Bisognerebbe inventare lo smartphone

Paolo Gervasi
3 min readJun 27, 2022

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È stato bello vedere le reazioni alla mia lettera d’amore e d’addio. Tante persone l’hanno compresa a fondo, si sono riconosciute. Molte si sono commosse. Qualcuno, ma pochi, ha reagito come se avessi annunciato un lutto. Ho ricevuto tanti messaggi privati, tutti molto intensi.

È stata una specie di terapia di gruppo.

La cosa in realtà non mi stupisce. Nelle parole che ho scritto c’erano anni di chiacchierate, pause caffè, sguardi di intesa. C’erano tutte le persone che ho incontrato, dentro e intorno all’università. E io lo sapevo già che l’esigenza di usare le cose che sappiamo in modo diverso è molto diffusa. Lo pensano tutti. Tutti vorremmo farlo. Solo che non sappiamo come.

Per questo dicevo che non è solo un problema di “sistema”, di burocrazie e ingiustizie, di talenti che vengono esclusi. Il problema è il modo in cui decidiamo di organizzare quello che sappiamo, e di farlo passare dal nostro cervello al cervello di chi ci ascolta. È un problema di design delle idee: come hanno detto prima di me, tra gli altri, gente come Alessandro Baricco, o Luciano Floridi.

Abbiamo secoli di cultura alle spalle. Abbiamo idee brillanti sul presente e sul futuro. Ma sono immobili. Sono bellissimi blocchi di pietra che avrebbero bisogno di ruote. Le ruote, per come la vedo io, dovrebbero essere le parole. La scrittura. Il linguaggio.

La scrittura è una tecnologia raffinata, complessa, che richiede un alto livello di specializzazione. Chi scrive è una specie di programmatore: usa un linguaggio molto sofisticato, crea algoritmi potentissimi, che hanno effetti su chi li usa. Come gli algoritmi nascosti nella tecnologia che usiamo quotidianamente: non abbiamo idea di come funzionano, ma possiamo farci letteralmente tutto, perché ci arrivano racchiusi in un design semplicissimo. Alla fine il cuore della rivoluzione digitale è stato questo: creare interfacce intuitive, che danno accesso alla potenza dell’algoritmo senza bisogno di conoscere il codice.

In passato al gioco della cultura partecipava soltanto chi conosceva perfettamente il linguaggio di programmazione della scrittura. Tutti lo dominavano. Non c’era bisogno di interfacce. La cultura era una conversazione tra nerd: divertentissima per chi la faceva, incomprensibile dall’esterno. Inutilizzabile per la maggior parte della popolazione, se non nella versione a bassa definizione offerta dalla scuola.

A forza di ignorare l’importanza delle interfacce, però, ci siamo ritrovati a scrivere algoritmi sempre più complicati che nessuno riesce più a usare. E nella maggior parte delle persone si è diffusa l’idea che quella tecnologia lì, la cultura, la conoscenza, il sapere, non serva più a niente.

Un blocco di pietra. Bellissimo. Immobile.

A questo punto chi crede che si possa ancora fare qualcosa con il sapere, chi è convinto che la conoscenza che abbiamo accumulato nei secoli serva ancora agli umani per uscire dai casini in cui si sono infilati ultimamente, deve porsi il problema dell’interfaccia. Deve pensare alla scrittura come a una forma di design che permetta di usare la conoscenza in modo più facile, più intuitivo. Un modo per avere a disposizione la potenza dell’algoritmo senza essere tutti programmatori e programmatrici.

Sembra facile. In realtà è difficilissimo, perché più si sa e più è doloroso rinunciare alla complessità di quello che si sa. Provate a chiedere a un sommelier di spiegarvi quel vino lì, così, in due parole. Non è solo questione di semplificare: servirebbe un’invenzione di design geniale per trasferire la lenta, articolata, profonda potenza della cultura dentro i modi che abbiamo oggi di muoverci, stare seduti, far scorrere gli occhi, ricordare e dimenticare.

Una cosa tipo lo smartphone, che ha sintetizzato tutta la complessità dei linguaggi informatici nella pulizia di un gesto naturale.

Ecco, bisognerebbe inventare lo smartphone. Non credo di riuscirci qui, ma mi piacerebbe usare questo spazio per fare degli schizzi, dei bozzetti. Provare a capire come potrebbe essere un design della scrittura un po’ più chiaro, più limpido, capace di spostare pezzi di pietra, invece di riempirli di geroglifici.

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Paolo Gervasi

Ho passato molti anni a studiare la scrittura, le storie, l’immaginazione. Ora vorrei usare le parole per fare cose.