La più divertente pubblicità mai esistita

The Sad Stork
11 min readOct 7, 2021

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Ho amato “Space Jam: A New Legacy”. Non mi sono mai divertito così tanto dentro un cinema, e per valutare l’importanza di questa dichiarazione dovreste considerare che ho visto più di una volta Shrek 2 e la scena della cena con la famiglia di Fiona che si conclude con Ciuchino che urla “CIUCHINO”. Mi sono veramente goduto ogni istante. Tutte le reference baskettare o più in generale sportive che potevo cogliere le ho colte quasi all’istante, e sì, parlo anche dello sfuggente riferimento a Bill Belichick nella scelta dell’abbigliamento di Don Cheadle / Al G. Rhythm o di come la figura di Malik sia chiaramente ispirato all’amico storico e business partner di LeBron Maverick Carter e non ho resistito alla tentazione di spiegarle a chi aveva visto con me il film principalmente per capire come si sarebbe riveduto un classico della nostra infanzia. Lo spettacolo è stato veramente esilarante, e certo, la vecchia coppia di sposi Daffy Duck e Bugs Bunny si prende le risate più grosse, ma a parte che questo lo si dava per scontato, è difficile sostenere che questo nuovo Space Jam Lebroniano non rappresenti un’ora e qualcosa di più di divertente intrattenimento, che funziona sia per i bambini, sia per chi ha un legame storico con il primo, sia per chi è fluente nel linguaggio crittato dell’NBA Twitter. Ci si diverte e si ride, magari in momenti diversi, magari per ragioni diverse, ma si ride senza dubbio. E potremmo finirla qui. Non ci sarebbe bisogno di dire oltre. Veramente non c’è molto di più interessante che si possa dire sul film, quantomeno sul materiale girato, insomma, ci siamo capiti, sul tempo passato in sala ad assistere allo spettacolo. Potremmo chiuderla qui perché in effetti non è nulla più che un buon modo per passare la serata.

Avete pensato per almeno un secondo che dopo quel punto non ci fosse più nient’altro da leggere, vero? No? Sapevate perfettamente che neanche io sarei potuto essere così noioso? Grazie per il pensiero. Ma andiamo avanti dunque, ora che abbiamo capito che in effetti qualcosa da dire ci sarebbe, proprio volendo. Perché il fatto è che io in quella sala mi sono divertito un mondo, ho riso quasi dal primo all’ultimo secondo ininterrottamente, mi sono mosso e comportato come l’appartenente ad una setta guarderebbe un documentario infarcito di riferimenti veri o percepiti ad un “segreto” accessibile solo ai partecipanti della sopra citata setta, ma ero allo stesso tempo perfettamente consapevole di come questo film rappresentasse la continuazione di un trend, e per certi versi l’inizio di un altro ramo se possibile ancora più preoccupante dello stesso trend che potrebbe definitivamente modificare — imho in peggio — il futuro dell’arte come intrattenimento, la qualità media del mainstream. Il fatto che all’interno della sala me ne sia fregato assolutamente niente e che tornerei domani a pagare il biglietto per questo remake di Space Jam anche perché ho un rapporto decisamente conflittuale con il cinema, è assolutamente irrilevante, principalmente perché questa non è una questione che rappresenta esclusivamente la settima arte, ma che potrebbe allargarsi a macchia d’olio, e per certi versi lo sta già facendo, anche in altri campi delle arti. Potreste aver letto da qualche parte il nome di Primary Wave, una compagnia statunitense che nell’ultimo anno e mezzo ha investito pesantemente per allargare in maniera significativa il proprio catalogo di canzoni, brani e album di cui possiedono i diritti di pubblicazione, quei celebri master che hanno spinto Taylor Swift a ri-registrare l’interità dei suoi dischi pre-Lover. L’acquisizione che ha fatto più rumore è stata quella dell’intero catalogo di Stevie Nicks per cento milioni di dollari, ma sotto il loro controllo sono presenti anche “Physical” di Olivia Newton-John, molti dei maggiori successi dei Four Seasons, i lavori di Allee Willis, tra cui “September” degli Earth, Wind & Fire, e la lista è ancora lunghissima, da Burt Bacharach ai Def Leppard, fino a questa incredibile canzone che dovete assolutamente ascoltare.

Sì, vi ho Rickrollato, e voi cosa potete farci? Assolutamente niente. Ad ogni modo, Primary Wave ha fatto notizia in tempi recenti per aver organizzato un camp per autori, dove esperti mestieranti del pop da classifica potessero riunirsi e provare a scrivere canzoni da offrire ad alcuni dei maggiori nomi dell’industria discografica mondiale. La cosa particolare? Mentre scrivevano canzoni, erano fortemente incoraggiati ad utilizzare e a interpolare melodie provenienti direttamente da brani nel catalogo della Primary Wave. Essenzialmente, si cerca non solo di fare soldi sfruttando l’interpolazione — che deve essere annunciata e quindi garantisce soldi agli autori dell’originale — ma anche di far crescere significativamente gli streaming del pezzo originale, magari addirittura spingerlo di nuovo in radio, così da ottenere i classici piccioni con una fava. Si tratta di un effetto collaterale dell’ossessiva cultura del plagio che permea la musica contemporanea, in cui è ragionevole per un qualsiasi artista presentare un caso per ottenere una parte delle royalties di un brano di successo che assomigli anche solo marginalmente al proprio, e in cui è ragionevole per l’artista accusato cedere subito una parte dei propri guadagni senza andare in tribunale perché, anche se chiunque abbia anche una minima conoscenza della musica possa garantire come il 90% di questi casi siano spazzatura, è tutt’altro che scontato che le vie legali percepiscano la questione alla stessa maniera. E questo spiega anche perché in tempi recenti i cataloghi di certi artisti siano stati venduti per cifre stratosferiche, come i duecentocinquanta milioni di dollari versati a Paul Simon.

Ma sopratutto, si tratta della stessa operazione che la Warner Bros ha, e senza nasconderlo minimamente, bisogna dirlo, fatto quando ha coinvolto LeBron James nel remake di un progetto con protagonista il fantasma che LeBron James ha inseguito e insegue fin dall’inizio della sua carriera sportiva, il benchmark che molti utilizzano — non sempre in maniera corretta — per valutare il suo impatto sullo sport, e ovviamente sto parlando di Michael Jordan — non Michael B. Jordan, non fate come Gatto Silvestro. Alla fine dei conti, “Space Jam: A New Legacy” altro non è che una gigantesca pubblicità per l’immenso catalogo della Warner, un remake la cui esistenza non si spiega solamente con la voglia di lucrare sulla nostalgia di un singolo prodotto, ma piuttosto sulla nostalgia di tutte quelle belle cose su cui la Warner è riuscita a mettere le sue mani. Questo è ciò che alimenta tutta l’altra metà delle citazioni di Space Jam, quelle che lo rendono un film da scannerizzare frame by frame per riuscire a raccoglierle tutte, quelle sul cinema e sulle serie tv che il sottoscritto, a parte quelle troppo evidenti e che non devono essere spiegate neanche ad un bambino, non sono riuscito a cogliere, troppo affascinato da Lola Bunny che rifà l’iconica foto post-alley oop con Dwyane Wade. E la cosa che rende tutto questo preoccupante, è che la Warner non è l’unica corporazione gigantesca che siede su un quantitativo così mastodontico di materiale iconico da reinserire all’interno della nostra coscienza collettiva come la merendina messa da Glauco e René in Occhi del Cuore. Abbiamo detto di Primary Wave, che magari è un nome poco conosciuto, ma pensate solo a cosa potrebbe creare questa strategia nelle mani della Disney, un mostro a mille teste molto più spaventoso dell’Idra di Hercules che pure potrebbe essere una delle teste di questo mostro di reference.

Sia chiaro: io amo il sampling, l’interpolazione, la reference della reference. Se mi chiedessero domani di girare un film, sarebbe interamente composto da inquadrature belle che ho visto in altri film e serie. Più in generale, se fossi un artista, vestirei le mie ispirazioni sulla mia manica, facendo un po’ un pastrocchio di una traduzione dall’inglese. Non credo nessuno che possa sinceramente dire di amare l’arte possa odiare l’utilizzo di riferimenti per creare qualcosa di nuovo. Semplicemente perché le due cose sono intrinsecamente collegate. Integrare i propri modelli all’interno della propria arte è la cosa più ragionevole e normale del mondo, e si potrebbe arrivare anche a dire che in tutta la storia umana sono stati scritti solo due libri, l’Iliade e l’Odissea, e che pure quei due libri, vista l’epoca della loro concezione, non siano in effetti stati scritti neppure loro. Ma il punto è che nessuna reference esiste nel vuoto, e non si può pensare di utilizzarla solo perché “è bella”, per innalzare artificialmente la qualità della propria opera. I riferimenti vanno contestualizzati e analizzati uno per uno, devono aggiungere qualcosa, vanno considerati per quello che portano al tavolo. Anche se non si può essere contrari al principio del sampling, perché vorrebbe dire essere contrari a ogni forma d’arte a noi conosciuta, questo non vuol dire che ogni interpolazione sia riuscita. E forse è proprio questo nuovo Space Jam che illustra quanto variabili possano essere i risultati di questa operazione al meglio. Lo abbiamo già accennato, ma esiste una ben precisa linea di demarcazione all’interno di “Space Jam: A New Legacy” che divide un gruppo di reference dall’altro, e questi due gruppi fanno riferimento ai due diversi motori che spingono le persone a staccare il biglietto e ad entrare in sala. Da una parte c’è LeBron James, dall’altra la Warner. Da una parte gli impallinati di sport americani, dall’altra quelli cresciuti con il mito del primo Space Jam e con una forte fidelizzazione con altri prodotti di casa Warner, come può essere The Mask — che invece ha traumatizzato il me piccolino — che si può spesso intravedere dietro Don Cheadle nel mezzo dell’incontro o come Scooby Doo — di cui possiedo ancora un sacco di dvd — la cui Mystery Machine si può intravedere nella sequenza che riempie il pianeta dei Looney Tunes di spettatori. Oppure si può appartenere ad entrambi i gruppi, come il sottoscritto — anche se con una forte pendenza dal lato sportivo, ma vi assicuro che questo non influenzerà affatto ciò che state per leggere. Questi due gruppi di riferimenti si distinguono pesantemente non solo nei propri target di riferimento, ma anche nella propria riuscita e più in generale nello scopo che hanno all’interno del film. I riferimenti sportivi compongono metà dell’ironia di questo film — l’altra è composta ovviamente dalle caratteristiche ricorrenti dei Looney Tunes — che è veramente la principale attrattiva di un film, che, ma questo si capiva dalla riga 1 di questo pezzo, è divertentissimo. Le reference allo sport funzionano perché sono scritte bene, sono perlopiù esilaranti — non tutte atterrano alla perfezione, ma la percentuale è sbilanciata verso il sì — e semplicemente funzionano bene sia in rapporto al tono dell’originale sia nel contesto dell’ironia contemporanea. Lunghe un tweet, un po’ quirky, funzionerebbero benissimo anche se scritte tutte in minuscolo, ti fanno sinceramente pensare che una parte consistente del film sia stata scritta da quelli di NBA Desktop.

Sfortunatamente, questo non è quello che succede con il gruppone dei riferimenti di casa Warner. E sia chiaro. Può anche darsi che per voi la parte baskettara delle reference non sia stata divertente, lo capisco, non possiamo avere tutti la stessa opinione. State sbagliando, ovviamente, ma vi capisco. Quello che però è abbastanza evidente è che se da una parte ci sono riferimenti puntuali, che servono a far muovere il film, che svolgono un compito nel film, dall’altra tutti quei riferimenti potrebbero semplicemente non esserci. Anche qui, possiamo grossomodo dividere le reference che orbitano intorno alla Warner in due gruppi: il primo è composto da tutti i mondi in cui si ritrovano i vari Looney Tunes quando LeBron e Bugs Bunny vanno a reclutarli per l’incontro. Questi sono molto evidentemente inseriti nella trama, ma è altrettanto evidente quanto in realtà costringano la trama al loro interno e non viceversa, impedendole di respirare e di strutturarsi con la libertà che sarebbe necessaria. C’è poi anche il problema del poco rispetto mostrato ai tradizionali doppiatori dei personaggi nei confronti dei doppiatori celebri di questo film, poco rispetto evidente già nel trailer, dove la lista degli attori vede nominati ovviamente LeBron, poi Bugs Bunny e Daffy Duck — non i doppiatori, proprio loro, come se fossero persone vere — e poi Zendaya, che doppia Lola Bunny, la cui origin story — se così possiamo definirla — nel Warnerverso, occupa molto più spazio rispetto a quella di tutti gli altri, proprio per dare maggiore spazio alla A-list hollywoodiana presente in cabina di doppiaggio. L’altro gruppo ha ancora meno importanza nel grande schema del film, ed è quello del pubblico presente all’incontro. Si tratta della dimostrazione più evidente di come Space Jam sia di fatto più una lunga pubblicità piuttosto che un film, perché tutti quei personaggi, da quelli di Arancia Meccanica a King Kong, stanno lì, fermi e inanimati come se fossero oggetti di promozione all’interno delle soap opera. E il fatto è che non solo non hanno alcuna ragione di stare lì, ma anche che si prendono una posizione privilegiata rispetto a coloro che, nella trama, dovrebbero rappresentare il pubblico. Perché 1) l’arena potrebbe essere riempita esclusivamente con follower di LeBron teletrasportati là nel serververso dai loro telefonini e sopratutto 2) sono le creature della Warner, non gli umani intrappolati, quelli che si prendono la parte più inquadrata dello schermo, quella dietro le panchine, quella verso cui, se questa partita di basket fosse stata effettivamente trasmessa in televisione, sarebbero puntate le telecamere.

Non vi dirò che queste iniziative potrebbero rappresentare la morte del cinema, né di qualunque arte, perché so esattamente che non potrà mai essere veramente così. Anzi, per un effetto contrario a quello ricercato, potrebbe quasi rappresentare l’inizio di una golden age. In fin dei conti, ogni volta che qualche governante ha provato a chiudere l’arte in uno sgbuzzino, questa si è fortificata, si è arricchita di sfumature, di livelli di lettura, ha trovato il modo di uscirne viva come quando Beep Beep riesce a passare nel tunnel disegnato sul fianco di una montagna da Wile E. Coyote. Questa non sarà mai la mia preoccupazione. E realmente non è neanche mia intenzione dirvi di non consumare questi prodotti, quando arriveranno. L’ho già detto. Io ci tornerei stasera a vedere il nuovo Space Jam. Il punto è la nostra consapevolezza. Il punto è essere in possesso di quanti più dati possibile prima di andare a fare una scelta. Sapere che queste cose stanno accadendo e comportarsi di conseguenza, anche se questo vuol dire rapportarsi con il fenomeno in maniera differente in base all’arte che ne è protagonista. Per dire, io non vado spesso al cinema — neanche prima della pandemia — e in generale non guardo molti film. Non che voglia vantarmene, ma non posso negare che per me questa cosa nella musica mi risulterebbe molto più difficile da accettare e da consumare rispetto al cinema. Ma forse in realtà non è neanche questo il punto. Più che una critica a quello che potremmo definire il cattivo sampling, questa vuole essere una lode al bel sampling, vuole distinguere l’atto, la scelta, dalle sue motivazioni e dai suoi risultati. Non tutti i riferimenti, non tutte le ispirazioni hanno lo stesso volto. E può sembrare una cosa elementare, ma la realtà è che il dibattito intorno alle ispirazioni degli artisti è uno dei più stupidi ed arretrati che esistono, è riempito di scemenze, inzuppato di retorica purista, ed è probabilmente il più avanzato avamposto della critica boomerista all’arte di questi tempi che signora mia non è più quella di una volta. Sarebbe particolarmente facile indicare “Space Jam: A New Legacy” e urlare “VEDETE? Non esiste creatività nell’arte di oggi, è tutto copiato”. Probabilmente qualcuno lo ha già fatto. Capire perché utilizzare in quella maniera le reference è poco interessante e da l’impressione di essere fatto tanto per fare, tanto per provare a nascondere le lacune del film, ci aiuta a riconoscere quelle situazioni in cui i riferimenti rendono al contrario speciale una determinata opera, aggiungendo gradi di bellezza a cui possiamo accedere solamente avvicinandoci alla mente di chi ha creato ciò che stiamo consumando.

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