Le “conseguenze collaterali” della guerra alle droghe: come l’ONU e i governi mondiali finanziano la pena di morte

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8 min readApr 1, 2016

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di Andrea Oleandri

Si avvicina a grandi passi il 19 aprile, giorno di inizio della Sessione Straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGASS).

I governi del mondo si ritroveranno per tre giorni a discutere di droghe e delle politiche da applicare nel prossimo futuro. Avvicinandoci a questo appuntamento si iniziano anche a cristallizzare le posizioni e si possono avanzare ipotesi sull’andamento di questo appuntamento.
Ipotesi tutt’altro che positive specie in termini di protezione dei diritti umani, riduzione del danno e pena di morte, come ha accennato Steve Rolles in un’intervista esclusiva che ci ha rilasciato qualche giorno fa.
“Anzi, è plausibile che su questi punti si verifichi addirittura un peggioramento rispetto allo status quo” ci dice il Senior Policy Analyst di Transform.

E proprio di pena di morte — droga correlata — che parliamo in questo quarto approfondimento targato #NMLSG.

LA PENA DI MORTE, EFFETTO COLLATERALE DELLE CONVENZIONI ONU

Durante la stesura della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961 — più volte descritta come la fondamenta del regime globale di controllo delle droghe — c’erano solo una manciata di stati ad applicare la pena di morte per reati droga-correlati. Ma con l’adozione della Convenzione e l’implementazione di questa in leggi, il numero è incrementato. La ragione è semplice. Questa vietava la produzione, la vendita e il consumo di qualsiasi sostanza considerata stupefacente imponendo la criminalizzazione di ogni atto che avesse che fare con queste sostanze. Per alcuni paesi la criminalizzazione è consistita nella condanna capitale.

Così se nel 1979 erano “solo” 10 paesi a prescrivere la pena di morte per reati di droga, nel 1985 il numero era salito a 22 e, nel 2000, a 36. Attualmente gli stati che la prescrivono sono 33 (anche se in alcuni di questi è simbolica e nella realtà la si applica molto raramente o non la si applica più da anni). Numeri altissimi se si pensa che, nel frattempo, a livello globale l’abolizione della pena di morte per tutti i crimini è cresciuta a ritmi che storicamente non si erano mai registrati.

Crimini di droga e condanne capitali: paesi a confronto, in una data-visualization di Amnesty International.

In anni recenti le Nazioni Unite stesse — e le agenzie che si occupano direttamente di droghe — si sono più volte pronunciate sostenendo l’abolizione della pena di morte per reati droga correlati, invitando gli stati membri a seguire gli standard internazionali in materia. Ha fatto così l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) nel 2010, nonché l’International Narcotics Control Board nel 2011.

Tuttavia i governi che ancora prevedono la pena capitale per questo genere di violazioni si fanno scudo dinanzi a queste richieste, impugnano gli stessi trattati sul controllo delle droghe. Per esempio la Corte Costituzionale indonesiana, in un importante caso presentatogli sulla pena capitale, ha sostenuto che i trattati internazionali sul controllo della droga autorizzano lo stato a mettere a morte persone per questi reati, nonostante gli standard internazionali dicano altro.

Effetti collaterali della guerra alla droga, appunto.

Reati di droga e pena di morte, tutti i numeri (di Amnesty International Italia).

CHI VA A MORTE?

La guerra alla droga doveva servire a colpire i grandi trafficanti ed invece è diventata da subito una guerra ai consumatori e ad altri “pesci piccoli”, come facevamo notare in un altro nostro approfondimento.

La cosa vale anche per le persone che gli stati condannano a morte. C’è certamente qualche pezzo grosso, ma per lo più la condanna capitale colpisce rivenditori e corrieri di basso livello e persone vulnerabili che sono state ingannate o costrette a trasportare la droga.

Ci sono uomini, donne, giovani e persino bambini condannati a morte per droga. In alcuni casi si è trattato di avidità, in molti altri di disperazione e mancanza di alternative.

Illustrazione di Patrick Gallahue per Open Society Foundations.

Sono numerosi i casi di contrabbandieri che hanno ricevuto somme irrisorie di denaro come punizione. In altri invece capita che neanche si sappia cosa si stia trasportando o che, se lo si sa, non si sia a conoscenza del fatto che si sta infrangendo la legge o che questo sia punibile con la morte.

La cosa certa è che, come qualsiasi altro approccio penale, neanche la pena di morte serve a frenare il flusso di droga che attraversa questi paesi.

Per mostrare questa cruda realtà guardiamo a un caso simbolo: l’Iran.

Le esecuzioni capitali nel mondo (visualizzazione-dati a cura del Guardian).
Tutti i numeri delle esecuzioni capitali per droghe nei “peggiori” paesi del mondo (di Open Society Foundations).

MIGLIAIA DI ESECUZIONI E LA DROGA CHE NON SCOMPARE. E LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE? COLLABORA!

In Iran più di 2.690 persone sono state messe a morte in 6 anni, dal 2010 al 2015, per reati di droga. Con 638 esecuzioni (sulle 969 totali) il 2015 è stato l’anno peggiore dal 1990 per quanto riguarda le esecuzioni legate a crimini di droga. Di queste esecuzioni 15 riguardavano donne.
È questa la fotografia del paese che emerge dal Rapporto Annuale sulla pena di morte in Iran realizzato da Iran Human Rights (IHR).

Per l’Iran, il 2015 è stato l’anno con il più alto numero di esecuzioni dal 1990 (visualizzazione dati di IHR).

In alcuni casi — sottolinea il rapporto — queste esecuzioni sono state pubbliche. Uno strumento che attira le proteste anche delle Nazioni Unite, a cui tuttavia la magistratura iraniana ha risposto molto seccamente, sottolineando — si legge sempre nel rapporto di IHR — come queste avvengano “in casi limitati e in circostanze particolari, ad esempio nel caso di avvenimenti che possono stravolgere l’opinione pubblica, e servono come deterrente per diminuire il numero dei crimini legati alla droga”.

Le esecuzioni continuano a un ritmo più serrato di prima. Il mancato diritto a un processo equo e a un avvocato e le confessioni forzate sono altri aspetti con cui gli accusati di reati di droga si devono confrontare.

È il caso di Mahmood Barati, insegnante senza nessun precedente penale e padre di una bambina di 3 anni, arrestato nel 2006. È stato condannato a morte unicamente in base alla falsa testimonianza di un condannato per crimini di droga. La testimonianza è stata successivamente ritirata non in una ma in ben due occasioni. Eppure la ritrattazione non ha aiutato Mahmood che è stato messo a morte nella prigione di Gehzelhesar il 7 settembre del 2015. Secondo le testimonianze è stato torturato e costretto a confessare.

Molti dei condannati a morte per crimini di droga sono corrieri appartenenti ai gruppi più emarginati della società iraniana provenienti da regioni popolate da minoranze etniche come il Baluchistan e il Kurdistan. Proprio in un villaggio del Baluchistan tutti gli uomini sono stati condannati a morte per reati di droga.

Tuttavia queste esecuzioni non hanno avuto nessun effetto sulla quantità di droga sequestrata come analizza bene un rapporto di Open Society Foundations. Nel 2009 furono sequestrate 25 tonnellate di eroina. Nel 2010 il numero era salito a 27 tonnellate (il 33% dei sequestri di eroina a livello mondiale). Nel 2011 ci fu una modesta diminuzione, compensata però da un notevole incremento di sequestri di anfetamine.

Lo stesso segretario generale dell’Alto Consiglio iraniano per i Diritti Umani ha ammesso questo fatto quando ha detto:

“Più del 74 per cento delle esecuzioni in Iran derivano da reati connessi al traffico di droga. Se questo approccio sia corretto o meno è la grande domanda: ‘Questa dura repressione ha fatto diminuire i crimini o no?’ Di fatto non lo ha fatto”.

Non lo ha fatto, ma l’UNODC e molti Stati Europei continuano a pensare sia la strada giusta e a collaborare con l’Iran su queste politiche, elargendo milioni di dollari per supportare le forze antinarcotici in Iran.
Reprieve di recente ha pubblicato il risultato delle indagini, durate due anni, che collegano i programmi di “riduzione dell’approvvigionamento di droga” dell’UNODC a più di 3000 esecuzioni in Iran.

Secondo le scoperte di Reprieve, i governi abolizionisti avrebbero sostenuto con più di 14,9 milioni di dollari le violente operazioni iraniane per il rispetto della legge che hanno portato direttamente a delle condanne capitali. Questi fondi sarebbero stati utilizzati per l’addestramento dei reparti antinarcotici, per la creazione di uffici di frontiera dove i corrieri sono più frequentemente arrestati, e per l’equipaggiamento utilizzato per l’individuazione dei presunti trafficanti di droga (inclusi i bodyscanner, i cani antidroga e gli occhiali per la visione notturna).

Tutti i numeri dei contributi dei singoli stati europei alle esecuzioni in Iran nel 2014 (di Reprieve).

All’inizio del 2015 Reprieve — riporta ancora il rapporto di Iran Human Rights — ha rivelato una valutazione ufficiale delle Nazioni Unite sulle operazioni iraniane dell’UNODC in cui si esprime timore per una potenziale “crisi di fondi”, dovuta alla possibilità che i donatori ritirino il loro supporto a causa delle preoccupazioni per i diritti umani. Nonostante questi avvertimenti, nel dicembre del 2015 Yuri Fedotov, direttore esecutivo dell’UNODC, ha reso noto un accordo per lo stanziamento di fondi di 20 milioni di dollari per le operazioni antidroga nel Paese, senza rivelare, tuttavia, quali saranno i paesi che finanzieranno il progetto né quale organizzazione per i diritti umani dovrà garantire la prevenzione delle esecuzioni legate a crimini di droga.

PERCHÈ TUTTO QUESTO CI RIGUARDA?

Perché, come spiega bene un rapporto di Harm Reduction International, con la convenzione del 1988 che formalizzò la cooperazione transnazionale nel controllo delle droghe si internazionalizzò — de facto — la guerra alla droga. In pratica si istituì un programma di controllo dei confini tra Iran e Pakistan che coinvolge i donatori dell’Unione Europea, formatori della polizia tedesca e francese, nonché attrezzature dei servizi di sicurezza britannici, coordinati dalle Nazioni Unite.

Così, ciò che accade in Iran è influenzato direttamente dalle decisioni prese a Bruxelles, per non parlare degli organismi internazionali interposti in questo accordo.

Quando centinaia di persone vengono condannate a morte in Iran per reati droga correlati, in un paese che riceve milioni di dollari nel controllo della droga, diventa impossibile liquidare questi eventi come conseguenze non intenzionali di tali politiche.

Forse sono questi i motivi per cui, tornando a quanto ci diceva Steve Rolles, da UNGASS non c’è (purtroppo) da aspettarsi nulla di buono per quanto riguarda la questione diritti umani e pena di morte.

Illustrazione di Patrick Gallahue per Open Society Foundations.

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Campagna della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili - per un dibattito informato e una riforma delle politiche sulla droga.