“I want it to be, like, messy”

The Sad Stork
17 min readMay 26, 2021

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Una volta ho letto un tweet. Recitava che “innamorarsi di un album dipende per il 90% dal periodo della tua vita in cui lo incontri e per il 10% dalla musica in sé”. Quel tweet aveva ragione. Ma, se possibile, sarebbe forse necessario ridurre almeno parzialmente quel 90%, o quel 10%, o ancora di più decidere di mantenere quelle cifre ma di spostarle su una scala del tipo centocinquanta percentocinquanta, perché, almeno in alcuni casi, esiste un’altra frazione che andrebbe tenuta in considerazione, ovvero la nostra attesa. Quello che ci aspettiamo di sentire nel disco. Per meglio dire, la nostra definizione di quello che sarebbe un successo per quel particolare disco. Non arriviamo ad ascoltare un disco con orecchie vergini, premiamo play perché qualcosa ci ha affascinato, con una almeno minima aspettativa di quello che troveremo al suo interno. Ma quelle aspettative non sono uniche per tutta la popolazione mondiale che arriva ad ascoltare un determinato disco, non sempre almeno. Ma se nella maggior parte dei casi coloro che premono play sono almeno distinguibili per categorie di persone accomunate da un certo tipo di aspettative verso un disco — i fan della prima ora, quelli che si sono interessati al disco perché ammoniti da una recensione o dal consiglio di un amico, quelli che ne hanno sentito un pezzo per caso e vogliono farsi un’idea precisa, i critici, quelli contrari a prescindere che fanno hate-listening — esiste almeno una tipologia di album con cui nessuno di noi sembra equipaggiato per approcciarvisi nella stessa maniera, in cui la nostra definizione di successo varia indipendentemente dalle caratteristiche che ci accomunano o che ci dividono, in cui abbiamo talmente pochi elementi a disposizione anche solo per poterci permettere di formare un’immagine sfocata di ciò a cui stiamo andando contro. La tipologia d’album in questione è il disco d’esordio di una popstar. Popstar che, preferibilmente, per confondere ancora più le linee di chi si approccia ad esso nella maniera A e chi nella maniera B e C e D et cetera et cetera, è magari esplosa sulla scena mondiale in un colpo solo e provocando lo stesso sconvolgimento che provocò, nei campi romani, la visione degli elefanti dell’esercito cartaginese o, se preferite, lo sconvolgimento che provocò nei suddetti elefanti la visione delle Alpi innevate. L’occasione è una di quelle che passano raramente e ancor più raramente, se non forse mai nella sua storia, ha preso le forme che hanno caratterizzato l’esplosione, in questi primi scampoli di 2021, di Olivia Rodrigo. Certo, l’artista californiana non può certo rappresentare l’esempio di popstar andata da zero a cento nel giro di settimane come successo ad esempio a Lorde o a Lil Nas X nel decennio precedente, vista la sua ormai quinquennale carriera come attrice in produzioni Disney Channel, prima in “Bizaardvaark” e poi, sopratutto, in “High School Musical: The Musical: The Series”, ma questo non rende la sua traiettoria meno vertiginosa. In fin dei conti, il successo su Disney Channel rappresenta di fatto un tipo di celebrità a parte, quasi un universo parallelo che funziona secondo i propri principi, una sorta di La Masia dello show business hollywoodiano in cui i giovani artisti vengono preparati al passaggio in prima squadra simulando le condizioni di gioco al piano di sopra contro altri coetanei. Olivia Rodrigo era sì una persona famosa, una di quelle, come sottolinea Laura Snapes nella sua intervista alla giovane popstar sul Guardian, trova nelle finte scuole in cui vengono girate le proprie serie la cosa più vicina alla scuola vera e propria, ma non era di certo definibile, al netto di un disco d’oro per la da lei scritta “All I Want”, che comunque venne promossa come parte della colonna sonora di “High School Musical: The Musical: The Series” e non come sua creatura, come una popstar. Non è che non fosse la “next big thing” del pop mondiale, è che, per quanto concernesse al pop mondiale, non poteva neanche essere definita una “thing” di una qualche dimensione. Il suo singolo d’esordio, “drivers license”, doveva essere proprio questo, l’ingresso di un’artista esordiente che solo recentemente era stata firmata ad un contratto discografico nel mondo del pop. Doveva essere un approccio lento, una crescita misurata. Ad un singolo d’esordio doveva seguire un piccolo EP di presentazione, magari una qualche esibizione dal vivo per costruire l’abitudine al palcoscenico. Ecco. Doveva. Perché poi è successo qualcosa. “drivers license”, appunto. Ho già coperto l’argomento in abbondanza, quindi sarò breve. Per capire le dimensioni del fenomeno culturale che è “drivers license”, il brano più ascoltato al mondo di questo 2021 e quello grazie a cui la prima esibizione completamente dal vivo di Olivia Rodrigo, senza alcuna rete di sicurezza, siano stati i Brit Awards alla O2 Arena di Londra (!!!), vi basti sapere che è stata allo stesso tempo protagonista di un trend su TikTok e di uno sketch — stupendo — su SNL, un brano talmente tanto rilevante da poter essere un frame of reference di estremamente facile comprensione sia per la Gen Z che per la Gen X — e i Boomer, e i Millennial. Di fatto, l’opposto di quello che essere una stellina di Disney Channel rappresenta — anche All I Want ha avuto un suo trend su TikTok, ma sfido chi non sia familiare con la serie e con la programmazione attuale del canale che fu di “Hannah Montana” e “Camp Rock” ad ammettere di aver conosciuto questo brano prima di scoprire “drivers license”. L’esplosione nucleare che corrisponde al primo singolo rilasciato di Olivia Rodrigo ha dunque avuto effetti a catena sul resto della sua carriera da popstar. Detto delle sue prime esibizioni dal vivo in contesti del tutto insoliti per una prima esibizione — inclusa l’ospitata proprio al Saturday Night Live qualche mese dopo lo sketch con Regé-Jean Page — quello che sarebbe dovuto essere il suo EP d’esordio è diventato un vero e proprio album, “SOUR”, pubblicato allo scoccare della mezzanotte del ventuno aprile, a quattro mesi ed un paio di settimane dalla pubblicazione di “drivers license”. Per far capire quanto questa precocità sia sconvolgente: gli altri due dischi d’esordio importanti che il pop USA ha fatto uscire in questo inizio d’anno sono quelli — ottimi — di Madison Beer — che anche volendo escludere la prima fase della carriera sotto le grinfie di Scooter Braun ha rilasciato il suo primo EP nel 2018 — e di Julia Michaels — che ha una decennale carriera d’autrice e il cui primo singolone risale al 2017. Sia chiaro, non che sia una gara. La precocità di Olivia Rodrigo non è necessariamente da lodare per principio. Ognuno ha i suoi tempi, non è questo il punto che sto cercando di far passare. Il punto che mi preme che tutti tengano a mente è sottolineare quanto tutto quello successo negli ultimi mesi renda *ancora* più difficile dare una forma quanto più unitaria alle aspettative che ciascuno di noi possa avere nei confronti di “SOUR”. Abbiamo fatto appena in tempo a realizzare che Olivia Rodrigo sia una nuova popstar entrata a far parte della nostra vita, non siamo ancora usciti dall’hangover provocato da “drivers license”. Come possiamo aver capito cosa stiamo cercando? Cosa riteniamo possa essere veramente “un successo” per un disco del genere?

Perché alla fine è questo che può dividere i giudizi su “SOUR”: quello che ci sarebbe piaciuto sentire da Olivia Rodrigo nel suo disco d’esordio, la strada che avremmo voluto prendesse, semplicemente perché la vertiginosa crescita dell’artista ha fatto in modo che la scelta di quella strada che di solito viene effettuata dietro le quinte e di cui noi possiamo comprendere solo il risultato, è avvenuta davanti ai nostri occhi e anche dopo un qualche ascolto del disco viene difficile immaginare se quella strada sia stata intrapresa in maniera definitiva o meno. Ascoltare “SOUR” ci pone davanti ad una serie di dubbi che solo parzialmente hanno a che fare con la musica in sé e per sé. Riteniamo corretto, per il futuro della sua carriera, che Olivia e chi è in cabina di produzione con lei — quasi solamente Dan Nigro, collaboratore, tra gli altri, di Conan Gray e Carly Rae Jepsen — abbiano intrapreso la strada di un disco così denso nel racconto della fine di una relazione e così fissato su un singolo lato della vicenda? Riteniamo giusto che il disco abbia abbandonato alcuna idea di coerenza se non tematica in favore di un coacervo di generi differenti? Volevamo più cose come “drivers license”? Più canzoni come “deja vu”? Più momenti alla “good 4 u”? Oppure, ci troviamo a favorire l’approccio avuto in questo caso, con Olivia che si è permessa di fissarsi su un singolo argomento cercando di approfondirlo al meglio rispetto a quello che ha caratterizzato l’esordio di altre popstar, tipo — sapevate sarebbe arrivato il momento in cui scrivevo questo nome — Taylor Swift, a cui di fatto venne imposto di variare quanto più possibile stilisticamente così da dare un’immagine completa di sé stessa nel self-titled? Avevamo la pretesa che questo album parlasse a noi non più adolescenti? Son tutte domande molto importanti e che di fatto contengono al loro interno una gran parte della nostra reazione a questo disco. Dovendo fare una recensione di un disco al buio, senza sapere chi lo ha scritto e avendo completamente cancellato dalla nostra memoria ogni traccia dei nostri ascolti musicali dall’otto gennaio ad oggi, “SOUR” suonerebbe molto simile a tutti noi. Un album con alcuni brani eccezionali, un’abilità poetica e di scrittura dei testi da predestinata con alcune brevi doppiette già consegnate alle pagine più intime dei nostri diari. Un disco monotematico e che anche all’interno di questo singolo tema non sembra mai voler cambiare troppo l’angolazione e che arrivati intorno alla nona traccia tende magari a risultare un minimo ripetitivo. Un disco incoraggiante, ma imperfetto. Molto più orientato verso il sì che verso il no, però, ecco, non un disco impeccabile. Ma il disco d’esordio di una popstar, specialmente se arrivata a reclamare quel titolo praticamente da un giorno all’altro nello shock di coloro con più di diciotto anni e senza un account Disney+, non può essere valutato senza tenere conto di tutto il contesto che c’è intorno, a maggior ragione se quel contesto comprende, in parte, il fenomeno culturale più rilevante di questa prima metà di 2021 insieme alla lap dance diabolica di Lil Nas X. E allora è il momento in cui chi vi scrive deve rendervi partecipe di quella che era la sua aspettativa da questo disco d’esordio. Non mi aspettavo fosse un disco che parlasse in me a particolare, non fosse altro che questo non lo facevano neanche i singoli d’anticipazione di cui mi sono puntualmente innamorato. Non mi aspettavo neanche fosse tematicamente variegato. Lo capisco. Quando si è adolescente si vivono le cose in maniera molto forte, e le relazioni amorose in maniera se possibile ancora più forte, come se staccarsi da esse volesse dire essere staccati dal proprio corpo da quattro cavalli che corrono in direzioni opposte. Chi vi parla non è mai stato in una relazione da adolescente, ma non importa. C’erano cose che vivevo in maniera molto forte e significativa. Vedevo i miei amici che vivevano certe cose in certe maniere. Ci sta, è normale. Di fatto è la ragione principale che poi, da adulti fatti e finiti, ci porta a rivivere quelle situazioni spesso con ilarità. Di tutta questa roba a me importa relativamente. Ciò che è per me cruciale, ciò che mi aspettavo da questo disco, è che si permettesse, anzi si incoraggiasse Olivia Rodrigo a prendere dei rischi artisticamente parlando, a sperimentare con i generi, magari arrivando anche a imitare quasi pedissequamente altri artisti, magari sbagliando, ma sempre lasciandole davanti più di una strada aperta, ampliando il bagaglio di ciò che può potenzialmente fare. Personalmente, in un disco d’esordio, la coerenza non è necessariamente ciò che cerco. Se si è in grado di centrarla senza risultare noiosi — vedi “Pure Heroine” di Lorde — bene, ma se la coerenza deve voler dire dieci tracce uguali stilisticamente allora no, meglio l’incoerenza, anche perché poi quando decidi che una è la via risulta difficile uscirne — chiedere a Ed Sheeran o Adele, artisti che non credo abbiano mai preso un rischio stilistico nella propria carriera. Per citare un pensiero di Olivia Rodrigo, le prime parole che l’artista californiana pronuncia nel disco sono una buona sintesi di quelle che erano le mie aspettative: “I want it to be, like, messy”. E allora, se è vero che la visione programmatica tanto mia quanto di Olivia Rodrigo può essere condensata in un’unica identica frase — anche se Olivia la pronuncia solamente in riferimento alla traccia in cui si trova, l’opening track “brutal” — non dovrebbe sorprendervi sapere che, per quanto mi riguarda, le mie aspettative per quanto riguarda “SOUR” sono state rispettate alla perfezione.

Per la verità, andrebbe detto che già solo con i primi tre singoli Olivia Rodrigo aveva mostrato una predisposizione al rischio e allo sconvolgere le nostre aspettative che mi rendevano già soddisfatto da quello che avrei potuto sentire nell’album. E in effetti quei tre singoli, l’onnipresente “drivers license”, “deja vu” e “good 4 u”, hanno rappresentato commercialmente una scelta perfetta perché di fatto capeggiano i tre filoni principali in cui possono essere suddivise le canzoni di “SOUR”. C’è la balladona emozionale, ci sono le scelte di produzione quirky, e c’è, infine, la furia distruttiva alla “Jagged Little Pill”. Sono tre strade molto diverse tra di loro e tutte quante, a loro modo, funzionano veramente bene, garantendo ciascuna almeno uno dei momenti più alti del disco. Se proprio dovessi portare una critica a questo disco, è che tra i tre filoni citati, quello meno esplorato era proprio quello che avevo preferito ascoltando i singoli, ovvero l’alt-pop quasi psichedelico di “deja vu”. Difficilmente troveremo suoni più interessanti nel 2021 in una canzone pop mainstream di quella linea di synth che sembra imitare il ronzare di un qualche piccolo insetto in volo e quella batteria distorta, quasi vintage che starebbe benissimo su un pezzo trip-hop, che vanno ad arricchire una canzone che nella prima strofa e nel primo ritornello è caratterizzata solo da una melodia di carillon. La produzione coglie alla perfezione le atmosfere del brano che a loro volta vengono puntualmente rappresentate nel video diretto da Allie Avital. Ci sono i momenti belli, quelli felici, le giornate soleggiate, ma c’è anche il risveglio dal sogno, la realizzazione che quei momenti belli sono passati e sono stati sostituiti, da parte dell’altro nella relazione, dal volto di un’altra persona, “un’altra attrice”, per dirlo con le parole di Olivia Rodrigo. “deja vu” è una tempesta perfetta, un brano che azzecca tutte le scelte, inclusa quella di un bridge modellato su “Cruel Summer” di Taylor Swift in cui il testo — per rafforzare l’effetto di deja vu, appunto — ripercorre le scene dipinte nelle strofe, dal gelato alla fragola a Malibu a “Uptown Girl” di Billy Joel, ed è veramente un peccato che, in un disco comunque eccellente, questo lato della collaborazione tra Olivia Rodrigo e Dan Nigro sia stato approfondito di meno. Di fatto, lo sentiamo solo in alcune singole scelte isolate all’interno di altri brani — penso al bass fill tra la prima e la seconda strofa di “happier” — o più in generale all’interno della closing track “hope ur ok” — con il suo bridge alla Lorde — e di “jealousy, jealousy”, delizioso brano indie pop che si allontana momentaneamente dalla narrazione della fine della relazione per concentrarsi sugli standard irrealistici di bellezza che i social media aiutano a proliferare nelle menti di ragazze di tutto il pianeta. Ma anche “jealousy, jealousy” non accoglie completamente questa visione, presentando un’intro che ricorda sinistramente quella di “good 4 u”, e che ci permette di introdurre il filone del disco introdotto dal terzo singolo rilasciato dall’artista, appena una settimana prima l’uscita dell’album. Olivia Rodrigo, infatti, è incazzata. E — giustamente — non fa nulla per nasconderlo. “good 4 u” entra nella tradizione di break-up song che assomigliano di più a murder ballad, nel senso che sono canzoni talmente dirette e affilate che sembrano essere esse stesse in grado di perpetrare un omicidio, appartenendo alla stessa stirpe di una “Dear John” di Taylor Swift o di una “You Oughta Know” di Alanis Morissette. Sono canzoni dopo cui ti risulta inimmaginabile pensare che le persone a cui siano rivolte possano veramente desiderare uscire almeno un’altra volta alla luce del giorno, che possano sopportare il pensiero di essere riconosciuti come “quelli a cui è dedicata quella canzone” — sia chiaro, su queste pagine non aderiamo con certezza alla teoria che la persona in questione sia Joshua Bassett: lui e Olivia non hanno mai annunciato né l’inizio né la fine della loro relazione, e dunque ci tratteniamo dal parlarne in termini ufficiali. E se il testo di “good 4 u” — “and good for you it’s like you never even met me / remember when you swore to god i was the only / person who ever got you well screw that / and screw you / you will never have to hurt the way you know that i do” — non dovrebbe essere abbastanza per farvi comprendere quanto questo scalino sia stato durissimo da superare per l’artista, vi basti vedere la sua performance nel video ufficiale in cui non solo Olivia Rodrigo ci ricorda di essere anche un’attrice, ma in cui ci regala forse la sua migliore prestazione sullo schermo — chiama qualcun altro un “sociopatico” mentre, con lo sguardo da Norman Bates si ritrova in una stanza che è simultaneamente sia allagata che in fiamme, think about that. Altro rimando fondamentale per comprendere “good 4 u” è “Since U Been Gone” di Kelly Clarkson, che con il singolo di Olivia Rodrigo condivide un ritornello memorabile, urlato eppure incredibilmente melodico, mentre nella produzione il brano sembra ricordare molto l’alt rock anni ’90. In riferimento a questo brano — e in generale al filone all’interno di “SOUR” che da esso si dipana — si è utilizzato spesso il termine pop-punk, genere che in effetti sta avendo una rinascita per mano di nomi insospettabili come Machine Gun Kelly e Willow Smith, ma personalmente non ritengo questo sia un termine che si sposi bene con la situazione che ci troviamo davanti. In parte questa scelta è dovuta ad una mia personale allergia verso un genere che suona come se il punk si fosse evoluto senza mai conoscere il post-punk — sì, lo so, la mia passione non troppo nascosta per “After Laughter” dei Paramore e per la carriera solista di Hayley Williams potrebbe far pensare al contrario, ma va anche detto che proprio l’ultimo disco della band è la prima cosa loro che io abbia mai ascoltato, e quindi non è detto che se fossi stato familiare con il loro passato sarei stato attratto così facilmente da questi lavori — ma in parte è anche perché Olivia Rodrigo non si limita mai a scimmiottare i Green Day o qualche band del genere, ma anzi arricchisce le sue composizioni con dettagli e sperimentazioni che raramente si sono visti da quelle parti. Le chitarre in “good 4 u” hanno una lucentezza e una brillantezza che permette loro di ricordare molto di più l’alt-rock — la parte iniziale del bridge nello specifico sembra avere le stesse chitarre della sigla di “Friends” — che qualunque cosa sia mai venuta da quel genere, tanto da suonare come se i Cure avessero iniziato a fare musica nel suddetto mondo in cui il punk, senza la mediazione del post-punk, si fosse trasformato immediatamente in pop-punk. E se le chitarre cupe e monodimensionali di quel mondo sembrano fare capolino nell’opening track di “SOUR”, quella “brutal” in cui l’ansia generazionale da adolescente permette ad Olivia Rodrigo di scrivere alcuni dei versi migliori del disco — “i’m not cool and i’m not smart, and i can’t even parallel park” — è la struttura del brano, tutto tranne che la classica pop song, ad allontanarci da quel mondo e a portarci nell’alt-rock, grunge e punk anni ’90 a guida femminile, ricordandoci gli Elastica e, sopratutto, nel punto focale del brano, la teatralità con cui Kim Deal nei Breeders pronuncia le parole, con quel “god, it’s brutal out here” che più che cantato sembra gettato in un fazzoletto umidiccio insieme al chewing gum masticato. C’è poi il terzo filone contenuto in “SOUR”, ed è ovviamente quello portato avanti da “drivers license”, un cantautorato pop di altissima fattura che preferisce i ritmi lenti e le produzioni sparse che hanno caratterizzato la doppietta datata 2020 di Taylor Swift, “folklore” e “evermore”. Qui è dove forse il disco e la narrazione della separazione sentimentale rischia di diventare un poco pesante e ripetitiva, ma la realtà è che ascoltando i brani uno ad uno e magari fuori dal contesto dell’album si fa fatica a non rimanere impressionati dalla maturità di una scrittura su argomenti e sensazioni così evidentemente legate alla sfera dell’adolescenza, e viene difficile capire dove questa sensazione di stanchezza e ripetitività inizi a subentrare. Non c’è, in questo filone, una canzone significativamente meno interessante delle altre — dovessi scegliere, ma solo se costretto, ora come ora direi “1 step forward 3 steps back” — e dunque la ripetitività dell’album sembra data più dal consumare tutte queste tracce insieme che dalla presenza evidente di un filler che si sarebbe potuto evitare. “happier”, unica della collezione delle incredibili “instagram songs” pubblicate dall’artista nel corso del tempo sui propri social a trovare spazio nel disco — ed è un peccato che il lavoro si sia concentrato sulla fine della relazione, perché canzoni come “gross” e “apocalyptic crush” sono delle hit in attesa di un produttore — interpola un concetto assolutamente naturale ma lo trasforma in un ritornello memorabile, potenzialmente il migliore al di fuori dei singoli. “traitor” è un’arma di distruzione di massa tanto quanto “good 4 u” e se mai doveste vedere una storia del* vostr* ex con questo brano vi invito gentilmente ma categoricamente ad abbandonare tutte le conoscenze in comune che avete e a iniziare un viaggio per ritrovare voi stessi tipo Dr Strange. “enough for you” ti fa quasi pensare che per scriverla Olivia Rodrigo si sia dovuta ritirare in una cabina in legno isolata nel mezzo del Wisconsin in pieno inverno come il buon Justin Vernon ai tempi do “For Emma, Forever Ago”, e ha un verso in “cause all i ever wanted was to be enough for you” che dal vivo ti distrugge emozionalmente proprio come “I’ll be holding all the tickets and you’ll be holding all the fines” fa nella versione di “Skinny Love” da Jools Holland. Insomma, ci siamo capiti. C’è da soffrire ascoltando questo disco, indipendentemente dal se si sia usciti recentemente da una relazione, dal se non la si sia mai vissuta o dal se si sia in una situazione stabile e felice.

L’album di debutto di Olivia Rodrigo non è perfetto, e non dovrebbe neanche esserlo, dal momento che è, appunto, un disco d’esordio. Alcuni difettucci ci sono. Di alcuni ne abbiamo già parlato, ma per esempio: per essere la principale candidata al titolo di cantautrice pop dei prossimi decenni, la principale indiziata ad inserirsi in quella lunga genealogia di artiste che va da Dolly Parton a Lorde passando per Taylor Swift e Fiona Apple, tra le altre — e lo è — e per essere un’artista che al contrario di come farebbe Paperoga ha seguito perfettamente la lezione del corso per corrispondenza di cantautorato sulla costruzione di un buon bridge — e lo è — si può essere un po’ stupiti dal constatare quante canzoni non superino i tre minuti di durata. Ok, nel pop contemporaneo si cerca molto di catturare l’attenzione del pubblico il più velocemente possibile e di arrivare al ritornello con prestazioni alla Usain Bolt, ma il mondo ha già dimostrato di apprezzare Olivia Rodrigo anche quando si prende il suo tempo per fare le cose — la canzone più lunga nel disco è proprio quella che gli ha regalato il successo planetario — e l’impressione è che alcuni di questi brani avrebbero potuto beneficiare dall’aggiunta di altri dettagli — “favorite crime” a due minuti e trentadue è, per l’appunto, un crimine. Ma al di là di questi argomenti puntigliosi, che rappresentano appunto minuzie in un lavoro senza mezzi termini riuscito nel migliore dei modi, è difficile non parlare di “SOUR” come di un ridondante successo. Commerciale sì, ma questo non è argomento su cui chi scrive pezzi come questo è equipaggiato per discutere, ma anche a livello di musica è difficile non rimanere positivamente colpiti da questo disco, e a livello di aspettative, a meno che qualcuno, preso forse eccessivamente dalle forze dell’hype, non si aspettasse il disco che avrebbe cambiato la strada del pop, crocetta positivamente tutte le categorie in cui attendevamo di valutarla. “SOUR” è sperimentale, “SOUR” è stato prodotto bene e scritto meglio. Dispensa one-liner memorabili e ti distrugge l’anima. Prende rischi che non sono scontati. Parla ad una generazione e lo fa in una maniera che quella stessa generazione sembra preferire rispetto ad altre tipologie di linguaggio. Parla con sincerità senza essere — sempre — banale. Insomma. Funziona. Alla grande. Per chi lo ascolta dopo aver recuperato tutti e tre i singoli rilasciati dall’artista, non delude alcuna delle aspettative che potevano essersi create. Per quelli che hanno ascoltato solo “drivers license” non può non spazzarle via e sconvolgerle fin dalla prima traccia. E in fin dei conti è a questo che serve un disco d’esordio: convincerci a partecipare a questo viaggio insieme ad un sacco di altre persone e ad un’artista. E “SOUR” è una perfetta cartolina di presentazione.

Additional reading perché non sono riuscito a citarlo in maniera coerente all’interno del pezzo ma mi è piaciuto così tanto che sentivo il bisogno di farlo vedere a qualcuno in qualche modo e poi come al solito Lindsay Zoladz rules

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