Mole Audace

mirkocorli
13 min readAug 14, 2016

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Un viaggio da Torino a Trieste sui treni di seconda classe, quelli dei pendolari.
Parte
1 (episodi 2, 3, 4, 5)

Di mirkocorli

Il viaggio

Tutto nasce dall’amore per i treni, per l’Italia, per le storie delle persone.
Due anni fa sono andato a sud, destinazione L’Aquila, raccontando lo stivale giorno per giorno, scoprendo volti e persone che sono entrati in un piccolo ebook e nella mia memoria.
L’anno scorso ho deciso di andare a est: un viaggio dalla Mole Antonelliana di Torino, la partenza, al Molo Audace di Trieste, l’arrivo.
In mezzo la Pianura Padana, e molto, molto altro.

Ne è nato un altro ebook, che trovate qui.
Se invece avete voglia di una lettura estiva a puntate, la prima comincia ora.

Le tappe

Queste le tappe del viaggio (ad ogni città o paese menzionato corrisponde una piccola tappa o un cambio treno):

Torino — Cremona (14 luglio 2015)

  • Torino — Chivasso
  • Chivasso — Casale Monferrato
  • Casale Monferrato — Valenza
  • Valenza — Pavia
  • Pavia — Codogno
  • Codogno — Cremona

Cremona — Trento (15 luglio 2015)

  • Cremona — Mantova
  • Mantova — Verona
  • Verona — Trento

Trento — Longarone (16 luglio 2015)

  • Trento — Bassano del Grappa
  • Bassano del Grappa — Castelfranco Veneto
  • Castelfranco Veneto — Valdobbiadene
  • Valdobbiadene — Longarone

Longarone — Gorizia (17 luglio 2015)

  • Longarone — Ponte nelle Alpi
  • Ponte nelle Alpi — Vittorio Veneto
  • Vittorio Veneto — Conegliano
  • Conegliano — Sacile
  • Sacile — Udine
  • Udine — Gorizia

Gorizia — Trieste (18 luglio 2015)

Trieste — Torino (19 luglio 2015)

Prima puntata: da Torino a Cremona

A Chivasso si passa, non si arriva. Ci sono quei posti in cui persino la stazione suggerisce che lì tutto scorre, in un verso o nell’altro. Verso Milano, o verso Torino, nel caso di Chivasso.

Solo un treno, di solito, finisce la propria corsa in queste stazioni. È quello del binario tronco. Si chiama proprio così, “tronco”. Perché è l’unico con il respingente a fine corsa: di solito sta alla fine della banchina attaccata al corpo della stazione, e si occupa di dare un senso compiuto anche a posti come Chivasso, facendoli essere per venti minuti, non di più, un punto di partenza o un punto di arrivo. Magari per qualcuno che deve addentrarsi nel Monferrato, raggiungere Alessandria. Chivasso è uno di quei posti che riuscirebbe a dare un senso anche ad Alessandria.

Ci sono persone in grado di fare la stessa cosa con i luoghi e con altre persone: persone tronche, come il binario, come Chivasso.

Il treno in direzione Alessandria è uno di quei treni moderni, a due vagoni, che hanno il nome delicato di un ballo e l’apparenza di mezzo pubblico. Tutti i comfort, anche l’elettricità per i moderni consumatori di spazio in treno, che non possono rimanere senza elettricità senza perdere contatto con il mondo e non hanno poi contatto con chi siede loro accanto. Fuori, una pianura che inspira campi di granoturco e dopo qualche stazione espira risaie. Zanzare, cicale, atrazina come condimento di quel suolo innaturalmente verde che sembra Indocina. Prima della prima stazione, il macchinista mette il pilota automatico e “inaugura” il bagno.

Una delle cose più affascinanti di questi treni in cui capotreno e macchinista si vedono da un capo all’altro, è la chiave esagonale. La bacchetta magica del treno. con quella apri i cessi una volta partito, con quella scopri il quadro elettrico per capire perché la porta di mezzo si è meritata in stazione l’adesivo giallo che la dichiara guasta, con quella chiudi le porte, uno sbuffo, e dai il segnale di partenza ad ogni fermata. Si fa tutto, con la chiave esagonale. Gira un bullone, uno sputo di vapore sulle rotaie, potere e fuga.

Una casa, rossa, enorme. Stile americano, di quelle a un solo piano che si espandono in larghezza, con l’orto, il giardino, la corte come si usava una volta in campagna, quella per batter il grano e fare le feste a ritmo di quadriglia. Si rivela poco dopo la stazione di Castelrosso, nel nulla, tra due ali di granoturco altro un paio di metri, come la colonna di ebrei dietro a Mosè tra due ali d’acqua che si ritira al loro passaggio. Un tizio, nell’afa più dura, in canottiera e ciabatte di plastica da piscina, sta seduto sull’uscio di quella che sembra la porta della cucina. Che cosa ci fa, lì? Come fa a vivere lì? Domande.

Verolengo non la vedi nemmeno arrivare, il mais è troppo alto, e vedi solo la stazione che rifiuta di omologarsi al color code bianco e blu degli ultimi anni, mantenendo la sua aria punk. Borgo Revel, Crescentino: mais e sfasciacarrozze, cave, granaglie e massicciata, condomini, qualche cupola e campanile, mattoni rossi stile nord Europa, un po’ di tutto. Niente da fare, non si sceglie di vivere qui. Dopo Crescentino il mais lascia spazio al riso, la terra si allaga, cede il passo all’acqua, e l’arrivo a Fontanetto Po è un trionfo di colori verdi che richiamano il sud est asiatico e ti fa strano vederne campiture così omogenee a latitudini consuete, tra bialere e rigagnoli costruiti apposta per allagare la Bassa.

Trino Vercellese è zona post nucleare in tutti i sensi: erba che cresce sui tetti dei magazzini dismessi, polvere bianca del cemento che ora qui non si fa più che “colora” i vagoni parcheggiati per sempre sul binario di servizio che arrivava dentro i cementifici, le nuvole che danno l’idea di essere sempre qui. Capannoni di cui resta soltanto la struttura portante, architetture dismesse di un’Italia che, purtroppo o per fortuna, non esiste più. Subito dopo il treno prende velocità, quasi a rimarcare la scelta di allontanarsi in tutta fretta: solca sterminati campi di riso entrando a Morano, da dove tanto riso arriva su ogni tavola, stretto tra quel che resta dell’atomica e quel poco che resta dell’Eternit.

Eternit, Casale Monferrato. Alla stazione i cessi sono nascosti, ma puliti. Piccioni ovunque, operai che — ironia della sorte — lavorano alla sostituzione della lamiera delle tettoie. Casale è bella. Ci sono vie in cui il tempo sembra fermarsi, vie strette e altre che si incurvano senza rivelare quel che c’è dietro l’angolo, segni di un posto che le cicatrici le ha sempre avute e che forse non è giusto ricordare per una cicatrice in particolare, per quanto sia orrenda al tatto.

A mezzogiorno la piazza si svuota. La campana rintocca, il giornalaio chiude, i vecchi che stavano ad argomentare del mondiale appena concluso e di quella culona della Merkel che consegnava la coppa vanno a casa, è ora di pranzo, chi la sente poi “mia moglie”, se si ritarda. Anche la signora che sta facendo una sosta per le sue caviglie gonfie tra un pacchetto di riso e uno di sale comprati e casa, si alza dalla panchina accanto alla mia e riparte. Una volta era la sirena delle fabbriche, a richiamare a casa, o al lavoro. Adesso è soltanto più la campana. Le fabbriche, quelle, se l’è portate via il progresso, il dolore, la dematerializzazione del mondo. Con chi te la prendi? Nessuno che abbia un nome e un cognome.

Mentre ci penso, una voce mi avverte che nei paesi se ti fermi in piazza per più di qualche minuto, dai subito nell’occhio. È P., Casalese d’adozione da molti anni, andremo a pranzo insieme. Mi ha trovato dopo un semplice sms, senza telefonate, senza mille riferimenti e geolocalizzazioni: funziona così, in questi posti. Posti in cui fai ancora prima a mettere fuori il naso e vedere, piuttosto che cercare su internet.

Il racconto è immediato: dalla Casale di oggi, a quella che era. Il capitalismo degli anni d’oro dell’industria del cemento, quando un po’ tutto il calcestruzzo si faceva con la terra che arrivava dalle colline e dalle cave intorno al paese. Un capitalismo arrivista ma schietto, senza scrupoli ma dritto, in grado di conciliare insieme il rispetto per il lavoro, di chiunque fosse il lavoro, e il profitto di pochi. Quella capacità di guidare l’impresa guidando in primo luogo gli uomini con la gentilezza e il rispetto, gli scapaccioni dei padri dirigenti ai figli quando non salutavano l’operaio incontrato per strada durante la passeggiata della domenica in via Roma. Uno dei pochi momenti concessi a tutti che livellava ogni differenza sociale. Un mondo di maniere, e un capitalismo, che oggi non esistono più. Del cemento si è salvato pochissimo, i camion non fanno più avanti e indietro con i nebbioni d’inverno e il frinire insopportabile delle cicale d’estate. Niente più statale percorsa più volte al giorno, dalla cava al cementificio e viceversa: la musica è finita, gli amici se ne vanno. Come quelli della catena del grande freddo e della conservazione degli alimenti. Casale era la capitale di quel tipo di industria, persa anche quella. Sono rimasti i ricchi, non i capitalisti. Gente che i soldi se li è trovati o li ha fatti pur con merito, ma non è più trainante per la città, a stento è in grado di esserlo per sé. Sono rimasti quelli che fanno finta di non averli, i soldi, perché il paese è piccolo e la gente mormora. Sono rimasti i figli di, “gente di mangime”, come li chiamava Ettore, il vecchio che gestiva il Bar del Giardinetto. Chi non parlava il dialetto, era un figlio del mangime, non meritava l’attenzione che si destina a un consaguineo, a qualcuno nato nella tua stessa strada, nel tuo stesso rione, nella tua stessa città. Casale oggi è il simbolo evidente di quel che sta capitando ovunque, o quasi, in Italia: la classe media non c’è più, ne sono cambiati gli estremi, i limiti, le definizioni. Ci sono i ricchi, che ne hanno da spendere quanti ne vogliono, e quelli che a fine mese ci arrivano ringraziando, bestemmiando ogni volta, sperando che il mese

dopo sia uguale se è andata bene o cambi del tutto se è andata male. Non c’è più chi rischia, chi scommette su se stesso, sulla propria origine, sulla propria città, come faceva il bisnonno di P., quello che aveva il bar e poi spendeva un sacco di soldi anziché nello stabilizzare il proprio reddito e la propria attività, nel comprare all’asta e a scatola chiusa vagoni ferroviari colmi di qualsiasi cosa. Quella volta che erano toccate in stock centinaia di paia di scarpe dell’esercito inglese non era andata molto bene. Piazzarle era stato difficile, una fatica ladra. Due, tre di questi carichi imbroccati male o per niente, era facile perdere il bar.

Il capitalismo a Casale era anche quello malvagio dell’Eternit. La spiaggia di sabbia bianca e fina sul Po dove tanti giocavano e prendevano il sole, la panetteria che stava proprio sotto la fabbrica, l’andare a correre sulle rive del Po passando sotto i tubi di scarico della fabbrica. Non ce n’è uno a Casale che non sia stato toccato dalla tragedia. Direttamente, nella propria famiglia, negli affetti più cari. L’Eternit se li è presi o se li sta prendendo tutti, e la cosa che fa più rabbia è che tanti, in quella fabbrica, non ci hanno mai messo piede, non avevano nemmeno uno in famiglia che ci lavorasse. La fabbrica ha portato il lavoro per tanti, il dolore per tutti. Ancora oggi capita di smontare un biliardo e trovarci dentro una lastra di materiale amiantifero tra la resistenza che lo riscalda e le lastre di pietra che lo rendono stabile. La memoria va a quelle corse sul Po, a quei giochi sul fiume, a quelle lastre tagliate con il flessibile quando ancora non si sapeva. L’Eternit si è presa tutto: vite, storie, leggerezza. P. mi dice che con l’idea che prima o poi la roulette russa arrivi a sfiorarti, per direttissima o solo tangenzialmente, ci convivi, che ci vuoi fare. Non puoi fare altrimenti. Ma lo sforzo che serve per una consapevolezza del genere, è disumano, questo lo penso io. Qualcuno ha provato, negli scorsi anni, a scendere a patti — patti economici — con chi ha, responsabilmente, scelto di avvelenare una civiltà. Ce l’ha fatta solo in minima parte, solo speculando per l’ennesima volta sulla vita di chi è rimasto, e magari domani tocca a lui. Mentre in stazione salgo sulla locomotiva diesel Aln 668–1064, che è vecchia quanto me ed è nata a Savigliano, penso che lei vedrà Casale ancora molte volte, che alcuni volti che ora attendono il treno per Valenza non li vedrà più, e che è davvero una merda.

Le motrici Aln 668 sono l’orgoglio delle ferrovie italiane. Le ha fatte tutte la FIAT, tranne qualche serie, solitamente a Savigliano o alla Materferro di Torino. Non sono un orgoglio per questo, però. Lo sono perché alla metà degli anni ’50, hanno rappresentato una “soluzione all’italiana” all’avanguardia nel mondo, e l’espressione tra virgolette allora non fu utilizzata come la intendiamo oggi noi, in senso non dico spregiativo ma quantomeno ammiccante verso il basso, verso il furbo. Sono state il frutto di un ragionamento tecnico, che ha messo su rotaia il miglior sistema di trasmissione dei treni di allora, con i motori più semplici da trovare in commercio (e quindi con pezzi di ricambio anche dal meccanico di paese) e ha creato il treno a basso costo di esercizio, a comfort quasi nullo, esteticamente brutto, ma che — a distanza di sessant’anni dal progetto e oltre trenta dalle ultime produzioni — ancora va. Senza fiatare. Su per tratte che altri treni non potrebbero neanche pensare di affrontare.

La motrice Aln 668–1064, come tutte queste specie di littorine con il doppio posto guida a un capo e all’altro del vagone, ha la capacità di incidere sullo spazio-tempo. Il tempo e lo spazio sulle littorine hanno tutta un’altra storia: c’è un senso complessivo di eternità e al contempo sembra che tutto sia molto più veloce nello scorrere. Lo spazio si apprezza meglio, si spiega in modo molto più comodo e dilatato, facendosi capire e comprendere. Passata Valmadonna, quel che resta sono i balconi delle case: un metro, un metro e mezzo massimo di distanza dalla massicciata, dalla tensione della linea, dal vagone che quando passa sposta l’aria sollevando polvere e fischiando di rabbia. Panni stesi, sedie, e l’idea di appoggiarsi sopra la ringhiera di quei davanzali con i gomiti dalla pelle indurita, l’orario dei treni appeso sopra al frigorifero, il prendersi il tempo di aspettare quell’amico in arrivo per vederlo passare. Per vederlo scorrere via, lontano

da qui, dalla tv sempre e comunque sintonizzata su Rete 4, dalle zanzare anche di giorno, dalla sedia di plastica che sta fuori e sulla quale le cosce si appiccicano da giugno a settembre.

“Arrivo subito Maestro”, dice il capotreno al macchinista. Perché, di fatto, guidare un treno così è un po’ come guidare un’orchestra fatta di stantuffi, valvole, iniezioni e pulegge. Non è un cd, non è un mp3, è un nastro inciso in presa diretta: serve cura, serve avere la mano, serve saperla maneggiare. Ci va, se non arte, mestiere. Maestro, dunque.

E il maestro va, fermandosi ad ogni stazione, per attendere il cenno di assenso del primo violino e ripartire. Il Po, qui, è smisurato. Pare il mare.

Ha isole e spiaggioni fatti di ghiaia e alberi, isole che arrivano a coprire metà del letto del fiume e non capisci se è per la presenza di poca acqua, o se perché la morfologia del fiume è così. È un qualcosa di vivo, da vivere, il Po, in questa parte di pianura, si capisce vedendolo: non si può lasciare a se stesso, bisogna prenderne tutti quanti un po’. Nomen omen. E allora vengono in mente quelle storie lette di contrabbando in canoa lungo le sponde, le grigliate dei poveri, il giocare a fare del fiume più grosso che abbiamo un piccolissimo mare. È una terra di passaggi a livello questa, di macchine e trattori in coda in attesa che passi quello più grosso di loro, un posto dove il treno ha ancora la priorità. Non è stato interrato, sopraelevato, accelerato. Sta a terra, dove è sempre stato, lo hanno lasciato essere treno. E che il resto, quando è il momento, si fermi pure un attimo. Non muore nessuno. Capire la sostanza delle cose, qui, è molto più semplice.

È una terra di aironi, che si aggirano in mezzo al riso cercando da mangiare, elegantissimi mentre il treno passa con il suo frastuono. Sono panorami mozzafiato. Fino a che.

Fino a che non si incontra una delle sedici raffinerie di petrolio che ci sono in Italia, a Sannazzaro dei Burgondi. Nello spazio orizzontale tra Pavia e Mantova ce ne sono tre: una concentrazione assurda. Una raffineria non è un gioco, anche se lo sembra. Pare uno di quei garage con autolavaggio per le macchinine di plastica che si aveva da bambini, fatti a comoda valigetta gialla, che tu potevi portarti a casa degli amici in un qualsiasi pomeriggio con relativa semplicità. Poi non restava che aprirli, mettere il piede per stabilizzare la parte superiore (che non voleva mai entrare, prendendosi tutti gli insulti di cui un bimbo è capace) e voilà: un garage-autolavaggio a due piani con scivoli, percorsi guidati, curve e tubi. Ecco, una raffineria ricorda quelle costruzioni bislacche, e ci aggiunge del suo: un aspetto tetro, il luccichio delle lamiere al sole e dell’olio sparso a terra, il senso di ineluttabilità del disastro.

Cremona è puttana. Va detto in apertura, senza fronzoli. Uscendo dalla stazione sembra un qualsiasi lido marino architettato dal Duce, con quei palazzi tinta pastello e le imposte verde scuro, le linee decise ma morbide, le magnolie davanti alle case. Fa subito anni 40, se poi ci capiti verso l’ora in cui il sole va giù, un senso strano di soffocamento si fa strada insieme all’umidiccio di un caldo padano. Poi, il centro stupisce. Medievale, austero, elegante. Anche se fin da subito si capisce che si tratta di un’eleganza strana, non quella che diceva Montanelli, quella che o ce l’hai di nascita e allora puoi stare anche in mutande, o non ce l’avrai mai. Questa è piuttosto di maniera, cerimoniosa, forma e apparenza, sostanza chissà. Sa di eleganza comprata, ecco. Tanti arricchiti, sembra di scorgere per le vie del centro. Il treno sulla linea da Milano ha vomitato non solo studenti ma anche tanti bei vestiti eleganti con il pantalone a sigaretta e il risvolto sulla lunghezza corta, l’abbronzatura artificiale, troppo uniforme. Probabilmente i soldi di Milano qui si spendono meglio, durano più a lungo. Il violino è forse la metafora giusta, a portata di mano pure, per descrivere Cremona: il violinista è altezzoso, il violinista è il protagonista e mai il comprimario dell’orchestra, l’eccentrico, il violinista se la tira. Questa, è Cremona. E lo vedi e lo senti nelle parole di chi ti mangia accanto, in un posto che si rende raffinato solo in proporzione alla sproporzione di cerimonia con cui accompagna ogni gesto, anche il più banale, come poggiare un cucchiaio sul tavolo.

Nell’84 sono andato per la prima volta al mare da solo. Mi sono preso il Cagiva e sono partito”.

Camicia bianca, polsini riavvolti sull’avambraccio, Rolex d’oro, fede al dito.

I signori hanno già affrontato l’idea del secondo piatto?
Oh cazzo non ci avevo ancora pensato, merda

C’è un sottile e delicato equilibrio tra sbracare e pizzicare le corde con dolcezza, in questa Cremona.
Non a caso il cinema si chiama Ugo Tognazzi.

[continua: parte seconda, parte terza, parte quarta, parte quinta]

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mirkocorli

39 yo, paying bills with social media, loving analog tools and writing on Medium about #productivity and #travel.