A proposito di un contributo di Cino Zucchi sulla ri-costruzione postsismica in Italia centrale

Dal ‘com’era, dov’era’ al ‘tutto-subito’: antichi e nuovi paradigmi architettonici tra le macerie dei Beni Culturali

Gaetano Fabio Villari
120g Magazine

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Venezia, 14 luglio 1902. Alle 9.47 del mattino,¹ dopo una scellerata storia manutentiva probabilmente all’origine di gravi dissesti culminati in alcuni inquietanti segni premonitori, crolla improvvisamente su se stesso il campanile di San Marco. Unica vittima diretta, si tramanda in assenza di conferme nelle cronache dell’epoca, il gatto soriano del custode

L’architetto e ingegnere Pietro Saccardo, proto della Basilica e capro espiatorio della vicenda, muore probabilmente di crepacuore due giorni dopo la formale riabilitazione nelle sue funzioni, avvenuta, un anno e nove mesi trascorsi «senza stipendio e senza pensione» dopo i fatti, nonostante le responsabilità inizialmente addossategli dai distratti funzionari sabaudi del competente Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti, interessati ad accreditare la tesi del “collasso per vetustà”.

In realtà, Saccardo era stato Cassandra inascoltata, tra i pochissimi a mettere in guardia dai pericoli per la stabilità del monumento e dai danni provocati da interventi più o meno sconsiderati eseguiti sulla torre nei cento anni precedenti e fino a quei giorni, con pesanti rimaneggiamenti della cortina muraria esterna settecentesca che si erano ripercossi sulla più antica mole interna di epoca altomedioevale.

Dopo lo schianto definitivo, il Consiglio comunale delibera comunque immediatamente a favore della costruzione, sullo stesso sito, di un edificio in tutto identico al precedente: com’era, dov’era.

Francobolli emessi il 25 aprile 1912 per celebrare la ricostruzione del campanile di San Marco. | link

Il fortunato, ma inattendibile, slogan, è stato coniato da Corrado Ricci [fondatore della prima Soprintendenza d’Italia, a Ravenna nel 1897,³ n.d.r.] per la ricostruzione à l’identique (questo era il programma) del Campanile di San Marco di Venezia crollato il 14 luglio 1902 ed è espressione cui si ricorre quasi istintivamente per ogni improvvisa perdita di un monumento o di un elemento architettonico d’affezione per il quale, sotto l’emozione dell’evento, la vox populi avverte di non volersi rassegnare alla irreversibile perdita.⁴

Italia centrale, fast forward fino alle tremende scosse sismiche registrate fin dalle prime ore del 24 agosto 2016. Al trauma legato alla perdita di centinaia di vite e all’esperienza vissuta dai superstiti si aggiunge quello dei danni al patrimonio edilizio e monumentale, che subito innesca il programma del ritorno all’antico splendore diffuso tramite la consueta formuletta consolatoria di marciana memoria.

«Sotto l’onda dell’emozione pubblica per l’improvvisa perdita di un Bene monumentale della collettività scatta questa rassicurante parola d’ordine d’apparente innocenza e ‘scientificità’ per riproporre, in presunta copia conforme, ciò che appunto si è perduto per effetto del tempo, di un evento calamitoso o della stessa mano dell’uomo».⁵

Contrariamente alle «dichiarazioni generiche e massimaliste»⁶ benevolmente elargite di recente da presunti guru dell’architettura contemporanea idolatrati malgrado la tragica inesperienza nel rapporto con i contesti storici soprattutto italiani, il contributo di Cino Zucchi al dibattito sulla ricostruzione delle zone terremotate presenta elementi di interesse soprattutto nel suo schierarsi problematicamente, e dunque non sempre linearmente, a sfavore di uno slogan anacronistico dato da molti immediatamente per scontato non appena, come osserva Dezzi Bardeschi, si profili il dibattito più scalcinato sulla scia di una qualunque ferita — attentati, catastrofi naturali, crolli e dissesti dovuti a incuria o a imperizia progettuale— inferta alle architetture e al territorio italiani.

La voce di Zucchi è autorevole anche per il fatto di muovere, pur al di fuori del dibattito sulla conservazione architettonica, da una ricerca progettuale animata da una profonda coscienza storica e da un maturo senso del contesto urbano. Unitamente alla finalità divulgativa, è forse il fatto che la tematica storica resti sullo sfondo della sua attività progettuale a portare l’autore a richiamare l’‘equivoco stilistico’ secondo significati opposti a quelli con cui la nozione si presenta generalmente nel dibattito disciplinare sulla dialettica tra antico e nuovo in architettura.

La menzione del ‘falso stilistico’ è infatti riferita in questo caso a un rifiuto della coesistenza delle due componenti in gioco in nome di un’astratta e sempre soggettiva idea di coerenza o purezza formale che bolla come improponibile qualunque intervento non si limiti a ripristinare una facies architettonica. Atteggiamento di chiusura che ha radici antiche e che sempre più spesso è oggetto di un consenso generico quanto sprovveduto, con una polarizzazione registratasi in seguito alla realizzazione delle discutibili new town richiamate da Zucchi e più o meno recentemente realizzate in Italia in seguito ad eventi geosismici di vasto impatto fisico ed emotivo. Ovvero, quelle di Gibellina (terremoto del Belice, 1968), di Monterusciello (bradisisma dei Campi Flegrei, anni Ottanta) e dell’Aquila (2009).

Cino Zucchi | link

In realtà, l’architettura non è un “falso storico” se, anche all’interno di un centro antico distrutto, si rivela in grado di parlare il linguaggio del proprio tempo, espressione abusata ma utile per indicare la necessità di operare una sintesi progettuale di qualità che poggi sulla ricerca culturale più ampia e aggiornata, esprimendo i caratteri di un’autonomia — formale e ideativo-concettuale, ma anche di concezione tecnologica — che sia ispirata alla contemporaneità senza ovviamente prescindere da quelli specifici del luogo.

Senza, cioè, rinunciare a una programmazione che non sia meno colta e ispirata a energie progettuali avanzate, quindi capaci di stabilire un rapporto profondo e problematico con i segni della storia, o, meglio, con le sue tracce materiali sopravvissute o perdute, di quanto sia orientata, per esempio, all’efficienza tecnologico-prestazionale, al benessere degli abitanti e alla sicurezza strutturale. Ovviamente anche in chiave antisismica, secondo criteri che inevitabilmente dovranno risentire in misura crescente della dimensione economica e politica non meno che sociale e culturale del tema della difficile presa in carico dell’adeguamento alla normativa di settore del costruito esistente nelle aree coinvolte.⁷

Ma quel rapporto implica un dialogo ininterrotto tra saperi umanistici e tecnici che sia capace di interpretare le diverse esigenze come angoli visuali variamente riconducibili a un medesimo osservatore in movimento intorno alla fabbrica architettonica in essere o in fieri, un osservatore immerso nella società e nello spazio ad entrambi circostanti.

Tale dialogo esclude gli approcci settorialmente limitati, siano puramente storico-critici e filologici o “ingegneristici”, perché almeno di entrambi i versanti, oltre che di altro ancora, dovrebbe occuparsi il progetto di architettura con un impegno multidisciplinare e interdisciplinare che comporti un percorso di conoscenza privo di soluzioni di continuità non solo tra gli ambiti scientifici ma anche tra i rispettivi obiettivi e metodi, e che sappia integrare sensibilità e competenze apparentemente inconciliabili tramite le diverse declinazioni delle risposte fornite ai medesimi problemi. Sia esso oggetto di conservazione o di progettazione ex novo, l’edificio va dunque inteso come documento e testimonianza singolare

«della capacità […] di una determinata società in un determinato Tempo di dotarsi di architettura (per il culto, per la giurisprudenza, per l’assistenza e così via) utilizzando tutto ciò che interdisciplinariamente la ricerca di un dato momento storico ha prodotto (dai sistemi di rilevamento e misurazione, ai materiali da costruzione, ecc.)».

Come nell’opera di un abile falsario, l’architettura perde radicamento storico, autenticità e qualità se, viceversa, scimmiotta i linguaggi di altre epoche attraverso l’impossibile — per materiali, modi e tecniche della riproduzione — ‘replica esatta’ (ovvero la ‘copia conforme’ evocata da Dezzi Bardeschi) di ciò che è irrimediabilmente perduto persino quando si disponga delle parti ‘originali’ disgregate. Argomento che, in qualche modo, trova sia una premessa che una conseguenza nel sostanziarsi dell’autenticità dell’architettura non nella sua immagine ma nella materia che la compone.

Il crollo del Campanile di San Marco danneggiò l’adiacente facciata laterale della Libreria del Sansovino. | link

La ricetta a base di ‘rammendo edilizio’ e ‘leggerezza’ d’intervento offerta da Renzo Piano per la ricostruzione delle aree colpite dal sisma del 24 agosto potrà allora essere seguita esclusivamente nel senso della ricerca di una cauta e problematica ma originale innovazione che si giustapponga senza prevaricazioni e indiscriminate sottrazioni materiali alle tracce superstiti, consentendo di elaborare il lutto di ciò che, purtroppo anche nel dominio del costruito, non può essere rianimato — sia detto con il massimo rispetto per le perdite umane — se non con effetti patetici degni di uno sbiadito dagherrotipo post-mortem di epoca vittoriana. Si impone cioè un approccio progettuale all’insegna della consapevolezza teorica e teoretica, aspetto di cui nel summit per la ricostruzione non è giunta traccia.

È dunque impossibile evitare di auspicare uno scarto culturale che, dalla macabra prospettiva di una ricostruzione imitativa ispirata a resuscitare spettri di realtà purtroppo irreversibili, guadagni quella di una possibile ri-costruzione fondata, attraverso una solida cultura del progetto, sul recupero del contesto ferito alle funzioni (abitativa, produttiva, culturale, religiosa etc.) della comunità secondo scenari esistenziali originali, disincantati e culturalmente consapevoli, ovvero secondo l’ottemperanza di istanze sociali che devono prendere atto di una realtà complessivamente e inevitabilmente mutata.

« Un trauma esterno (il lutto è di essi il più grande) va in fondo accettato come occasione per riflettere sulla propria identità, sulla propria volontà, sulla propria voglia di continuare. E al contempo sulla propria necessità di cambiare. » (C.Z.)

L’equivoco non sta, dunque, in una sempre proficua, se colta, dissonanza linguistica tra antico e nuovo, bensì nel riproporre uno slogan, ‘com’era, dov’era’, che è «di retroguardia», o meglio antistoricamente fasullo, in quanto emblematico del pensiero storicistico ottocentesco ispirato alla linearità e progressività degli eventi umani, ma che nulla ha in comune con la cultura non solo architettonica dell’attuale momento storico come delle più tragiche fasi postsismiche attraversate dall’Italia fino ad oggi a partire dal secondo dopoguerra. Così si esprime Gabriella Guarisco:

«Il restauratore, figlio della cultura ottocentesca, continuerà incessantemente a ricercare un momento della vita della fabbrica per poi procedere al ripristino di quanto non è sopravvissuto, attuando materialmente, alla fine, una sorta di paradosso temporale, quell’“ora per allora”, che caratterizza gli interventi di restauro tutt’oggi in gran voga. Il restauratore assurge così al ruolo di giudice della storia, lasciando ovviamente aperta la porta ai successivi, meglio informati ed illuminati restauratori (i de-restauri attuati in Francia alle spese di Viollet ne sono la palese dimostrazione)».

Comportando una «perdita dell’innocenza nello sguardo sul passato»,¹⁰ il contributo fornito, anche sulla scorta della concezione materialistica della storia sviluppata da Marx ed Engels, dalla storiografia novecentesca — con Walter Benjamin, Marc Bloch e ‘Les Annales’, Paul Veyne e Manfredo Tafuri come capisaldi sempre validi a titolo di esempio tra i molti — è stato troppo drastico e innovativo perché si possa continuare a pensare di poter comodamente riavvolgere il nastro del tempo senza subire perdite dal valore culturale inestimabile, troppe delle quali hanno funestato nel tempo la pratica del restauro con effetti deleteri sul patrimonio monumentale e, in generale, culturale.

Ciononostante, è bene ripeterlo, il ‘com’era, dov’era’ viene assunto purtroppo, l’indomani di ogni singolo terremoto distruttivo, come criterio standard e dominante nell’orientamento politico generale che porta governi e opinione pubblica diffusa a schierarsi pregiudizialmente sul fronte di una ricostruzione à l’identique solo apparentemente ‘attenta alla storia’ proprio perché appiattita su un’idea di architettura la cui sola immagine esteriore, nel migliore dei casi, possa essere ristabilita con un balzo cinematografico all’indietro nel tempo. Ma l’architettura non è soltanto icona, simbologia, aura, valori figurativi o visivi, e tantomeno è pellicola o superficie di sacrificio.¹¹

Dice bene l’urbanista Giovanni Caudo:

Il “dov’era com’era” è una frase fatta, appunto per i media. Serve invece un lavoro di costruzione tutti insieme del come deve essere in coerenza con il progetto di futuro che è il solo che può rinnovare, salvaguardandole, le tradizioni e le origini di questi luoghi. La vita è fatta di slittamenti per un mutuo adattamento con l’evoluzione e con il cambiamento. Di questo si deve occupare la ricostruzione.

In un’epoca, come l’attuale, già lontana dall’illusione architettonica postmoderna, resta a dire il vero tutt’altro che dimostrato che «outlet e catene di ristoranti», quelli effettivamente realizzati e addotti da Zucchi come esempio di contemporaneità e quindi di autenticità storica, possano rappresentare un termine di riferimento affidabile per la cultura progettuale del tempo, mentre è sicuramente possibile parlare in proposito di uno stimolo pop o sociologico tra i tanti, e non più di quanto sia lecito fare per quanto di più trash fornisca la società di massa o quel che oggi ne resta.

Il che, data anche la già ricordata e sempre necessaria enfasi sulle ragioni del progetto «nella ferma convinzione che l’architettura di grande qualità» sia stata e resti «espressione della cultura di un Tempo»,¹² non contraddice necessariamente quanto di un fenomeno sociale di massa sia possibile vedere nell’architettura secondo la lezione del Movimento Moderno centrata sulla nozione di Existenzminimum, avendo esso avuto «come obiettivo prioritario ‘dare una casa’, rendere la città vivibile a tutti i ceti sociali, ‘minimizzare’ lo spazio abitativo in funzione dell’uomo e delle sue attività»,¹³ allo stesso tempo tenendo conto dei suoi bisogni bio-fisiologici e sociali nel segno di quella razionalità progettuale programmaticamente cara ai maestri europei soprattutto tedeschi degli anni ‘20-’30 del Novecento.

Zucchi pare forse provocatoriamente trascurare che la falsificazione non riguarda soltanto le ‘atmosfere rassicuranti’, ma anche e soprattutto, più gravemente, la materia superstite ai cui danni quelle eventualmente si mettano in scena quando si consideri la stessa scena architettonica come un dettaglio trascurabile o secondario, sostituibile e riproducibile in copia all’infinito senza troppi complimenti o dubbi di metodo.

« Il problema però non è tanto quello del ‘falso stilistico’ (la querelle mi sembra davvero di retroguardia: non c’è niente di più ‘contemporaneo’ della falsificazione di atmosfere rassicuranti, […]) ma piuttosto quello di capire se, una volta perso un bene al quale eravamo sentimentalmente molto legati, valga la pena di rifarne una copia solo in virtù di questa spinta emotiva; o se invece esso possa riempirsi davvero di nuova vita, di nuove scelte e impulsi. » (C.Z.)

Il primato dei valori psicologici associati da Zucchi all’architettura emerge ancora quando egli si interroga retoricamente sull’attitudine a giustificare la mimesi ricostruttiva riconosciuta al legame emotivo e sentimentale intrattenuto con l’oggetto della perdita, mentre indirettamente addita l’autenticità di tale legame e di quei valori come limite effettivo per il ‘com’era, dov’era’. Questa centralità della dimensione emotiva è peraltro parte integrante dell’universo immaginativo, visivo e simbolico della cultura architettonica propria di ogni epoca storica, e solo più marginalmente e indirettamente della pregnanza fisico-costruttiva dei suoi prodotti.

Ma quell’universo è qualcosa di molto vicino a ciò che la cultura ottocentesca, oltre alla ben più inconsapevole ‘vulgata’ popolare e populista odierna, sintetizzava tramite la stessa nozione di stile con la finalità di ripristinare, insieme all’apparenza dell’architettura, anche i connotati ideologici e politici di alcune epoche passate. Proprio come avvenuto con il revival romantico del romanico e del gotico, stili recuperati nei restauri e nei nuovi edifici durante l’Ottocento degli epigoni di Viollet-le-Duc per enfatizzare in chiave risorgimentale i valori patriottici del riscatto politico dell’Italia di età comunale, non a caso in una cornice culturale complessiva di esaltazione irrazionale, sentimentale e anticlassica¹⁴ dopo i fasti e il rigore dei canoni estetici della stagione illuminista.

Motivi per cui il possibile limite o l’incoerenza o la contraddizione di un’impostazione della questione dell’autenticità su valori immateriali e astrattamente ‘esistenziali’ quale viene qui suggerita dall’autore potrebbe risiedere nel fatto di scegliere criteri riconducibili all’ambito della soggettività per argomentare il rifiuto, doveroso, della riproposizione di quanto di ideologico e dunque similmente soggettivo storicamente contrassegni l’insensata crociata per la purezza e la coerenza di stile, che come già visto è destinata a esiti attuali culturalmente perdenti.

L’oggettività dell’ambito razionale di una ricerca scientifica che multidisciplinarmente e interdisciplinariamente integri il supporto dei saperi tecnici temperandoli con il rigore critico di un’indagine storica e iconologica comunque al servizio del progetto di conoscenza del fenomeno architettonico, rappresenta, al contrario, il fondamento che una certa architettura contemporanea orientata a una responsabile gestione del cambiamento, e lontana tanto dalle mummificazioni quanto dai facili entusiasmi e dai proclami graditi al Principe, associa e riconosce all’autenticità del patrimonio costruito storico, intesa come radicamento nell’unicità qui e ora dell’esistente.

Ovvero della materia segnata dalle culture di diverse epoche come un palinsesto, sopravvissuta e pensata come risorsa irripetibile da cui ripartire per un’esperienza progettuale che consenta un uso vitale e aggiornato dell’edificio — tema che permette, tra l’altro, di ricondurre a una dimensione più propriamente architettonica alcune considerazioni piuttosto genericamente basate sulle rinnovate ‘strutture sociali’, le ‘economie’ e gli ‘stili di vita’ citati da Cino Zucchi — , ma anche fondato sulla ricognizione puntuale della risorsa disponibile e sulla compatibilità con la conservazione della sua sostanza sensibile.

Atteggiamento quanto mai utile a evitare che la tendenza sempre più diffusa al generico e ingenuo sentimento di un’architettura sempre più virtuale e scollata dalla dimensione umana fornisca il pretesto per nuove, disinvolte e personalistiche manomissioni attraverso il patetico contraltare rappresentato da due fenomeni concomitanti.

Fenomeni che, tra l’altro, è bene non perdere di vista per tornare non solo, ancora una volta, alla dimensione psicologica invocata da Zucchi per il dibattito sulla ricostruzione, ma anche a quella psicopatologica sempre più insistentemente chiamata in causa dalle più recenti politiche relative ai destini concreti delle risorse storiche — artistiche, architettoniche, archeologiche, paesaggistiche, etnoantropologiche e archivistiche — del nostro territorio, ovvero dai criteri di una loro gestione ultimamente rivelatasi fallimentare.

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Nell’indifferenza più sfacciatamente ostentata dall’attuale esecutivo per le sorti materiali di un così prezioso lascito ormai svilito a pacchetto turistico per il quale ci si ritiene esentati dal dovere di una lenta, sommersa, capillare e sistematica azione di tutela istituzionale e specialistica sancito dalla Costituzione, e quindi autorizzati a calpestare il diritto di un popolo sempre più privo di sovranità, si riflette infatti un più generale atteggiamento gravemente antiscientifico.

È quello analogamente ispirato al criterio del tutto-subito, nuovo ‘com’era, dov’era’ per il cui tramite oggi sempre più semplicisticamente si pensa di contrastare il vuoto o la carenza di razionalità in nome di un razionalismo nichilista e acritico, afasico e (auto-) distruttivo, inconcludente e premasticato, inconsapevolmente moralista e dunque intrinsecamente ipocrita. Soprattutto perché privo di radici nel logos, nell’ethos e nella memoria collettiva, che, oltre ad essere testimoniati dalle risorse immateriali del nostro patrimonio culturale, sono impressi sulle pietre, sui legni e sulle malte almeno quanto sul supporto cartaceo ed eventualmente digitale.

Siano più o meno rassicuranti, le ‘atmosfere’ dell’architettura non possono dunque fare a meno della sua materia. Tantomeno di quella grigia di chi se ne occupa.

Note
1. «Non esiste […] un’ora ufficiale del crollo: ci vengono dati differenti orari che coprono un arco temporale di sei minuti, tra le 9.47 e le 9.53.
Spesso si legge “…le 9.52…”. Pompeo Molmenti (1852–1928) nel libro “Il Campanile di San Marco riedificato. Studi, ricerche, relazioni”, edito dal Comune di Venezia nel 1902, indicò le 9.47». In: s.n., Il campanile di San Marco — Le curiosità. L’ora del crollo, Home.giandri.altervista.org.
2. S.n., Gatti e Colombi, Veniceguide.net.
3. Marco Dezzi Bardeschi, Ravenna: l’impronta (inedita) di Palladio, ‘ΑΝΑΓΚΗ, quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto, n. 77/2016, p. 148.
4.
Marco Dezzi Bardeschi, Abbecedario minimo per il restauro, oggi parte prima (A-C), ‘ΑΝΑΓΚΗ, quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto, n. 72/2014, p. 44. Dezzi Bardeschi prosegue: «Gli esempi storici postcalamità o postbellici, di ogni tempo e luogo, costituiscono una Galleria potenzialmente illimitata che va dal duomo di Messina a Varsavia (piazza del Mercato, cattedrale e chiesa dei Gesuiti), da Firenze (ponte Santa Trinita) a Venzone (cattedrale) e a Venezia (Teatro la Fenice), da Londra (Globe Theatre) a Ypres (Municipio) a Stoccolma (chiesa di Santa Caterina), da Praga (la via dell’Oro) a Dresda (Frauenkirche) e a Berlino (castello degli Hohenzollern), ecc.».
5.
Ibidem.
6. Pietro Petraroia, Comunicato di Italia Nostra sulla ricostruzione post terremoto, Patrimoniosos.it.
7. Da questo punto di vista, e continuando a tenere presente l’importanza che la conoscenza preliminare riveste anche nel progetto dell’intervento sul territorio e sull’edilizia esistente, tale programmazione non può prescindere dal ricorso a strumenti scientifici avanzati come quello rappresentato dal Sistema Informativo Territoriale Carta del Rischio del patrimonio culturale. La Carta è quanto di più simile a un censimento del patrimonio costruito storico diffuso sul territorio nazionale e a un’analisi delle sue condizioni esista, comprendendo informazioni — mappe tematiche, schede, elaborazioni, dati — raccolte sulla base di vari progetti di ricerca, alcuni dei quali collegati agli interventi seguiti agli ultimi gravi, storici sismi. È uno strumento il cui metodo si fonda sulla teoria della prevenzione del danno e della manutenzione programmata e quindi sulla nozione storica di 'restauro preventivo' elaborata da Cesare Brandi, fondatore dell’Istituto Centrale del Restauro, e che ha come antecedente un progetto pilota del 1975 voluto per la conservazione programmata del patrimonio culturale dell’Umbria dal critico d'arte Giovanni Urbani, che diresse l’Istituto tra il 1973 e il 1983. Lungi dall'essere esaustivo, il sistema informativo è tuttora in divenire e ha molti limiti, ma — insieme ad altre strategie — non può essere ignorato dalla ricerca di un affidabile punto di partenza anche per un futuribile, difficilissimo e pressoché sterminato piano integrato di intervento sull’edilizia a rischio sismico in particolare dei centri storici. Piano che avrà come ovvio presupposto l'indagine puntuale e diffusa sui contesti territoriali e la funzione dei loro presìdi tecnici, amministrazioni locali e Soprintendenze in primis, di cui anche in questi termini emerge l’assoluta rilevanza. La flessibilità e le possibilità di aggiornamento del S.I.T. consentirebbero inoltre di integrare l’analisi e dunque la messa a norma della più recente edilizia corrente, pubblica e privata, priva dei requisiti strutturali di sicurezza sismica, facendo della Carta del rischio uno strumento complessivo non solo di indirizzo e prevenzione, ma anche di supporto all’intervento operativo per l‘adeguamento dell’intero patrimonio costruito nazionale: di quello storico come di quello di scarso pregio architettonico e strutturale realizzato soprattutto tra gli anni Cinquanta e l’entrata in vigore della normativa antisismica nel 1974. Un’opportunità anche economica con un mercato stimato in 36 miliardi di euro (fonte Oice 2013), oltre che una necessità culturale per la collettività e una questione di banale sopravvivenza e benessere per gli utenti del manufatto architettonico.
8. Gabriella Guarisco, Oltre l’architettura: ragioni del progetto e ragioni della conservazione, in Gabriella Guarisco (a cura di), Marco Dezzi Bardeschi, Oltre l’architettura. Temi e protagonisti della cultura iconologica, Alinea Editrice, Firenze 2003, p. 10.
9.
Ivi, pp. 9–10.
10.
Pierluigi Panza, Il Medioevo fantastico di Umberto Eco, ‘Fatto ad arte’, Corriere.it. L’autore estende il giudizio all’Ermeneutica, intesa come insieme dei vari tentativi di sviluppo di una teoria generale dell’interpretazione nel pensiero moderno. Tra questi, alcuni hanno profondamente influenzato la riflessione teorica sul concetto di genealogia, ponendolo tra i fondamenti della cultura progettuale della Conservazione architettonica «nella direzione del superamento di una visione della Storia imbalsamatrice». In: Laura Gioeni, Abbecedario minimo per il restauro, oggi parte terza (G-I). Genealogia, ‘ΑΝΑΓΚΗ, quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto, n. 74/2015, pp. 19–20.
11.
Giuseppina Clausi, Recupero degli intonaci, Arketipomagazine.it.
12. G. Guarisco, Oltre l’architettura, cit., p. 7.
13. Ivi, p. 9.
14. P. Panza, Il Medioevo fantastico, cit. Sulle orme dell’autore, ho ripreso la nozione di ‘anticlassicismo’ in Architettura: olografia versus autografia. Il Corriere Fiorentino e la mostra “Visions of Paradise: Botticini’s Palmieri Altarpiece” alla National Gallery di Londra (passando per l’Alberti e Victor Hugo), ‘120g Magazine. Una raccolta di storie, interviste e articoli sull’architettura e le arti visive’, Medium.com.

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