Riflessioni di design — 1x1, Modalità-design: Come non farsi costringere dall’attuale narrativa sul “design-thinking”

Emiliano Carbone
10 min readMar 24, 2018

“Debbo senz’altro sbarazzarmi di quest’uomo dalla mente alterata, che in qualche grado ha già sovvertito le nostre lingue, se non i cervelli, a me e ai mei impiegati”.

Questo è ciò che ripeteva a se stesso l’avvocato di Melville, sorpreso dal comportamento del suo nuovo scrivano, Bartleby. E questo stupore rassomiglia a ciò che un individuo esperisce nella modalità progettuale. Difatti il momento della progettazione appare spesso come una rivoluzione, un attentato diretto alle nostre lingue così come alle nostre menti.

Considerando il momento di successo della pratica del design in diversi contesti, vi è una curiosa asimmetria (in termini teorici e pratici) tra le istanze (e quindi le aspettative) tra il percorso iniziale sulla disseminazione della sua natura, e quelle più attuali di chi ha il compito di portarle avanti. Sebbene quelle iniziali parlavano addirittura di “scienza del design” e non temevano quindi il confronto con le altre ben affermate discipline, oggi quell’estro originario si è leggermente cristallizzato in ciò che oggi viene largamente definito “design thinking” (e che da adesso in poi si riduce a DT). Questa discussione è animata da addetti ai lavori e designers scrupolosi, i quali forniscono tutti interpretazioni diverse dell’argomento. E l’attuale divulgazione è permeata dalle loro esigenze naturali (e promettenti) di produzione culturale che sembra abbiano plasmato il significato e i concetti fondamentali che erano al suo interno. Il confronto con i contesti di applicazione più diversificati però, non deve minare gli anni di apprendimento spesi sul tema e le conquiste della sua ricerca, trasformando così la sua inception in una sorta di voglia di arrivare o peggio, in cedimento o disfattismo. Se per gli esperti DT è un termine spinoso che racchiude un vasto range di domande aperte, ricerche, studi, interpretazioni, teorie e pratiche sperimentali (quindi un termine da maneggiare con estrema delicatezza e da calibrare con diverse conoscenze) per i più che oggi si affacciano a questo mondo del progetto, della progettazione, del design, il DT e le sue componenti hanno un “Look & Feel simile a un processo meccanico da riprodurre per il problem-solving. Correntemente riassunto nel motto: “scoprire-definire-ideare-implementare”. Quindi il design è solo un metodo per risolvere i problemi? Si può davvero racchiudere in quattro fasi distinte? Il divario tra le diverse interpretazioni è vasto, e forse necessita di scoprire un nuovo bilanciamento. Altrimenti il rischio di rafforzare fraintendimenti sulla sua natura — e di incrementare posizioni radicali nella sua pratica, aumenta così tradendo la sua cultura e gli sviluppi della sua ricerca sfaccettata.

Grazie agli studi della comunità scientifica, possiamo espandere i nostri modelli di pensiero (soprattutto rispetto l’immediatezza del corrente processo per step) e aggiustare il tiro della nostra comprensione riguardo la modalità di progettazione. Su un piano più olistico, e profondo. Kees Dorst ha riassunto tutta questa questione in maniera chiara: “questo potenziale successo sfida la comunità dei ricercatori sul design a fornire risposte precise riguardo: Cosa sia il cuore del Design Thinking? E cosa può portare a professionisti e organizzazioni di altri campi?” [ndr]. Proprio nella relazione tra industria e accademia (due pianeti con velocità e prospettive diverse) che nasce la impasse interpretativa. Da questo intrecciamento naturale, l’attenzione generale si è focalizzata solo sulla traduzione del pensiero dei designers per step (la cui importanza è chiara se solo si riflette -sulla base delle percezioni semplici- al numero di combinazioni di cui il pensiero è capace), senza abbracciare l’interezza del fenomeno del design. Birgir Sevaldson ha profondamente caldeggiato: “I tentativi di distaccare il pensiero strategico incarnato implicitamente nel design, per estenderlo in modo semplificato al management sotto forma di pensiero progettuale, hanno causato il deterioramento del design” [ndr]. Su un altro piano, Lucy Kimbell ha definito in maniera coscienziosa le questioni chiave che circondano il corrente discorso sul DT, ovvero la difficoltà (sul piano filosofico) di trovare chiare spiegazioni al “dualismo che distingue il pensare e l’agire” l’impossibilità di fare qualsiasi generalizzazione dovuta alla “diversità di pratiche di progettazione” e una su tutte, le “contraddittorie teorie sulla natura del design” [ndr]. Lo stato dell’arte è ineludibile: non possiamo parlare in maniera assoluta del DT (come nel caso del processo fissato per step), perché non esistono ancora contenuti dai contorni definiti che potrebbero istruire la fondazione di un chiaro territorio entro cui operare. Sulla scia di questo acceso dibattito, questo testo vuole evidenziare la ricca ampiezza, e frammentarietà di cui gode la modalità-design, e altri elementi vitali dell’apprendimento esperienziale che (a causa della loro supposta ovvietà) sono raramente presi in considerazione nelle ormai popolari liste. Queste caratteristiche riformano ed evolvono se stesse alla stessa velocità con cui la progettazione viene applicata, e questa è la vera profonda energia del cosiddetto DT. “Modalità-design” è il tentativo di trovare delle parole con cui descrivere e raccontare in una prospettiva quasi politica (tralasciando le questioni metodologiche e scientifiche in quanto non basterebbe la mia conoscenza infusa in queste grezze riflessioni a soddisfarle, e che sicuramente meritano sempre ulteriori approfondimenti), uno dei temi cruciali per chiunque si applichi ed esperisca la mise en place; ovvero l’atteggiamento con cui intraprenderla. Difatti, personalmente penso a questo argomento come l’acqua di un vaso in cui i gambi dei fiori sono ammollo: esso, per assorbimento, lo si ritrova in tutti gli altri argomenti trattati in questa rubrica. Infine — data la complessità di questo puzzle — se pensate di trovare risposte e posizioni nette su questo tema, rimarrete molto delusi (e questo assomiglia molto all’atteggiamento scettico, per esperire la natura della modalità-design).

Ora, partendo dalla sopracitata “produzione culturale, se pensiamo all’esplosione delle tecnologie come strumento di accesso alla cultura, e tracciata la grande mole di articoli sul DT (come questo, e se lo trovate in qualche modo inappropriato, perdonerete il colpo di imbecillità?), vedremo alla bonarietà con cui esso viene spiegato e tradotto; ovvero una enorme lista di “comportamenti degli innovatori”, oppure delle “5 abitudini del designer” e ancora alle “4 fasi del design thinking”. Ottimo la sintesi, ma forse non sempre efficace per una disseminazione culturale! Soprattutto se l’aspettativa è quella di divulgare la pratica del design. Umberto Eco, uno degli eruditi italiani più prominenti del nostro tempo (e ormai più compianti), ci ha lasciato in eredità uno spunto di riflessione (assai noto) riguardo la nostra condizione come individui (una di fondamentale importanza per qualsiasi professionista di design): “è profondamente ingiusto sussumere degli atteggiamenti umani — in tutta la loro varietà, in tutte le loro sfumature”. Questo è un esempio di senso, per il quale non dovremmo pre-assumere (in termini di efficacia) la diffusa argomentazione sul DT. Lo “stile-lista” per step ha trasformato il DT in un leitmotiv dell’industria culturale, come nel caso conosciuto della “Bartleby Industry” (il libro di Melville citato all’inizio, è uno dei testi più interpretati e analizzati fin dagli anni 30’s) che rischia così di diventare un bene commerciale o peggio, trasformarsi in una egemonia inarrestabile. Il raggiungimento di una fattiva modalità-design non è una cosa affatto scontata. E non dimentichiamo che ciò che accade nella relazione mente-corpo è parzialmente nascosto. A tal riguardo lo scienziato James Gleick, nel suo testo L’informazione ci mette in guardia su questa nostra propensione a rendere la comunicazione sempre più veloce, più efficiente e più accessibile. Gleick concepisce la information-age come la correlazione tra la modalità di consumo delle informazioni e l’evoluzione della coscienza (e non ha tutti i torti, pensiamo al consumo informativo dei nostri antenati). Guardando al nostro dibattito, questa correlazione fa luce sull’importanza della condotta e la configurazione della disseminazione stessa. Internamente a questo contesto comunicativo, la strategia del dialogo potrebbe avere la necessità di legittimare una nuova cornice interpretativa. Quindi prima di qualunque considerazione, dovremo evitare asimmetrie o profondi fraintendimenti.

Come muoversi davanti ad un panorama così denso di informazioni e interpretazioni riguardo il DT? Come può essere raccontata la specificità della modalità-design, ovvero quella esperienza umana olistica in cui si intrecciano — in una esplorazione dinamica — mente, corpo, e ambiente? Il difficoltoso e delicato immaginario, è come tutte le rappresentazioni (madre di qualsiasi prototipo e compito proprio della intrinseca volontà della progettazione) vitale e cruciale. Ken Friedman ha recentemente enfatizzato (nell’ambito del discorso epistemologico) l’importanza della spiegazione in riferimento alla ricerca di un fenomeno, e dice: “essa esige forza esplicativa e richiede un resoconto narrativo, se deve produrre conoscenza per tutti i membri di un campo di ricerca, una disciplina o una professione” [ndr]. La storia che accompagna il fenomeno del DT è come una corda tesa tra quei due pianeti di industria e academia. E’ il risultato di complessi studi particolaristici, estensive ricerche ecologiche, e traduzioni applicative. Negli anni siamo andati ad allargare il fuoco della nostra lente, da rigorosi approcci razionalistici, a esplorazioni del designer come individuo-padrone di un peculiare stile cognitivo, fino a connettere ulteriori studi che provengono dalle teorie antropologiche, sociologiche e del pensiero sistemico, così da spiegare il fenomeno della modalità-design come pratica interdisciplinare. Tutti questi studi sono stati e sono ancora paralleli, complementari, e in divenire. Tutte queste discipline hanno contribuito e stanno contribuendo ancora adesso, a spiegare e far emergere alcuni elementi chiave della modalità-design. Grazie a questo movimento, possiamo aspettarci ulteriori avanzamenti e comprensioni. Questa è una ragione valida per cui non dobbiamo limitarci nel processo per step, bensì coltivare un atteggiamento più aperto durante la pratica della modalità-design stessa. L’ampiezza degli studi, restituisce una certa complessità nella sintesi.

La modalità-design sembra essere (come avevo proposto nell’intro) una “intersezione indisciplinata” composta da una mentalità, un insieme di strumenti e una serie di attività; spazi ed esplorazioni specifiche che inoltre si combinano nella soggettività dell’esploratore. In altre parole potremo azzardare che la modalità-design è un modo “comportamental-attitudinale” peculiare (in termini culturali), di muoversi e avanzare nella ricerca di un progetto. Difatti, davanti tutta questa mescolanza, è complicato pensare ad una singola e definitiva caratterizzazione predittiva, o generalizzazione o processo. Insomma, la narrazione del DT come traduzione del pensiero dei designer in step non è falsa tout court, ma non è completa. E’ sicuramente stata un passo avanti nella ricerca della sua rappresentazione, ma la riduzione in “fasi” può risultare inconcludente e inibitoria. Sarebbe bene sempre pensare che le fasi, o gli step, non sono il tutto della modalità-design. Altresì solo il primo scalino in termini di intensità. La modalità-design è una pratica incarnata e situazionale, dove la diversità (soprattutto in termini di pensiero e comportamenti) può incontrarsi per produrre nuovi contenuti e nuove modalità di esplorazione. L’idea integralista del processo, sublima soltanto le conoscenze e le abilità senza intercettare la questione dell’esperienza personale riguardo la crescita della capacità di investigazione, ovvero come ci ricorda Gloria Dall’alba, “cosa diventiamo” [ndr] attraverso la pratica della progettazione. Come cambia la nostra esistenza mentre la applichiamo? Di conseguenza, convergere gli sforzi sulla riproduzione di una serie di compiti da portare a termine per ogni fase, non spiega quella complicata ricerca generativa e adattiva che soggiace al cuore della modalità-design. La quale è critica ed espansiva per natura, e non allineata alle convenzioni. Dov’è finita la potenza di una pratica riflessiva e interdisciplinare? I contenuti delle “liste” non assegnano nessun significato riguardo questi fondamentali, come ad esempio l’arduo rodaggio di un atteggiamento per gestire l’incertezza dell’esplorazione e la sfida al nostro comportamento abitudinario, basato per natura sulla prevedibilità e il controllo. Da un lato pensare, agire ed essere attraverso la modalità-design vuol dire affinare volontariamente la percezione delle proprie e altrui sensazioni implicite (concetto di “sciopenariana” memoria). E dall’altro, la loro esplicita rappresentazione e formalizzazione estetica. La riproduzione meccanica di un tale meccanismo, non solo alimenta la fallacia del controllo, ma anche lo svuotamento della parte più umana della progettazione, ovvero la volontà soggettiva del ricercatore.

In finale, la chiusura sul processo per step potrebbe aumentare l’immagine di una modalità-design intesa come casa degli interessi strumentali e strategici della classe manageriale che controlla i processi d’innovazione, evadendo così un’opportunità ben più profonda di acculturazione. Questa è la via per creare quelle malfamate costrizioni (nelle quali è difficile poi muoversi) che ci fanno pensare e agire in modo limitante. E ciò non giova per nulla alla progettazione, sopratutto quando parliamo di innovazione. Ricordate l’avvocato di Melville? Quando si mettono in gioco i propri attributi e valori cognitivi, così come quelli fisici e relazionali, lanciamo un profondo attacco alla nostra cultura e alle nostre abitudini. Quando entriamo in questa discussione, invece di trovare codici nudi e crudi, bisognerebbe capire come non eludere quella “corda tesa” al fine di godere del vero spirito della progettazione, e scoprire ognuno la propria nuance. Trascurarla sarebbe come guardare un paesaggio e avvistare solo gli oggetti che lo popolano, senza vedere le strutture che li connettono e che li sostengono nella posizione in cui si trovano. La modalità-design non è qualcosa da comandare per dogmi (come accade spesso nel linguaggio e la pratica del business) piuttosto come una sfida aperta e non-completa, su cui accrescere e rinnovare la propria capacità di dare senso ai fatti del mondo. E’ così difficile pensare che l’attuale consumo meccanico del DT, in tutte le sue forme (intellettuali e pratiche) possa aiutare i professionisti a nutrire e integrare una visione sistemica delle cose. Andare contro questa produzione culturale semplificata e pronta al consumo immediato, vuol dire mirare alla ricerca della genuinità e spontaneità della modalità-design. Nell’odierno DT, abbiamo compreso l’importanza di raggiungere una certa percezione, che non è la sola unicità, e -come si usa dire- quando siamo a contatto con qualcosa di nuovo dobbiamo “sentirlo” e anche “farlo” nostro. Da qui, potremo rendere la partecipazione quanto più democratica possibile a quel processo di crescita e formazione della resilienza, oggi cruciale per qualsiasi organizzazione. E’ qui che si deve dare un senso alla relzione tra ricerca e business. La modalità-design (come tutte le altre attività umane) favorisce sensate rappresentazioni e inquadramenti di se stessa che annidamenti di definizioni astratte nella mente. Oggi non ci sono formule magiche per una tale modalità di avanzamento: è un’esperienza sfidante che può essere paragonata ad un corpo estraneo che si ficca dentro le nostre certezze. E il fallimento è una sua parte naturale. A fronte di questa esperienza generativa, la scienza è dove possibile nostra amica.

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Emiliano Carbone

Senior Business Designer @ Tangity — NTT DATA Design studio #design #research #complexity (views are my own)