazione museale ed espositiva oggetto di interesse, mentre sarebbe auspicabile che le mostre di argomento storico-architettonico con qualche pretesa di autorevolezza evitassero di ricorrere a ricostruzioni poco documentate e stratagemmi narrativi pretenziosi o comunque capaci di narcotizzare questa fondamentale tensione conoscitiva.
Oppure sarebbe meglio che li lasciassero a un ruolo secondario, forse alle aree destinate all’intrattenimento dei minori o agli spazi di transito come la biglietteria e i servizi, comodi magari per riprodurre a ciclo continuo una versione multimediale più accessibile e addomesticata, quindi semplificata e inevitabilmente banalizzata, del racconto dei temi affrontati.
O, ancora, sarebbe almeno opportuno evitare che simili, molto poco albertiani espedienti fossero assunti come criterio o modello museografico per il nostro paese, in una fase cui il MiBACT (“Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo” — sic) dimostra sempre più spesso di avere a cuore una gestione del patrimonio culturale non solo subordinata agli interessi politico-diplomatici e commerciali, ma anche centrata sulla sola rappresentazione di un’immagine, magari censurata da anonimi parallelepipedi bianchi allergici all’opera d’arte esposta.
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