Riflessioni di design — 1x2, Problem-framing: un elogio all’antica ma dorata storia dell’interpretazione

Emiliano Carbone
8 min readAug 21, 2018

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Sin dall’INTRO di questa rubrica, non ho potuto cedere al richiamo che tutte le attività umane dove è richiesta l’operatività dello spirito, sono accumunate dal fatto che ognuno di noi (coscientemente o meno) è abituato ad esperire la propria dimensione progettuale. E cioè dove, grazie alla nostra capacità interpretativa, applichiamo la nostra conoscenza per risolvere problemi; così come per raggiungere i nostri obiettivi e desideri. Nella vita quotidiana o nel nostro lavoro, proprio nella dimensione progettuale, strutturiamo spontaneamente i problemi. La lezione che ci viene dalla psicologia, spiega che diamo senso alle nostre esperienze, e di conseguenza costruiamo potenziali procedure d’azione con cui potremo riuscire a dimostrare le nostre stesse previsioni sull’ambiente. In questa attività “interpretazione” e “volontà” sono fuse assieme, a strati. Per questo motivo, il raggiungimento di una coerente ed efficace comprensione dei problemi, può influenzare il resto dei nostri sviluppi futuri (salvo che si voglia provare un volo alla cieca). Difatti non c’è modo di evitare l’interpretazione: significherebbe che il nostro giudizio è deliberatamente sospeso o che il nostro cervello è affetto da lesioni (molto gravi). Nella realtà, non può esserci nessuna acquisizione di significato senza interpretazione. La “creazione di senso” è una condizione sine qua non la comprensione dei problemi e l’apprendimento di nuove informazioni, può avvenire. Noi cogliamo la lezione, distinguiamo eventuali novità e correzioni, e decidiamo cosa aggiustare nella nostra struttura. Facciamo questo ogni volta per ottenere chiarezza, per trovare requisiti, per rinvenire la giusta domanda e inquadrare i nostri scopi. Ed è un problema esso stesso, data l’enorme mole di possibili suggerimenti-semantici rispetto l’esperibile. Sebbene pensiamo di essere intrinsecamente razionali, viviamo secondo questa metafora multisensoriale, testando costantemente l’appropriatezza delle nostre teorie. Individuiamo e collaudiamo progettualmente le relazioni tra i nostri scopi, teorie e comportamenti.

Oggi stiamo camminando in una soglia dove la nostra artificialità sta evolvendo ad una velocità mai raggiunta prima. Stiamo infatti concependo nuove dialettiche con questo complesso mondo che è costantemente in divenire, attraverso terabytes di dati e che avrà sempre più bisogno di nuovi linguaggi. Allora se guardiamo ai problemi odierni, emergerà che siamo in contatto con nuove categorie. Nuove problematiche che per certi aspetti sono a noi sconosciute. Anche quando appaiono concise e distinte, non appena sono rivelate, ci troviamo di fronte a un’esplosione di problemi strettamente intrecciati. Bene, questo potrebbe essere il momento in cui tirare fuori quel “mantra-Schöniano”, ovvero di strutturare con nuove scelte le nostre riflessioni. Il momento è maturo per immaginare nuove domande di ricerca e dare senso a questo nuovo dedalo di dati. La nostra abilità di dare senso alle nostre sensazioni, cioè la nostra incrementale alfabetizzazione sensoriale, è “l’antica-ma-dorata-storia” per risolvere tali incognite. Così sarà necessaria una grande dose di pazienza e consapevolezza critica, per gettare luce sulle oscure, invisibili, e intangibili sfaccettature dell’esperienza umana che ancora non afferriamo. Come sostiene il semiotico italiano Salvatore Zingale: “il senso nascosto delle cose” e “il senso possibile della soluzione”. Pertanto, accrescere la nostra abilità di approfondire la nostra umanità, è uno dei miglior investimenti da avere in qualsiasi tipologia di organizzazione (anche perché vale la pena scommettere sul comportamento equipaggiati con buona conoscenza). Focalizzarsi sulla problematizzazione e costruire un appropriato capitale conoscitivo, è essenziale contro qualsiasi processo dogmatico oggi ci spinga più sul tirare fuori soluzioni. Più la ricostruzione della “storia” (nel senso più ermeneutico possibile) di un problema è fuorviante, più incorreremo in potenziali equivoci della sua interezza (così “prototipando”soluzioni a un problema sbagliato). Una massima riguardo questo meccanismo ci è stata lasciata dallo psicologo George A. Kelly: “tutte le nostre percezioni sono aperte alla discussione e riconsiderazione (…) anche i più ovvi accadimenti della nostra vita quotidiana possono mostrarsi completamente diversi se siamo sufficientemente inventivi da costruirli in maniera diversa”.

Facendo affidamento sulla nostra abilità interpretativa, proviamo a comprendere i problemi in tutte le loro sottigliezze. Proviamo a catturare le loro essenze, le loro performance, le loro storie e i loro linguaggi. Questa è anche la prima attività deliberata che facciamo nell’ambito delle nostre ricerche; poiché è cruciale nel dare uno scopo e una direzione allo sfocato palcoscenico delle nostre vite. E’ così che l’essere umano riesce a progettare il proprio habitat da una prospettiva sensata. La dialettica che stabiliamo con gli artefatti con cui interagiamo (qualsiasi tipo, astratti o concreti), è un circolo ricorsivo e inarrestabile che assegna significati, e su questa base, ci consegna ulteriori prospettive per concepire ulteriori azioni. E i significati si trovano raramente per caso: devono essere scovati, compresi e costruiti. Proprio per questo, la ragione per cui il design ottiene nel tempo maggior successo, sopratutto quello dei servizi, nel contesto business, è perché ha condotto i professionisti fuori dagli uffici nei contesti reali, ovvero in un crogiolo di informazioni. Oltre la presupposta sufficienza “razionale” e “analitica” del pensiero, il design ha maturato una serie di strumenti e attività che servono meglio all’interno dell’ambiente, tra le persone, tra le conoscenze e le informazioni, proprio l’interpretazione del problema (un’attività precedentemente segregata tra le pareti di pochi uffici). Ovviamente il risultato è più spesso e più complesso; ma è il più vasto e colorato capitale umano con cui aver a che fare! Così le attività di design migliorano davvero il passaggio dalla rappresentazione della realtà, all’impressione della sua comprensione. Un’evoluzione vigile che ha seguito la nuova e crescente critica — sia pragmatica che costruttivista — e ha trovato spazio per rinnovare la sua capacità sensoriale, soprattutto nel passaggio del design degli oggetti a quello dei sistemi. In questa luce, la dimensione progettuale, questa proattività trasformativa e interpretativa, è davvero un processo personale di esplorazione, dove la multi-soggettività raggiunge il suo picco più alto di apprendimento. Questa sociale inchiesta generativa è stato il primo argomento trattato in questa rubrica.

Le problematiche contemporanee non appartengono più al nostro mondo tecnico-razionale, e questa è un’altra ragione per cui abbiamo bisogno di nuovi metodi per afferrare e capire la realtà. Siamo andati oltre Grapes of wrath, e abbiamo raggiunto un grande livello nelle scienze della produzione, automazione, ingegneria e gestione. L’innovazione, al centro della nostra speculazione, è essa stessa risultato della nostra interpretazione. L’abbiamo prima articolata come problem-solving, poi come ideazione, ma dentro questo mondo iperstorico dove ogni secondo registriamo migliaia di flussi di informazioni, dati, e connessioni, questi modelli non funzionano al loro meglio nel dare senso ai nostri nuovi comportamenti, attività e prospettive. Questi approcci non “pensano” più. Allora il cambiamento che sta avvenendo, appare più culturale che tecnico. Come “produrre” nuove forme di umanità in un mondo così? Come gestire, sintetizzare, e prendere posizione in una tale massa di dati? Abbiamo bisogno di nuove categorie interpretative (e forse dovremmo dimenticare la nostra class consciousness). Questo è il momento (soprattutto per i designer) di chiedersi davvero, come concepiamo le persone e la realtà. I problemi di oggi, per dirne qualcuno, sono difatti: i) politici, dove il capitalismo rampante sembra non seguire una democrazia debole e volatile, generando solo ineguaglianze; ii) ambientali, vedi il cambiamento climatico e l’aspro conflitto tra scienziati, considerando inoltre che l’economia basa la sua prosperità sulla competizione per le risorse del pianeta — come ha affermato Tim Jackson: “dobbiamo decidere se far crollare il sistema o far crollare il pianeta” [ndr]; iii) sociali, poiché la morbosità legata alla nostra dipendenza dalla tecnologia, formatta e amplifica corpi, emozioni e pensieri, e questo probabilmente peserà sul nostro futuro sistema sanitario (già pesantemente afflitto e privatizzato). E’ la natura stessa di questi problemi a darci consapevolezza di essere usciti de facto da qualsiasi visione riduzionista e meccanicista della natura umana. Le discipline umanistiche in questa fase storica, svolgono un ruolo centrale. L’antropologo e imprenditore Christian Madsbjerg ha scritto un libro magnifico che si chiama Sensemaking, il quale analizza a fondo il potere delle discipline umanistiche riuscendo a raggiungere con la massima forza la complessità e la non-linearità della natura umana.

Alla luce di un paesaggio così fitto, quando apriamo la “scatola dei problemi”, le sfide risultano essere “aperte” e “non-strutturate”. Come possiamo affrontarle? Come possiamo capirle pienamente? Come gestire al meglio tutte le potenziali azioni di ricerca? La comprensione dell’ormai popolare “perché”, richiede di risalire la china della nostra logica concettuale, partendo direttamente dall’analisi degli obiettivi che i problemi ci pongono. Lì, le persone potranno confrontare le loro teorie, significati e credenze. Nel campo della progettazione dobbiamo affinare la nostra capacità logica in termini di requisiti e costrizioni, perché essi sono i limiti che pone concretamente la realtà. Come ha scritto il filosofo Luciano Floridi: “le scienze e gli sforzi intellettuali più influenti del nostro tempo (…) non studiano soltanto i loro sistemi, ma principalmente li costruiscono e li modificano. Più le scienze si spostano da un approccio mimetico ad uno poietico del mondo più si avrà bisogno di una logica del design”. [ndr] Infine, la comprensione dei problemi potrà essere più semplice nelle scienze fisiche, naturali e tecnologiche, ma riguardo le questioni sociali e politiche? Cosa dire riguardo le sopracitate svolte odierne? Non è sufficiente descrivere e analizzare la realtà. Adesso abbiamo bisogno di interpretarla costruttivamente. E questa è la forza umana più potente per accedere e influenzare il mondo, irriducibile a qualsiasi metodo scientifico-positivo. Sappiamo riconoscere bene l’impatto della progettazione in questi campi. Qui i fatti e i problemi sono molto complicati da strutturare e decifrare. La quantità di informazioni diverse sono complesse da discernere, e molte di loro non sono “oggettive”, molte non sono “numerabili”. Ed è molto complicato raccogliere in modo appropriato e coerente ciò che è primario e ciò che è secondario. Talvolta non ci sono neanche prove sufficienti al contesto in cui si sta operando; e i significati, come ci ricorda Roberto Verganti, possono essere “outlandish” dalla realtà in cui siamo immersi. L’interpretazione richiede interessi e risorse dalle organizzazioni, così come l’inclinazione delle persone a riavviare le loro strutture concettuali, poiché i significati sono costruiti dai loro stessi sistemi culturali. A questo proposito, qui la natura multiforme del genere umano spicca maestosamente, quella che dobbiamo abbracciare pazientemente per lasciarla respirare piuttosto che soffocare.

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Emiliano Carbone

Senior Business Designer @ Tangity — NTT DATA Design studio #design #research #complexity (views are my own)