Chi ha paura del diverso?

Inclusione, a che punto è l’italia? Media e social sono un’opportunità o un altro luogo in cui riversare i propri pregiudizi? L’esperienza di AISM

AISM onlus
10 min readMar 22, 2017

Inchiesta pubblicata su SM Italia 1/2017, il bimestrale di @AISM onlus.
A cura di Laura Pasotti e Ambra Notari.

“Se parli di ‘persone speciali’, le stai già considerando diverse dalle altre. La rivoluzione culturale parte dalle parole, la scelta dei termini da utilizzare è importante e i media hanno una grande responsabilità.”

Gloria ha 25 anni ed è sorda. Porta le protesi acustiche da 10 anni ma le capita comunque di non essere capita dalle persone, «la sordità apparentemente invisibile è una situazione infida: lo sguardo della gente ti uccide più di qualsiasi altra reazione». Francesco ha 35 anni e una lesione spinale alta causata da un incidente: «Significa che non uso le gambe e che anche le braccia fanno fatica a muoversi, ma pc e software non hanno segreti per me». Ma questo non basta per trovare un’occupazione. «Perché mi si rifiuta un lavoro degno della mia preparazione? Io programmo con la testa non con i piedi». Roberta ha 38 anni, vive a Isernia e ha una figlia: «Quando camminiamo per strada tutti si girano a guardarmi: fa ancora scandalo essere una madre con disabilità». Arianna ha 33 anni e ha fatto uno stage a Bruxelles, al Parlamento europeo: «Ho una disabilità visiva e in quei 5 mesi non ho dovuto fare i conti con la barriera più grande, l’ignoranza delle persone, la cultura di un Paese che non accetta la diversità».
Le storie di Gloria, Francesco, Roberta e Arianna sono state raccolte, insieme a quelle di altre centinaia di persone, su In my place, il sito della campagna lanciata da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) per invitare a prendere il posto di chi, ogni giorno, deve affrontare barriere fisiche o mentali, sguardi di sottecchi, difficoltà burocratiche o economiche, pregiudizi.
Queste storie dimostrano come i pregiudizi nei confronti delle persone disabili siano ancora molto diffusi. «Quello che non si conosce spaventa sempre», dice Iacopo Melio, studente di Scienze politiche e freelance nel mondo del giornalismo e della comunicazione digitale che nel 2014 ha lanciato la campagna #vorreiprendereiltreno, diventata virale sui social e da cui è nata l’omonima onlus che si occupa di sensibilizzare sui diritti delle persone disabili.
Melio è molto attivo sui social. La scorsa estate, ad esempio, ha scritto tramite Facebook una lettera all’utente anonimo che, su Tripadvisor, lamentava la presenza di ‘troppi disabili’ nel villaggio vacanze in cui trascorreva le ferie. «Non è bello far vedere ai miei figli tutte quelle persone sofferenti sulle sedie a rotelle», c’era scritto nella recensione dell’hotel. «Se un giorno avrò dei figli — ha risposto Melio — sapranno che il dolore, quello vero, è nascosto nell’indifferenza e non nella malattia. Che i brutti spettacoli del mondo ce li ha sempre ‘regalati’ la cattiveria umana e mai la dignità. Che il mondo è popolato da persone diverse ma con gli stessi diritti». Il caso dell’utente di Tripadvisor purtroppo non è isolato: c’è quello della mamma che si è lamentata dei troppi bambini disabili nel centro estivo frequentato dal figlio o ancora quello di chi ha fatto presente al gestore del ristorante che avrebbe disdetto la prenotazione se avesse saputo che, al tavolo accanto, cenava un gruppo di 25 disabili. «Dopo quella lettera c’è stato un boom di notizie, i giornali hanno colto l’occasione per parlarne, alcuni ci hanno ‘marciato’ un po’ ma credo che, al di là della ‘moda’, la paura e il pregiudizio ci siano ancora — aggiunge Melio — Bisogna fare in modo che le persone si avvicinino alla disabilità, che si passi più tempo insieme, solo così possiamo evitare il ripetersi di episodi come questi».
La battaglia di Melio è partita dalla non accessibilità dei mezzi pubblici (‘Sono single per forza. Non piglio l’autobus!’) ma non riguarda solo le barriere fisiche. Di recente, un suo post su Facebook ha acceso la discussione sull’uso delle parole: Melio ha fatto notare che l’uso dell’espressione ‘i miei amici disabili’ fatta da Jimmy Ghione a Striscia la notizia è discriminatoria perché evidenzia le differenze a mo’ di categorizzazione. «Se vogliamo abbattere le barriere architettoniche dobbiamo prima abbattere quelle culturali, e lo si fa con una rivoluzione ideologica che passa, appunto, attraverso un linguaggio e una comunicazione adatta», ha scritto. Melio, ad esempio, porta avanti una battaglia contro l’uso della parola ‘speciale’ riferita alle persone disabili. «Se parli di ‘persone speciali’, le stai già considerando diverse dalle altre», dice. Il suo obiettivo è che si arrivi a chiamare le persone con il proprio nome e cognome senza la necessità di indicare se sono o meno disabili. «Nella comunicazione c’è un problema di linguaggio, ma la rivoluzione culturale parte dalle parole, la scelta dei termini da utilizzare è importante e i media hanno una grande responsabilità nel modo in cui rappresentano la disabilità».

Disabili davanti e dietro lo schermo
Oggi sui giornali e in tv si parla molto di più di disabilità. Parte del merito va anche alle Paralimpiadi, l’evento principale in cui si mostra ciò che le persone disabili possono fare. Ma anche ai social. Ma come se ne parla? «La tendenza, mi sembra, è raccontare storie di persone disabili come se fossero fenomeni, anche la normalità viene spettacolarizzata », dice Maurizio Molinari, giornalista e addetto stampa del Parlamento europeo in Italia. «Credo che le storie debbano essere raccontate quando ne vale la pena, senza cavalcare la disabilità, che è solo un aspetto della vita di quella persona — continua — Certo il fatto che se ne parli ha ricadute positive, se poi questo porti più integrazione non lo so».
Nel 2015 è uscito ‘Europa media e diversità’ (Franco Angeli), libro che contiene i risultati dell’indagine condotta da Anna Meli, responsabile comunicazione della ong COSPE, insieme con Tana De Zulueta e in collaborazione con l’Associazione Carta di Roma, sui media pubblici e privati di Francia, Regno Unito, Olanda, Spagna e Italia. «Il panorama che è emerso dallo studio è frastagliato e a due velocità, — dice Meli — Da un lato, ci sono Stati, come il Regno Unito e la Francia, che hanno fatto enormi passi avanti sulle politiche per la diversità nei servizi pubblici e nei gruppi editoriali privati», dall’altra Paesi, come l’Italia, che «non hanno messo a fuoco qual è la sfida». Che secondo Meli è «far vivere la disabilità come parte integrante della società, farla vivere davanti e dietro lo schermo come fanno in Inghilterra, che è anni luce avanti, dove la disabilità è trasversale a tutte le categorie professionali all’interno dei media e in cui i giornalisti disabili trattano tutti i temi». Nel nostro Paese le cose non vanno altrettanto bene. «Da noi non capiscono di cosa parli e fanno riferimento agli obblighi di legge e alla percentuale di disabili da assumere, ma se chiedi in quali ruoli lavorano, scopri che non ce n’è uno in posizioni di rilievo — continua Meli — Noi siamo ancora al recepimento passivo delle leggi mentre dovrebbe passare l’idea che potersi confrontare in una redazione composta da persone con vissuti diversi è un valore aggiunto». Insomma, vedere in positivo la presenza di lavoratori disabili in tutti i ruoli è ancora lungi da venire. Esistono però esperienze significative. È il caso di ‘Hotel 6 stelle’, la docu-fiction prodotta da Rai3 e Magnolia insieme all’Associazione Italiana Persone Down in cui 6 ragazzi con Sindrome di Down erano alle prese con un’esperienza formativa all’interno di un albergo. «Trasmissioni come quella andrebbero sistematizzate, inserite nel palinsesto annuale — dice Meli — Ma servirebbe una riflessione strutturale. Invece anche se rispetto a qualche anno fa siamo usciti dal pietismo, spesso ci si ferma ancora ai casi».

La voce di AISM
«I social network e il blog sono strumenti preziosissimi per offrire una rappresentazione sociale della malattia, per conoscere criticità e bisogni e dare feedback utili ai servizi socio- sanitari — dice Isabella Baroni che per AISM si occupa di comunicazione online — Sono uno spaccato tangibile di come vanno le cose». Sul blog dell’Associazione www.giovanioltrelasm.it si condividono esperienze personali, si rivela la propria diagnosi, a volte ancora prima che con la famiglia, gli amici o i colleghi, si ‘denunciano’ episodi di discriminazione. «La condivisione di esperienze personali apre discussioni — dice Alessia Villani, Area Servizi e Progetti Socio Sanitari di AISM — e spesso ha un impatto positivo sulla gestione della malattia: il confronto non è solo conforto emotivo ma ti porta a reagire, ad assumere un ruolo più attivo, a scegliere ad esempio di iniziare un percorso di psicoterapia o avviare le pratiche per richiedere l’accertamento dell’invalidità». Anche se a volte è la modalità ‘sfogo’ a prevalere nei commenti, «i benefici dei social superano di gran lunga i rischi, che poi sono gli stessi che ci sono nelle relazioni off line». Spesso, i social sono il luogo in cui ‘denunciare’ discriminazioni di cui si è stati vittima, «difficilmente una persona andrà all’INPS a dire che si è sentita discriminata alla visita per la valutazione della disabilità — dice Villani — Un episodio di questo tipo può invece trovare più spazio sui social, dove le persone si sentono più libere di esprimere il proprio malessere».

Opportunità o arma a doppio taglio?
La Rete e i social network sono un’opportunità perché permettono un protagonismo diretto delle persone. Ma possono rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Sulla carta stampata ci sono testate dedicate, blog all’interno dei siti ma spesso ci si ferma lì, invece sui social la presa di parola diretta spesso diventa virale — afferma Meli — D’altra parte, il web è spesso uno sfogatoio generalizzato, e non solo dei giovani». Secondo gli ultimi dati, i crimini d’odio segnalati da fonti ufficiali italiani sono stati 596 nel 2014 (erano 56 nel 2010) cui si aggiungono 114 casi segnalati dalle organizzazioni della società civile. E, secondo il IV Rapporto dell’Associazione Carta di Roma, nel 2016 sui social media c’è stato un aumento dell’uso di linguaggi intolleranti. Tra i crimini d’odio prevalgono quelli a matrice razzista 61,4% e a sfondo religioso (19,8%). Gli altri moventi sono riconducibili all’orientamento sessuale, alla disabilità o all’identità di genere. «Il rovescio della medaglia della Rete è l’hate speech, sono i fatti di bullismo diffusi tramite web e amplificati — continua Meli — Spesso i social diventano un’arena in cui le persone, coperte dall’anonimato, danno il peggio di loro stesse perché non fanno altro che riversarvi i pregiudizi che hanno nella vita reale. E la diversità è la più colpita».

La media education in Italia
Educare all’uso della Rete e dei social è importante. «Ma nel nostro Paese di media education se ne fa poca, soprattutto a scuola, dove è passato l’uso della tecnologia ma non la riflessione sugli strumenti e sulla loro relazione con la nostra vita di tutti i giorni». A parlare è Alessandra Falconi del Centro di educazione ai media Zaffiria di Bellaria, Igea Marina (Rimini). «Oggi i ragazzi crescono in un mondo in cui non ci sono solo le esperienze date dal luogo in cui vivi e dalla scuola che frequenti ma anche quelle date dal meraviglioso mondo offerto dalla tecnologia — continua Falconi — La costruzione dell’identità passa da lì e non possiamo fare finta che non esista, ma perché quel mondo sia davvero meraviglioso è importante saper gestire la tecnologia». Nell’ambito del progetto europeo BRICKS (Costruire il rispetto su Internet combattendo l’hate speech), il Centro Zaffiria ha sperimentato insieme al COSPE attività didattiche rivolte alle scuole secondarie per approfondire il tema dei discorsi d’istigazione all’odio on line. Da questa sperimentazione è nato anche un quaderno regionale inserito nel Protocollo sulla comunicazione interculturale della Regione Emilia-Romagna. Oggi c’è un livello di conflittualità alta e gli adulti, non solo genitori e insegnanti ma tutti quelli di riferimento, devono essere di esempio nell’educare al rispetto verso gli altri. «L’allenatore di calcio non può fare commenti discriminatori sul proprio profilo Facebook perché i suoi ragazzi lo guardano. Tutti devono riappropriarsi della responsabilità delle parole perché equivalgono a un comportamento», dice Falconi. «Nessuno pensava che dopo il 2000 avremmo ancora dovuto parlare di rispetto per le donne o per la diversità, ci si immaginava più illuminismo a tutti i livelli — conclude –. Ma ripartiamo con umiltà, a cominciare dalla scuola, insegniamo ai ragazzi a vivere insieme, ognuno con le sue diversità e con i suoi tempi, rispettando il diritto di essere di tutti».

AISM e la tutela giudiziaria contro le discriminazioni
In base alla legge 67/2006 che contiene «Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazione», AISM (e le altre associazioni individuati dai Ministeri delle Pari opportunità e del Lavoro) è abilitata ad agire in giudizio per garantire parità di trattamento e pari opportunità alle persone disabili e il godimento dei diritti civili, politici, economici e sociali, di agire in nome e per conto della vittima della discriminazione, di intervenire nei giudizi per danno subito dalle persone con disabilità e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento degli atti lesivi dei loro interessi. L’Associazione può agire in relazione ai comportamenti discriminatori quando assumono carattere collettivo. «Le molteplici modalità di azione rendono evidente come si sia inteso garantire una diversificazione delle modalità di intervento — spiega Giulia Flamingo dell’Ufficio legale di AISM — per rispondere alla molteplicità di situazioni che potrebbero prospettarsi in concreto».

‘Sofia Rocks’, la web serie sulla disabilità
Un viaggio nel mondo della disabilità in 5 tappe di 15 minuti ciascuna. È ‘Sofia Rocks’, la web serie prodotta da Filandolarete e Agenda per la regia di Antonio Saracino, che vede protagonista Sofia Righetti. Laureata in filosofia, campionessa di sci alpino e vegana, Sofia è in carrozzina a causa di un intervento mal riuscito quando aveva 5 mesi. Nella serie porta sullo schermo racconti di vita personale e le storie di chi è in prima fila per promuovere l’integrazione. Arte, sessualità, lavoro, università e sport sono i temi affrontati da Sofia insieme a Martina Caironi, Alessandro Bergonzoni, Maurizio Landini, Roberto Donadoni e altri personaggi. Per vedere le puntate basta andare su www.sofiarocks.it o sulla pagina Facebook della serie.

‘Parole O_Stili’, una community contro la violenza sul web
Un progetto collettivo per riflettere sulla non neutralità delle parole e sulla necessità di sceglierle con cura. È ‘Parole O_Stili’, community trasversale che riunisce 300 persone tra giornalisti, manager, politici, docenti, comunicatori e influencer con l’obiettivo di contrastare l’ostilità in Rete. Il 17 e 18 febbraio sono stati a Trieste per confrontarsi su linguaggi e comportamenti digitali e sottoscrivere il ‘Manifesto della comunicazione non ostile’. Tra gli ospiti anche la Presidente della Camera, Laura Boldrini, e il giornalista Enrico Mentana www.paroleostili.it.

Questa inchiesta è stata pubblicata su SMitalia 1/2017, il bimestrale di AISM onlus, Associazione Italiana Sclerosi Multipla.

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Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Diritti, persone, ricerca, per un mondo libero dalla sclerosi multipla.