Riflessioni di design — 1x0, Intro

Emiliano Carbone
7 min readMar 11, 2018

Il filosofo e professore Italiano Maurizio Ferraris, nel suo libro Documentalità, perché è necessario lasciar tracce spiega che la peculiarità dei soggetti è quella di avere rappresentazioni. Mentre gli oggetti non ne hanno, i soggetti, attraverso lo spazio e il tempo, sono responsabili di ciò che producono, e da qui la differenza in “oggetti sociali” che integrano quindi le categorie sopracitate, ovvero lo spirito, la volontà dei nostri “atti”. La Documentalità è proprio la forte inscrizione di atti — “forte” nel senso dell’acquisizione di potere rispetto la realtà in cui essi si trovano— Il design, da questo punto di vista, trova affinità proprio come atto dello spirito (ovvero tutta quella produzione tecnica, scientifica, artistica e culturale) in particolare come momento di costruzione dei nostri atti forti, soprattutto oggi che (diciamo sempre) si occupa ancor di più della esperienza umana e dei suoi sistemi organizzativi. Gli argomenti che sono rintracciati in questa rubrica Riflessioni di Design provengono ovviamente dal lavoro quotidiano e la loro elaborazione è deliberatamente ispirata dagli inquadramenti proposti da Ferraris (come quello interessantissimo della differenza tra ontologia ed epistemologia, argomento attualissimo anche nel Design). E se caliamo questa rappresentatività dell’atto del Design, nella odierna esplosione di comunicazioni, l’importanza delle nostre produzioni come registrazioni culturali assumono un valore intrascurabile. Il Design è un grande oggetto sociale, ed é vero infatti che nessuna produzione dello spirito potrebbe avere consistenza senza la lettera, la registrazione, il documento. Ferraris ci ricorda che è solo attraverso la registrazione che si attua il passaggio dalla natura alla cultura, fondamento della società. Riflessioni di design in questo spirito, si propone come contributo aperto alla cultura del progetto.

Ebbene, diverse Commissioni Europee focalizzate sull’innovazione riconoscono il Design come driver per la crescita. Il Design è una “disciplina critica ed un’attività idonea a portare nuove idee ai mercati”. Così il Design scopre e aumenta il valore di nuovi prodotti e servizi. Le aziende toccano con mano il vantaggio competitivo di usare il Design, soprattutto in termini di marketing locale, e quindi possiamo dedurre che più un paese non è sviluppato più ha bisogno di essere progettato. I paesi occidentali immersi e concentrati come sono (fisicamente, socialmente e culturalmente) in nuove apps, devices e novelties, manifestano, e sono al tempo stesso testimoni, del più alto livello di artificiosità che l’uomo abbia mai creato. Persino la natura a questo punto è influenzata dai nostri designs. E’ piegata ai nostri obiettivi e alle nostre necessità dell’abitabilità. Da dove viene tutta questa potenza creatrice? Cosa è in grado di processare e materializzare così tante informazioni? La nostre mente? Tutto questo può essere “buono” o “cattivo” — energia creatrice e distruttiva — In questa prospettiva il Design, ovvero quell’insieme di capacità e abilità innate di organizzare le conoscenze, pianificare le risorse, l’atto di creare immagini di alternative alla realtà ed elaborarle in nuove sintesi, è ovunque; dalle architetture, fino alla preparazione di un’arringa dell’avvocato, dall’intero sistema del retail, oppure nelle riforme politiche. La cornice di riferimento in questa questione è quella rara e preziosa delle scienze applicate che gli esseri umani usano per dipanare i problemi. Quale logica debba seguire il designing-act è l’eterna domanda a cui cercano di rispondere i suoi teoretici, e alla quale abbiamo ormai capito non esiste una risposta definitiva (e ciò dipende dalla misura in cui si evolve l’essere umano stesso, e cioè molto velocemente). Il Design si occupa a tutti gli effetti di nuovi modi di vedere e sentire il mondo. Esso guarda a nuovi modi di pensare e concepire l’uomo.

Riflettendo su questa questione e guardando alla situazione odierna, sorge un paradosso: nonostante questa azioni/iscrizioni siano fondamentali e onniscienti, i suoi risultati faticano comunque a disseminare buona e duratura innovazione. Proprio da questo nodo, sorgono le varie tematiche che questa rubrica sottopone ad un processo critico. Allora, dove soggiace il cortocircuito? Il ricercatore e professore Italiano Roberto Verganti individua la fallacia nella mancanza di nuove interpretazioni di valori culturali. Nonostante noi viviamo in un mondo “sovraffolato di nuove idee” esse non riescono a integrare nuovi significati. Ma se il Design nutre l’abilità dell’essere umano di “proiettare” il nostro pensiero e “incidere” le nostre idee nel mondo fisico, allora noi dovremmo continuamente coltivare quel processo di realizzazione. Lì, è dove la valutazione, la produzione, e la assegnazione dei significati accade. Un punto di partenza promettente per muoversi sulla linea che conduce dall’astratto al concreto (camminando un percorso che va dalla logica rigorosa del problem-solving di Simon, fino al recente e definitivo accoppiamento di mente-prodotto, cognizione-progettazione) è la padronanza delle conoscenze mentali e cognitive, così da poter ripensare e adattare sempre al meglio il nostro (famigerato) “design-thinking”. Questo è un primo argomento fondamentale nella progettazione che riguarda il mind-set, ovvero un attitudine psicologica. E difatti, in questa Rubrica, esso viene trattato come una vera e propria modalità psichica, la “modalità-design”.

Le correnti “sfide” che i nostri progetti devono fronteggiare sono le più complesse di sempre, e per risolvere un uomo nuovo nel mondo, noi dovremmo concepire nuove visioni che vadano oltre i driver esausti di sviluppo tecnologico, efficienza e convenienza (buoni per la fase iniziale dell’industrializzazione). Tim Brown recentemente ha notato che stiamo passando attraverso “il periodo più ambiguo e disturbato che il mondo abbia mai conosciuto” (ndr). Allora dovremmo focalizzarci sulla produzione di nuovi contenuti umanistici per rendere nuovi punti di riferimento al “tavolo” della progettazione. Qui siamo nel cuore del design process che concerne l’arte dello strutturare, interpretare, e dare senso alle “cose” della realtà che nella nostra epoca, sono un corpo complesso di questioni sociali, culturali e politiche. Organizzare le informazioni nella giusta domanda, può darci la possibilità di sbloccare favorevoli vuoti inesplorati, dove trovare nuove strade di accesso all’innovazione. Questo è l’argomento, strettamente connesso a quello della modalità-design, ma che ci eleva nella dimensione dell’interpretazione, la “quadratura” del problema, il problem-framing.

Grazie all’approccio dello Human-Centred (dimostrazione di una forte interpretazione di valori e caratterizzazione delle scelte da portare al centro delle pratiche progettuali) noi focalizziamo il nostro lavoro di progettazione su un processo che mira all’integrazione dei fattori umani e bisogni dell’utilizzatore finale e (secondo gli stessi teorici) perfetto per l’innovazione incrementale. Facendo così spesso incappiamo su un livello ancora più profondo d’indagine, che integra un’altra domanda altrettanto cruciale ed esistenziale che mette le intenzioni del designer e i famigerati final users di fronte a un grande “bivio” del giudizio: noi chiediamo agli utilizzatori (a volte implicitamente ed elusivamente) se loro vogliono innescare in un determinato sistema di cose di cui fanno parte, un positivo e radicale “sollevamento” o mantenere e perfezionare una sorta di “stasi”. Una domanda che non può essere risolta durante un’intervista (1 di numero), perché pone un individuo a contatto con un tale sistema semantico e interdisciplinare — non di meno con le proprie viscere, che sorge un’inevitabile questione di responsabilità su come il progetto dovrebbe condurre la sua investigazione. Miriamo allo sviluppo o al progresso? Due pratiche simili, ma non uguali (e la storia della politica ne è la fucina). Questo è il campo di un altro argomento cruciale che oggi acquisisce sempre più importanza, e riguarda l’etica nel design, ovvero Design-ethics.

Tuttavia gli ultimi anni sono segnati anche da un fenomeno avvincente (e caro al design) che integra in una certa misura tutti questi argomenti: l’incremento di spazi connettivi che mirano a costruire un tavolo diversificato per la progettazione e la pianificazione. Data sopra l’onniscienza, e il controverso periodo storico, oggi condurre e disseminare maturi laboratori di progettazione risulta un’attività di estrema importanza. Essi sono una forma d’incontro che accrescono coinvolgimento e partecipazione in uno spirito quasi ri-educativo. E che si rivolge all’interno dei settori Publico/Privato, a tutti i livelli. Essi sono un profondo momento di acculturazione e apprendimento intorno a nuove mentalità, approcci e metodologie che sono preziose per ristrutturare le agognate interpretazioni. Il sociologo Richard Sennett spiega l’importanza di riportare in auge un cultura dello “stare insieme” come una “cooperazione dialogica” perché la ridotta abilità delle persone a cooperare, è stato uno dei fattori che hanno accelerato la crisi economica. Bene, se la cooperazione è possibile, dovremmo perfezionarla il più possibile. Chi è pronto per il compito di orchestrare questi “connettivi” sono i cosiddetti esperti del design che oggi ricoprono sempre di più questo ruolo di connettori e consulenti. Questo, è l’argomento che riguarda la disseminazione della cultura (non solo dei progetti) del design, e cioè il co-design.

In conclusione, il design è davvero umanamente importante. E riguarda davvero le alternative dell’essere umano (e non soltanto le alternative del fare). Esso è uno dei fenomeni culturali più potenti e complessi del nostro percorso umano di esistenza che osserviamo quotidianamente nelle nostre comunità. Questo tipo d’indagine sposta, ancora una volta, il focus dagli artefatti (tutto il range dai tangibili agli intangibili) ad un livello più profondo, che guarda più al soggetto che produce, e non all’oggetto prodotto. In quest’ottica, i designers sono degli “intersecatori” ovvero, agiscono lì dove qualcosa arriva e qualcosa va. Uno spazio sempre aperto e confuso, incerto e senza contorni definiti. Il cuore del loro lavoro è quello quindi di formare, scoprire, educare e costruire. Così il Design dimostra di essere un ottimo modo anche per imparare e conoscere. la parola intersecatori vorrebbe enfatizzare un “incrocio” tra le scienze dure e morbide, uno spazio mentale che Joichi Ito connota come “indisciplinato” e che ci restituisce uno spettacolo affascinate e frizionale. Una finestra collettiva dove le organizzazioni devono mettere insieme più diversità possibile (in termini di conoscenze scientifiche e anche personalità umane). Un’intersezione davvero difficile da inquadrare, come i suoi risultati da Uber a Facebook, passando per Amazon, Airbnb e Foodora.

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Emiliano Carbone

Senior Business Designer @ Tangity — NTT DATA Design studio #design #research #complexity (views are my own)