Mole Audace (parte quinta — conclusione)

mirkocorli
4 min readAug 18, 2016

Un viaggio da Torino a Trieste sui treni di seconda classe, quelli dei pendolari (fine).

foto: https://en.wikipedia.org/wiki/Trieste

Trieste, fine corsa del treno

Trieste è sporca. Caotica. Con un traffico quasi bizantino. Vie strette, strade curve che salgono e scendono dal mare alla collina, bucano la montagna. I furgoni delle consegne in doppia fila, lavori ovunque. Trieste, per questo, è bellissima. Fa fermare il cuore. È come Genova, come Marsiglia, probabilmente come Napoli: un posto che ha scelto di tenersi il mare accanto alla montagna, che fa entrare il mare in città, che fa dei gabbiani uccelli in libera uscita tra le vie. Un posto che ha il porto accanto alla stazione, il caos, la puzza. Non ne trovate uno. Uno che venga dalle città elencate e che non le ami profondamente. È impossibile non farlo. Perché tutte, come Trieste, hanno la consapevolezza in ogni istante che tocca viver che però, comunque, inevitabilmente, tutto quello che c’è ha una sola destinazione. Il mare. Tutto, senza sconti, scende a un certo punto al mare. Le strade. La ferrovia. I motorini, che sono ovunque. Le persone. Tutto quel casino porta verso la pace. È funzionale a rendersi conto della fortuna di avercela comoda, la pace. Piazza dell’Unità d’Italia è l’antipasto della pace, la anticipa, la apparecchia. Entrarci è come mettere l’orecchio sui binari per sentire l’arrivo del treno. Poi, la calma, sta sul Molo Audace. Che non si chiama così perché entra dentro il mare con coraggio (lo fanno tutti i moli del resto): un mare di porta-container schierate al largo come in una specie di Risiko sull’acqua. Sono altri i motivi per cui quel molo è “audace”. Lì sopra, con il viale alle spalle, lasciato di libero sfogo alle auto dopo le costrizioni della parte collinare della città appena all’inizio, la vista sulla piazza più bella, i colli tutto attorno, i cantieri navali: lì sopra c’è la tranquillità. Per tutti, gratis.

La pace di togliersi le scarpe e stare al sole, di pensare ai fatti propri. Non si può sottovalutare, oggi, questa possibilità. La modernità sociale non offre grandi possibilità di rimanere da soli, di farlo con la facilità di quattro passi, soli davanti a qualcosa che è evidentemente e innegabilmente più grande di noi e dei nostri dubbi, delle nostre paure.

Non c’è modo di non pensare, davanti al mare. E pensare, con il tempo di farlo, è un lusso.

Il mare, qualsiasi mare, quel lusso te lo offre. Ma il mare in città è diverso, speciale, ti mette nelle condizioni di pulire la testa perché non sei in vacanza, sei ben dentro la tua vita fatta di squilli, preoccupazioni, incombenze e piaceri. Non sei altrove, sei lì. E nel tuo “lì”, il mare ti porta altrove. È magia vera, il mare in città. Il mare dentro la città. Il mare a Trieste.

Dal mare, poi, arriva tutto. Ad esempio il caffè. In Italia la media è di circa un bar ogni 400 abitanti. Qui la media scende a un bar ogni 300. E te ne accorgi camminando per le strade che a guardarle spesso sanno di Jugoslavia, per le piazze che sempre sanno di Austria, per i viali che sanno di noi. Quasi il 30% di tutto il caffè che arriva in Italia, passa da qui. Arriva in quei container che stanno là davanti al Molo Audace, aspetta di poter entrare in porto, viene scaricato, parte e prende la via di una qualsiasi tazzina che si accosterà alle labbra di un ricco o di uno che sta per entrare in cantiere alle 5 del mattino e mentre beve si accorge che la malta, dalla mano, ieri non è andata via bene. A Trieste passa, tramite il caffè, il 30% delle storie delle persone di questa terra che abitiamo. Fa impressione quasi quanto il mare davanti a te, se ti fermi a pensare in che modo, più volte al giorno, ti accosti alla tazzina: quali i pensieri, quali le sensazioni, l’idea a cosa fare dopo oppure il tentativo di svuotare per quei brevi attimi la testa e riposare.

Provate a chiedere un espresso, a Trieste. “Povàreti”.

Se una cosa è talmente importante nella cultura di un posto non si può banalizzare in un termine che usa chiunque, a sproposito, specialmente anzi quelli che vengono da via, forestieri, che di caffè — se stiamo a guardare — non capiscono niente. No, a Trieste c’è una lingua a parte, per il caffè. Quello nero, il capo, il c in b, il goccia, e via andare. Studiate la lingua, prima. E se in un posto che venera l’alcool e il caffè il vostro cappuccino si chiama caffelatte, è solo perché loro hanno ragione e voi è una vita che cercate di dare un tono allo stesso caffelatte che mio nonno si beveva la mattina, facendo il “supòn” con il pane vecchio. Fatevene un ragione.

Trieste è sempre piaciuta a scrittori e poeti perché di qui passano le storie. Perché basta sedersi in piazza Unità la sera, e si vede la gente passare, il mare sullo sfondo offre l’opportunità irripetibile di inventare storie su ognuno, partendo da quel che si vede. Un fondale neutro che rende tutti sagome scure che si muovono, relativizza i problemi, svuota la mente e la lascia libera di fare quel che sa fare meglio. Mettere insieme i pezzi, tracciare fili, connessioni, arrivare a una storia. Passa in buona parte da qui. L’intera storia di cosa questo paese è stato, e oggi è.

È in piazza Unità d’Italia che questo viaggio ha fine, perché è da qui che tutti dovremmo ricominciare.

[torna all’inizio del viaggio]

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mirkocorli

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