La iatrogenesi medica, sociale e culturale: tra medicina e malattia c’è posto per la psicologia?

Alessandro Campailla
7 min readJul 8, 2020

--

Part 1| Part 2

Considerazioni etiche: la iatrogenesi sociale

Scrivendo di questo so di urtare la suscettibilità di un imperante vitalismo, la difesa della vita sopra ogni cosa, anche sopra la vita stessa e soprattutto al di sopra della libertà, ma se per vita intendiamo relazione e informazione, allora mi sento in dovere di evidenziare il totale soffocamento sia dell’una che dell’altra e di lamentare la profonda carenza di conoscenza di tali termini e istanze terapeutiche nel sistema di cura medico, soprattutto nel campo delle cure terminali con pazienti oncologici. Come ho visto negli anni, e soprattutto come è stato studiato negli ultimi cinquant’anni da alcuni rami della sociologia, dell’antropologia medica e della filosofia della scienza, il problema è generalizzato, procede dalla formazione dei tecnici ed è radicato culturalmente nei sistemi politico-sociali che lo sostengono. Sottolineo, una volta in più, il sistema politico e organizzativo della medicina, non già il singolo medico, ma un apparato complesso e articolato con finalità in contrasto alla cura e alla salute delle persone: politiche, economiche e burocratiche, il cui oggetto o bersaglio è la persona stessa.

Pur proclamando una terminalità dignitosa, in un contesto possibilmente familiare e domiciliare, il sistema burocratico sanitario trascura a più livelli la cura dell’ambiente e dell’ecosistema sociale e familiare delle persone. In questo modo vengono confusi i piani di realtà e spesso, della stessa realtà si evita di farne oggetto di esame. Per relazione si intende la comprensione del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, in senso lato: aria, cibo, acqua, elettromagnetismo, relazioni, conoscenza. Nemmeno considera tale ambiente in senso olistico, nelle sue relazioni strutturali e strutturanti (1). Per informazione si intende la base biologica della vita, che come sappiamo è strutturata, dal più sottile livello molecolare fino al livello macrosociale mutuamente in relazione, sulla capacità di trasmettere segnali codificabili e non ambigui. Fortemente ancorata alla genetica, la scienza medica dominante fatica a prendere in considerazione tali elementi come causa importante sia nello sviluppo dei tumori, sia di tante altre malattie, ancorchè ascritti a fattori genetici ed epigenetici, i quali tuttavia rappresentano una piccola parte del tutto. Per motivi di varia natura le politiche sanitarie, pur ammettendo che i tumori sono malattie multifattoriali, continuano a trattarle come malattie monofattoriali ad eziologia esclusivamente genetico-cellulare.

Chi si affida passivamente a queste politiche rivendica a gran voce il diritto alla cura, anche sospinto da campagne di informazione che inneggiano al dovere di sconfiggere la morte incarnata nel cancro e nelle malattie, ed effettivamente si riscontrano statistiche incoraggianti per alcune sedi tumorali, dipendenti in larga parte da utili campagne di screening (2). Così la politica promette democrazia nel distribuire le risorse sanitarie, sempre più scarse, ma in realtà distribuisce diagnosi, farmaci e lauti compensi a chi li produce. In qualità di professionisti e cittadini possiamo ancora tacere? Possiamo essere consumatori acritici di merci e salute?

La pandemia ha fatto crollare definitivamente le maschere imbonitrici della pubblicità e dell’informazione, le multinazionali sono uscite allo scoperto, Il re è nudo: le case farmaceutiche patteggiano ogni anno per cause legali di danno alla salute per gli effetti delle reazioni avverse ad un farmaco o per le innumerevoli operazioni economiche illecite, le industrie intensive continuano a minacciare il pianeta e la salute di miliardi di persone, sprezzantemente, riducendo le zone povere del pianeta a pattumiere gigantesche e quelle ricche a camere a gas, e tutto il globo e la sua atmosfera si ritrova ad essere attraversato da concentrazioni sempre maggiori di onde elettromagnetiche, nocive alla salute dell’uomo e della natura, tutto allo scopo di un profitto che è di pochi, per la promessa di merci perlopiù inutili e una ridicola connettività domotica, per continuare a produrre e vendere un’infinità di prodotti alimentari nocivi, creando falsi miti terapeutici e falsi bisogni.

Al tempo stesso l’Occidente civilizzato sta portando a termine l’abolizione definitiva del lavoro umano, basato sul movimento vitale delle persone e sulle relazioni tra individui, dopo averne abbattuto la capacità di apprezzare e valutare i veri bisogni: in un programma che appare più di distruzione che di progresso scientifico, la tecnologia sta definitivamente soppiantando le qualità vitali egli esseri umani e tutto sommato per il livello tecnologico raggiunto, l’organizzazione del lavoro non avrebbe già più bisogno dell’uomo, perlomeno nel mondo industrializzato. Rimane ancora necessario ai giganteschi flussi produttivi laddove l’umanità può essere schiavizzata e consumata dal primo giorno della vita all’ultimo, ma anche in questi posti, in cui i diritti umani vengono apertamente violati, potrebbe non esservi infine un gran bisogno di manodopera.

La scienza, ormai asservita al potere economico e capitalistico si è imposta come nuova religione, ma contiene in sé un sistema di corruzione non meno spaventoso di quello dei governi, anzi risulta essere un centro di sorveglianza del potere stesso. Cosa manca per opporsi all’esproprio definitivo della salute, del movimento, del lavoro e del pensiero critico? Molti di noi si sono formati nell’illusione che tutto quello che ci viene trasmesso culturalmente o accademicamente sia verità, ma come ha scritto Ludwig Wittgenstein

[…]“ Crediamo (n.d.r) a quello che gli uomini ci trasmettono in una certa maniera. Così credo a dati di fatto geografici, chimici, storici. Così imparo le scienze. Naturalmente l’imparare riposa sul credere. Chi ha imparato che il Monte Bianco è alto 4000 metri, chi l’ha letto sulla carta geografica dice di saperlo. E ora si può dire: “Accordiamo così la nostra fiducia, perché la cosa ha dato buona prova di sé”? (3)

Ogni giorno di più la scienza, insieme all’informazione, non dà buona prova di sé: la contraffazione e la manipolazione dei dati è all’ordine del giorno, il controllo delle case farmaceutiche si estende dal finanziamento alla formazione dei medici, alle manipolazione degli studi sperimentali, alle scelte politiche ed economiche degli Stati, a loro volta manipolati dai grossi poteri bancari. Non che questa sia una deriva recente di questi sistemi, in quanto strategici al controllo del capitale si può dire che da sempre questi sodalizi risultano stretti e funzionali. In qualità di psicologi e scienziati possiamo credere ad una scienza tale evitando di sollevare ulteriori domande?

Psicologia e sistema

La psicologia clinica è una giovane disciplina ma fin dai suoi esordi, che possiamo attribuire a Sigmund Freud, ha dovuto scontrarsi e spesso soccombere all’ostilità del pensiero scientifico dominante, non stupisce oggi constatare come non venga presa minimamente in considerazione nei programmi ministeriali di ristrutturazione, riforma e potenziamento del sistema sanitario italiano. La psicologia dovrebbe accendere la consapevolezza, favorire l’adattamento dell’individuo alle avversità e al suo ambiente, stimolare ad essere resilienti e a superare le difficoltà, insegnando a rimarginare le ferite, e ad un certo punto dovrebbe “togliersi silenziosamente di mezzo” per lasciare alle persone la propria libertà di autodeterminarsi. Ma questo progetto di una psicologia che potremmo definire “del risveglio”, non coincide con il progetto del capitalismo in cui gli uomini devono assoggettarsi ad una logica commerciale in ogni ambito della vita, in cui noi stessi diventiamo merce. La costruzione dell’identità, l’assunzione di responsabilità, la capacità di curare se stessi e le proprie famiglie, di rinforzare i legami e le relazioni di solidarietà e sostegno sociale, ebbene tutte queste istanze collidono fortemente con lo status di paziente, obbediente alla farmacotecnica e alle decisioni di esecutori formati a questo scopo.

Il potere della psicologia di risvegliare l’individuo, di metterlo in condizione di esprimere il dubbio, su di sé e sul mondo che lo circonda collide decisamente con la logica dello sfruttamento economico e sociale, che non può certamente permettersi di ritrovarsi tra i piedi individui risvegliati e attenti a ciò che si dice e si fa, ma solo degli obbedienti consumatori: di merci, di cure, di informazione, di formazione permanente, meglio se a distanza.

Come ci ha insegnato Ivan Illich (1974) la logica della produzione è programmata e consequenziale, al fine di traghettare il consumatore da un sistema all’altro, per il quale l’esito è il più delle volte l’approdo al sistema delle cure terminali. Quale che sia il costo pubblico non importa, questo sistema generale garantisce notevoli livelli di produzione in svariati settori e lauti guadagni per le multinazionali, certamente più ampi della spesa pubblica che richiedono, la quale tra l’altro ricade sulle spalle dei contribuenti e questo non è certo un problema di chi fa profitto. Per quale motivo gli Stati non si ribellano a questo giogo, causa di debito e malattie? La risposta è di natura economica e sociale e potrà essere oggetto di future pubblicazioni.

Come “tecnici della salute”, in particolare come psicologi e psicoterapeuti, dobbiamo cercare di risvegliare un profondo senso critico e chiederci “cosa ci stiamo a fare?”; in che modo i nostri ruoli risultano asserviti o, al contrario, possono essere liberi dalle logiche di mercato? Secondo quali meccanismi ne vengono assorbiti, silenziosamente e subdolamente? Quale funzione abbiamo alla luce delle profonde distorsioni sociali e politiche a cui è soggetto l’esercizio della nostra professione nella realtà del contesto vasto della formazione e dell’occupazione? Come già in Italia è successo nel corso della grande rivoluzione culturale che portò alla chiusura dei manicomi, per l’intelletto e il coraggio di pochi intellettuali, medici, psichiatri, pazienti, infermieri, dobbiamo trovare la forza di mettere in discussione i sistemi a cui partecipiamo, così anche la partecipazione al fine vita delle persone che incontriamo nell’attività clinica deve porsi questo interrogativo di base, pena l’alienazione e la perdita di senso per il professionista e per il sofferente. Questo elemento di partecipazione, anche politica, nell’ambito della pratica clinica non può prescindere da queste istanze e se questa riflessione sul sistema non ci viene consentita significa che non vi stiamo partecipando affatto, ma ci viene fatto credere e lo crediamo ingenuamente .

Se vuoi rispondere a questo articolo o pubblicare su LaTI® (https://medium.com/laboratorio-teatro-dimpresa), consulta il sito www.acampailla.com, effettua l’iscrizione alla piattaforma Medium.com e scrivimi all’indirizzo: alessandrocampailla4@gmail.com.

Bibliografia

  1. Maturana H., Varela F. (1984). L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano.
  2. https://www.aiom.it/wp-content/uploads/2019/09/2019_Numeri_Cancro-operatori-web.pdf
  3. Wittgenstein L. (1969). Della Certezza, L’analisi filosofica del senso comune. Einaudi, Milano.

--

--

Alessandro Campailla

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica