Le bufale: Nuove riflessioni su loro e noi

Valerio Moggia
15 min readMar 18, 2016

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Certo, parlo ancora di bufale. Il tema mi affascina da sempre, come ho già spiegato in altre occasioni: come nascono, perché, come si diffondono. Il grande mistero delle bufale, insomma.

Non occupandomi di statistica, non posso fornire uno studio preciso, ma la mia esperienza personale sembra suggerirmi che le bufale si diffondano principalmente attraverso Facebook. I motivi sono presto detti: limitazioni nei post quasi nulle (facendo un paragone con il grande competitor Twitter, dove c’è un limite di 140 caratteri a post), maggiore visibilità (Twitter presenta un flusso costante e vastissimo di post al secondo, che rendono difficile la visualizzazione di ogni pubblicazione) e contatto più diretto tra gli utenti (il sistema dell’amicizia, che dev’essere richiesta e accettata e su cui è nato Facebook, crea un legame molto più stretto rispetto al più impersonale “follower/following” di Twitter). Le bufale esistono da sempre, hanno trovato maggiore diffusione con l’avvento di internet (il fatto che chiunque possa accedere a qualunque informazione in qualunque momento non implica necessariamente che detta informazione sia vera), ma è grazie a Facebook che credo stiano vivendo la loro Golden Age. Sempre riferendomi a ciò che ho potuto notare -e che ovviamente potrebbe essere errato- altri social network come Twitter agiscono principalmente come “diffusore di seconda istanza”: gli utenti di Twitter sembrano dare per scontate informazioni ottenute attraverso notizie false diffuse in precedenza su un altro social network (ed essendo Facebook il più usato al mondo, il cerchio sembrerebbe chiudersi qui).

Ma pensiamoci un attimo: come nascono le bufale? Esistono davvero questi stregoni malvagi chiusi nelle loro torri oscure a mescolare gli ingredienti più disparati nel calderone fino a creare il filtro ingannatore per eccellenza, scangliandolo tra la povera gente? E come si diffondono? Ogni malvagio stregone ha forse dei servitori silenti mischiati tra di noi che svolgono questo arduo compito e ci infettano a nostra insaputa? O siamo noi gli (in)consapevoli colpevoli della cosa?

Dalla mucca alla bufala

Ah già, l’ebola…

Ovvero, come si prende un qualcosa di “naturale” -cioè un fatto vero, la “mucca”- e lo si trasforma in una bella mozzarellona transgenica da vendere al mercato spacciandola per ciò che non è. La black list dei siti che pubblicano bufale è nota (è citata al primo link di questo articolo, non la ri-linko che non c’ho voglia): a quanto pare esistono davvero persone di merda che creano notizie false apposta. Perché? Alcuni sono banalmente cretini, rispecchiano in pieno la descrizione dell’analfabeta funzionale che oggi va tanto di moda e, dopo aver letto o ascoltato -magari di sfuggita- una notizia vera, capiscono quello che vogliono capire e partono per la tangente.

Più spesso, lo fanno per soldi. Un tempo le bufale viaggiavano per lo più nell’editoria alternativa: scrivevo un libro in cui spiegavo come gli alieni avevano ucciso John Kennedy, lo facevo pubblicare da qualche piccolo editore a caccia di scoop a tutti i costi, e il libro vendeva e io intascavo. Oggi, con internet, è tutto più rapido e immediato: mi basta avere un sito e pubblicare lì. Le visualizzazioni portano pubblicità, la pubblicità porta soldi. Francesco Costa, giornalista de Il Post e non solo, cita in un articolo uscito per Il Sole 24 Ore il gestore del sito Catena Umana, Vincenzo Todaro: la falsa notizia da lui diffusa riguardo il “sesso consenziente” fatto dalle due cooperanti italiane in Siria, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, con i loro rapitori ha fruttato al sito “anche 1.000–2.000 euro al giorno” di pubblicità. Alla faccia dei creduloni che ci hanno guadagnato solo bile.

Nell’articolo sopra citato, Todaro spiega che il suo lavoro consiste nel prendere una notizia trovata online -spesso vera- e fare qualche modifica inventata, scegliere una foto adattata e non necessariamente legata alla notizia, e pubblicare. Il sistema è semplice: la notizia di partenza dev’essere vera (nel caso di Greta e Vanessa, essa riguardava il loro rapimento e successiva liberazione in Siria) per poter pescare in un terreno di verosimiglianza che possa attrarre un largo pubblico; le modifiche servono quindi a passare dal vero al verosimile, creare scandalo e quindi la condivisione compulsiva da parte dei lettori; aggiungi un titolo ad effetto e “acchiappaclick” e una foto assolutamente generica che sottolineii la nuova notizia falsa creata, ovvero lo scandalo (nel caso di Greta e Vanessa, fu usata la foto di una vera guerrigliera curda facendola passare per una delle due ragazze impegnata a combattere assieme all’Isis o chi per esso).

Spesso, gli articoli di notizie false contengono anche numerose informazioni vere, a volte direttamente collegate alla vicenda e a volte no, ma vere in maniera relativa. Prendiamo ancora in considerazione il caso di Greta e Vanessa: le informazioni legate al gruppo jihadista che le aveva rapite erano tutte vere e direttamente collegate alla notizia principale; la notizia che le due fossero sostenitrici della jihad islamica in Siria era ovviamente falsa, ma corroborata da un’immagine delle due con uno striscione recante una scritta araba volutamente mal interpretata, per cui la foto era una verità relativa. Questa mescolanza di vero e falso serve a rendere la notizia più credibile: se una parte è vera, allora anche la totalità deve esserlo.

La bufala di Facebook per eccellenza, che tanti validi compagni innocenti ha mietuto.

Dino Ballerini, intervistato da Repubblica e che da un po’ si occupa di bufale su vari fronti, afferma che il sistema-bufale sia assolutamente imprevedibile: “Non possiamo stabilire in anticipo che cosa tocca realmente nell’intimo le corde di una persona. Si tratta di una serie di fattori x che non riusciamo a comprendere. Un argomento legato all’attualità può di certo favorire, ma anche l’ora di pubblicazione è determinante”. E questo rimanda ad un concetto già detto prima: la quantità diventa fondamentale; i bufalari non studiano a tavolino la bufala perfetta come dei fini strateghi, ma ne partoriscono in quantità industriali, e nel mucchio alcune ce la faranno e altre no, come spermatozoi che devono raggiungere l’ovulo da fecondare. A complicare il mistero è anche la tempistica con cui le bufale vengono riesumate: non è infrequente, infatti, che una notizia falsa pubblicata senza successo mesi o anche anni fa diventi improvvisamente virale.

Oggi, buona parte delle bufale che girano quotidianamente online riguardano piccoli scandali legati all’animalismo, all’ecologia, alle nefandezze dei politici e a quelle degli immigrati. Sono tutti temi populisti di facile presa su un vasto pubblico, e facilmente smentibili; l’obiettivo di chi le crea è colpire nel breve periodo, conquistare lettori nell’immediato, perché ogni lettore è un click, e ogni click è una visualizzazione e quindi pubblicità. Poco importa se poi il lettore capirà che la notizia è falsa: ormai ha cliccato, e il suo compito -contribuire all’arricchimento del gestore del sito- è compiuto. Ecco perché la maggior parte dei siti di bufale oggi sono aggiornati quasi quotidianamente, perché il guadagno arriva grazie alla quantità di notizie false prodotte. Diversamente agiscono le bufale complottiste, che trovano spazio nell’universo dell’anti-sistema più becero e semplicistico, e derivano dalla tradizione più cartacea ed editoriale delle bufale: le cospirazioni governative come l’11 settembre o quelle delle case farmaceutiche come la storia dei vaccini puntano molto di più su un’attendibilità duratura, perché spesso sono diffuse attraverso articoli lunghi, saggi o libri veri e propri e quindi devono essere più difficili da smentire (la strategia tipo per mantenere il beneficio del dubbio su queste teorie è solitamente quella della censura del potere: se non trovate prove a sostegno della tesi complottista, è perché sono state censurate). Il campo delle bufale complottiste è molto più complesso rispetto a quello classico: qui, l’origine del falso si perde nella notte dei tempi, anche se è probabile risalga a qualche misconosciuto “rivelatore” (qualcuno che sa, che conosce un segreto troppo a lungo taciuto e decide di rivelarlo) con fini puramente economici e di fama -verrà chiamato nei talk show televisivi, intervistato, scriverà libri, eccetera- il cui falso viene spesso citato più e più volte da altri libri e altri siti internet che lo prendono per vero, alimentandone la credibilità. Il primo tipo di bufale, quindi, ha fonti spesso dirette -il sito su cui leggete l’articolo è solitamente quello che l’ha inventato- che vengono ricondivise online; il secondo tipo è quello delle fonti indirette, ovvero di articoli che citano -in maniera palese o meno- altri articoli, che magari citano una fonte di terza o quarta mano a loro volta.

La bufala è sul mercato: comprate, gente! Comprate!

Eri stato attento alle lezioni di Storia, vedo.

Una volta confenzionata la nostra bella bufala alla diossina, dobbiamo spacciarla sul grande mercato di internet. La diffusione fa leva su meccanismi semplicissimi che riguardano i lettori: entra finalmente in gioco il pubblico.

Il lettore medio è una persona profondamente delusa dalla classe politica e dall’informazione tradizionale, per cui quando trova una notizia che “altrove non leggerete” ci crede sulla fiducia, in virtù dell’assioma secondo cui i quotidiani nazionali raccontano solo palle (ne discende che ciò che non raccontano dev’essere per forza vero); la mancanza di fontiautorevoli, invece di significare una smentita della notizia, ne diventa paradossalmente conferma. Questo perché il successo delle bufale è rivelatore dei nostri pregiudizi, come nel caso appena citato dei giornali nazionali: il mio pregiudizio è che i quotidiani fanno parte del potere e quindi nascondono notizie vere e pubblicano quelle false; quando trovo una notizia scandalosa pubblicata su ImolaOggi capisco automaticamente che si tratta della verità per il semplice fatto di non essere stata pubblicata sulla Stampa, visto quando è scomoda per il potere. Idem per tutti gli altri temi: la diffusione delle bufale animaliste si fonda sul pregiudizio secondo cui il mondo è pieno di persone brutali che amano far del male agli animali; le bufale sui politici partono dal presupposto che i politici vogliono solo rubare i nostri soldi e non lavorare mai; quelle sugli immigrati lo stesso. Non importa quanto sia assurda la notizia: l’importante è che confermi un’idea che io avevo già (ovvero “visto che avevo ragione? Sono sveglio, io”).

Nelle bufale, la realtà viene semplificata fino ai minimi termini: dietro a eventi sconvolgenti c’è per forza un complotto unidirezionale messo in piedi da pochi e ben identificabili individui. Una leva fondamentale è, ovviamente, l’ignoranza del lettore: non dimentichiamoci che la maggior parte della gente non legge nessun quotidiano e, dei pochi che lo fanno, una buona fetta lo sfoglia soffermandosi giusto sui titoli e, se va bene, sulle prime righe. La realtà percepita è frammentaria e composta da “sentito dire”, non viene approfondita e anzi filtrata attraverso i pregiudizi soggettivi e la libera interpretazione, creando delle sacche vuote di conoscenza che possono essere occasionalmente riempite da notizie -brevi, rapide e soprattutto shockanti- che forniscono una spiegazione semplice e unitaria ad una situazione ben più complessa in cui sembrava difficile districarsi. Molte di queste tematiche sono state affrontate in uno studio condotto da Stephan Lewandowsky della University of West Australia.

Il “camionista italiano” è Dimebag Darrell, chitarrista dei Pantera deceduto nel 2004; lo “zingaro rom immigrato slavo” è Lemmy Kilmister, leader dei Motorhead, deceduto nel 2015.

Aggiungiamo un altro fattore determinante, a proposito di ignoranza: le conoscenze scientifiche. L’Italia è uno dei paesi al mondo in cui la gente ha la peggiore dimestichezza con la scienza, in tutte le sue forme; ciò è dovuto per buona parte al fatto che il giornalismo scientifico non abbia mai avuto grande tradizione -come lettori e come autori- nel nostro paese, e che ancora oggi spesso i quotidiani commissionano articoli di questo genere a giornalisti che solitamente si occupano d’altro e finiscono per scrivere articoli mezzi ricopiati e re-intepretati da altre fonti, nel migliore dei casi escono articoli incomprensibili e nel peggiore veri e propri strafalcioni di disinformazione. Questo particolare risponde suffucientemente bene alla questione delle bufale scientifiche sulle truffe online o sui vaccini: il lettore medio non ha la minima capacità di analizzare ciò che le legge.

Tutto ciò trova conferma nel caso della bufala sulla legge Cirenga, l’ennesima legge scandalo approvata dal nostro parlamento: esagerata oltre ogni limite di credibilità, firmata da un senatore che non esiste ed approvata da un numero di parlamentari superiore a quello degli attuali eletti; eppure, divenuta virale. Si tratta di una bufala-scherzo, architettata da Dino Ballerini solo per divertirsi alle spalle dei creduloni del web e senza intenti economici (la differenza è presto detta: la bufala di Ballerini sfrutta dati palesemente falsi e addossa la colpa ad un individuo inesistente e non ad un soggetto preciso come erano Greta e Vanessa, il ministro Kyenge, Laura Boldrini , eccetera; è, quindi, facilmente smentibile, o almeno dovrebbe esserlo in un mondo ideale).

Il giornale dice: “Comprate la bufala!”

Questa notizia fu pubblicata su Il Giornale, quotidiano che ormai sta raschiando il fondo del barile. Il debunking è qui, se siete interessati.

Specialmente negli ultimi anni, l’informazione tradizionale ha ceduto alle bufale. La crisi dell’editoria e dei giornali in particolare è nota a tutti ed è collegata a quel sentimento di disillusione del lettore medio verso la credibilità dei mezzi d’informazione, solitamente considerati -e non proprio a torto- strumenti nelle mani del governo e/o di comitati d’affari. Inoltre, la rivoluzione di internet ha convinto la gente di non aver più bisogno di comprare il giornale ogni mattina, dato che tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno si possono trovare liberamente e gratuitamente online. In un primo momento, i giornali hanno lottato per ricordare giustamente ai lettori che su internet si trova di tutto, comprese notizie false, mentre almeno loro le verificano prima di pubblicarle: soldi ben spesi per un servizio valido, insomma. Alla fine, però, si sono arresi.

Le motivazioni sono molteplici e non tutte di implicita malafede. Internet (sì, sempre lui) ha velocizzato moltissimo la fruizione delle notizie e, per non perdere terreno, i giornali si sono dovuti adattare: se prima si usciva ogni mattina nelle edicole, adesso si esce ogni secondo grazie al nostro sito aggiornato in tempo reale e al nostro profilo sui social. Bisogna essere sempre sul pezzo, anche a costo di pubblicare notizie senza verificarle, per non perdere tempo. Aggiungiamo che oggi gran parte della forza lavoro dei giornali sono giovani sottopagati e sfruttati a cui non si può chiedere di fare da soli il lavoro di dieci persone, e abbiamo un bel quadretto.

Poi, però, c’è ancora una responsabilità più diretta: per non perdere lettori, i giornali hanno scelto di abbassare la qualità della loro informazione almeno a livello online. Seguendo i profili social dei principali quotidiani italiani, noterete che la maggior parte delle notizie condivise sono curiosità e gossip, contenuti virali dal tono scandalistico nel quale ben si inseriscono, quando necessario, notizie false. Il confine tra informazione spazzatura, malainformazione e disifinformazione è divenuto sempre più labile, come viene ben spiegato in questo articolo di Tranelli.

Dici che dovrei cambiar fornitore?

Commenti su Facebook ad una bufala diffusa dalla Gazzetta della Sera (sito di bufale, ovviamente) su un rom che avrebbe picchiato un bambino la cui madre non gli aveva lasciato l’elemosina. La storia completa è qui.

Il paradosso supremo della società contemporanea: la maggior parte dei lettori, messi davanti al fatto compiuto che una notizia che avevano visceralmente preso per vera è in realtà falsa, si rifiutano di riconoscerla come tale.

Uno studio della Ohio State University rileva infatti come il “fact-checking” non sortisca grandi effetti sui malati di bufalite acuta, neppure se fatto in tempo reale. L’esperienza personale mi conferma queste difficoltà: davanti ad una smentita, le persone reagiscono citando altre fonti che confermerebbero la bufala (spesso articoli letteralmente identici, parola per parola, a quello da loro pubblicato, o altri articoli o immagini a loro volta falsi, ma riferiti a situazioni completamente differenti) o, messe di fronte all’evidenza dei fatti, con “questa sarà anche falsa, ma queste cose succedono”, solitamente senza citare le supposte “altre cose” (forse perché non ricordano la fonte, forse per timore di un’altra smentita). Ancora una volta ecco come il bombardamento di notizie false altera la percezione del mondo reale di un individuo: ogni bufala pregressa non chiaramente smentita diventa la conferma di una situazione esistente.

Discorso diverso le bufale complottiste: lì la smentita, quando possibile, comporta l’accusa diretta di essere pagato per nascondere la verità e di essere quindi parte di un sofisticato sistema di controllo e censura globale, che è anche più assurdo della notizia stessa. Tuttavia, l’assurdità è una considerazione soggettiva: non si può convincere una persona che sta dicendo qualcosa di grottesco e senza senso, il semplice fatto di averla detta dimostra che non al ritiene tale. Ecco perché, in questo caso, è molto più difficile smascherare una bufala. Paolo Attivissimo, intervistato dalla Stampa sul tema, sottolinea come in questi casi la situazione diventi sempre un muro contro muro che non può portare a nulla. Quando si radicalizzano le posizioni in un dibattito, negare la ragione all’avversario diventa una questione di principio più che di ragione; è una situazione senza via d’uscita. A maggior ragione sui social network, dove molta gente è convinta che la propria home sia letteralmente il salotto di casa sua, nel quale può dire ciò che vuole e chiunque lo critichi commetta un’offesa personale, una violazione di domicilio (“fatti i cazzi tuoi, io mica vengo a casa tua a dirti cosa mettere nella pasta!”).

Questa è arrivata fin su The Huffington Post Italia, sito d’informazione che non brilla certo per obiettività.

Ma perché ciò accade? Torniamo all’inizio di questo pezzo: i pregiudizi. Se le bufale germogliano sui pregiudizi delle persone, sradicarle sarà molto difficile. Un pregiudizio è una fede, un qualcosa in cui credere in maniera religiosa: in entrambi i casi non necessiti di prove, un minimo indizio -per quanto irrazionale- diventa conferma e ogni ragionevole dubbio o smentita viene ignorato. Immaginate il pregiudizio come un fiore dal gambo esile ma con radici robuste e profonde, quasi come un iceberg sulla terraferma; superficialmente può sembrare una stupidata che può essere rimossa con un minimo sforzo, ma le sue radici restano e sono talmente ramificate e forti che per strapparle potrebbe significare sconquassare completamente il terreno attorno a noi. Il pregiudizio è spesso uno dei fondamenti del pensiero di un individuo, come un cancro ne ha infettato ogni parte e ora contribuisce a mantenerlo in equilibrio.

Mettendo ora da parte questa metafora confuciana, è bene considerare che nonsempre è così, per nostra fortuna. Sempre Attivissimo, nell’articolo di cui sopra, dice che “esiste una trascurata terra di mezzo, quella delle persone silenziosamente dubbiose, indecise se accettare una tesi di complotto o la sua smentita e riluttanti a esternare questi dubbi sui social network”. Esistono persone sì credulone ma con ancora un minimo di spirito critico da capire, messi davanti ad un’analisi seria, la differenza tra il vero e il falso; questa cosa può avvenire solitamente con persone magari non abituate al mondo di internet (e che quindi prendono per vera una notizia a prescindere, innocentemente credendo che nessuno possa pubblicrae notizie false online), genitori preoccupati per la salute dei propri figli (che ovviamente, quando capiscono che non vaccinarli sarebbe un vero pericolo, spesso cambiano idea e riconoscono la bufala), dubbiosi per natura (che, come hanno messo in dubbio la verità per credere alla bufala, sono pronti a mettere in dubbio quest’ultima per credere alla verità).

Nel mio precedente articolo Guida per sopravvivere alle bufale ho cercato di tracciare un metodo secondo cui chiunque -o almeno spero- possa riuscire a capire se quella che ha davanti è una notizia vera o meno. In breve, basta un po’ di spirito critico e la forza di andare a spiegare ai creduloni che sono in errore. Tuttavia, gli esperti anti-bufala intervistati dalla Stampa fanno notare un’altra cosa fondamentale: l’approccio del debunker (cioè di colui che “smaschera la bufala”). Porsi subito come un profeta saccente disceso tra i mortali per portare loro la verità e la conoscenza è tendenzialmente controproducente. Si crea una disparità tra il debunker e il credulone (mi si scusi il termine, ma è per necessità di sintesi), secondo cui “io sono intelligente e tu sei stupido; mò vieni qua che ti spiego le cose”; si torna a ciò che diceva Attivissimo, quindi, il muro contro muro: la reazione dell’interlocutore non può che essere quella di un attacco personale, il dibattito sulla notizia diviene una questione di principio e la bufala una verità da difendere a tutti i costi, perché da essa dipende la mia integrità di essere umano. La discussione terminerà senza vinti nè vincitori, ognuno a casa con le sue convinzioni, ma il credulone ora avrà maturato una malsana antipatia nei confronti della figura del debunker che non farà che rafforzare la sua fede nella bufala cancerogena e la sua sfiducia nella mucca.

Morale della favola: dovremmo tutti cercare (mi ci metto anche io) di essere meno aggressivi quando interveniamo per smascherare delle bufale e fare un minimo di informazione sui social. Perché è vero che una cosa è gestire un sito antibufala dove raccolgo e smaschero “in casa mia”, un’altra cosa è andare a fare lo stesso servizio a domicilio su Facebook, “in casa altrui”: ci espone spesso a una massa informe di creduloni fanatici col coltello tra i denti, e l’aggressività può diventare una forma di autodifesa talvolta preventiva. Sì, non è facile, ma almeno proviamoci.

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