Gerard Huerta, disegnatore di caratteri, nel suo studio negli anni Settanta, presente in “Graphic Means”.

«Graphic means» — Intervista a Briar Levit

Nella primavera 2014 Briar Levit ha lanciato su Kickstarter una fortunata campagna di raccolta fondi con cui produrre Graphic Means, documentario nel quale ripercorre le vicende del graphic design dagli anni Cinquanta ai Novanta — dalla Linotype alla fotocomposizione, dal montaggio a mano al pdf.

redazione progettografico
Progetto grafico
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6 min readOct 3, 2017

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di Jonathan Pierini

Questo articolo (here in English) è stato pubblicato su Progetto grafico, rivista internazionale di grafica edita dall’Aiap, Associazione Italiana design della comunicazione visiva. Il numero 31, “Intorno al corpo”, è a cura di Claude Marzotto, Jonathan Pierini e Silvia Sfligiotti. Sul sito dell’Aiap è possibile abbonarsi o acquistare il numero.

JP Che cosa ti ha spinto a realizzare Graphic Means? Perché ritieni importante che graphic designer e studenti di grafica conoscano il modo in cui si lavorava in passato?

BL L’idea del progetto nasce dallo studio di manuali obsoleti acquistati in negozi dell’usato. In questo modo ho potuto esaminare i numerosi procedimenti adottati passo passo, attraverso fotografie e illustrazioni, meravigliata dall’abilità manuale e dal tempo necessari per realizzare una semplice brochure, dallo schizzo agli esecutivi per la stampa. Conoscevo questi procedimenti, ma ai miei tempi già non rientravano da una decina d’anni nei programmi didattici.
Nel ruolo di docente volevo condividerli con i miei studenti in modo che potessero contestualizzare e apprezzare il lavoro che svolgono e collocarsi nel continuum della nostra disciplina.
Più riflettevo su tutto questo, più mi convincevo di voler condividere la storia con il maggior numero possibile di persone. L’effetto che ebbe su di me il film
di Doug Wilson Linotype: In search of the Eighth Wonder of the World mi fece pensare al documentario come a un possibile strumento. Non soltanto contribuì a chiarire il mistero della Linotype a confronto con il tradizionale procedimento di fusione dei caratteri, ma mi mostrò anche la macchina in azione.
Nel film la storia è raccontata da persone che lavorarono con quella macchina e ne apprezzarono le qualità. Volevo realizzare per l’era della composizione a freddo quello che Doug aveva realizzato per la Linotype.

Pagina della brochure della fotocompositrice Linofilm: la digitazione del testo.

JP Il documentario, come tu stessa affermi, è la storia di strumenti, procedimenti e persone. Mi chiedo se possa far luce sugli effetti che questi cambiamenti hanno esercitato su mente e corpo umani. Mi riferisco sia alla modalità con cui i graphic designer producono e assemblano progetti, sia alla gestualità quotidiana.

BL Ne parla in parte la graphic designer Lucille Tenazas quando si lamenta di non potere più lavorare in ampi spazi, con grandi fogli di acetato, tavole e attrezzi della professione. Le piaceva sapere che erano le sue mani a creare il pezzo finale. C’era un senso di orgoglio, un atteggiamento Zen, nella realizzazione di ogni lavoro.

JP Se per effetto dei mutamenti tecnologici il ruolo del graphic designer si è evoluto ed è cresciuto, altri ruoli produttivi sono invece scomparsi. Credi che capacità, competenze e attitudini siano andate perse nella transizione e, se sì, quali sono state le conseguenze?

BL Non credo che i ruoli produttivi siano scomparsi, ma più semplicemente che siano stati assorbiti dalla figura del graphic designer. Così oggi, nella maggior parte dei casi, ci occupiamo noi stessi di composizione e prestampa. Di certo vi è stata una curva di apprendimento quando i designer, nella transizione al digitale, si sono trovati a dovere comporre il testo da soli e a compiere scelte tipografiche. Secondo molti graphic designer in questo passaggio la composizione ha toccato punte di qualità modesta. Tuttavia, ora abbiamo recuperato e penso che nella maggior parte dei casi i graphic designer sappiano gestire benissimo la composizione del testo. Per quanto riguarda ciò che è andato perso, temo che nell’attuale modalità di flusso del lavoro la rapidità prevalga sulla riflessione e sulla progettazione necessarie prima della fase di produzione. Per esempio, sono certa che il mio occhio tipografico non è preciso quanto quello di un graphic designer che assemblava a mano le composizioni tipografiche ed era in grado di trovare errori come spaziature e glifi non corretti con una naturalezza maggiore rispetto a quanti di noi si siano approcciati al progetto attraverso il computer. E se il mio occhio non può essere così allenato, immaginate quello dei miei allievi. Infine, i vantaggi sono di molto superiori agli svantaggi grazie a ciò che è possibile fare con una strumentazione ridotta e senza dover commissionare lavorazioni diverse a un numero eccessivo di persone.
Questa democratizzazione degli strumenti ha consentito ai graphic designer di diventare al contempo autori e imprenditori di se stessi.

JP Per troppo tempo i designer hanno trascurato quanto il loro corpo fosse condizionato dal modo in cui lavoravano. Oggi la progettazione off-screen è diventata sempre più rilevante. In un trend opposto a quello degli anni Novanta, le tecnologie digitali si concretizzano (vedi per esempio la cosiddetta «Internet of Things»). Cosa credi che accadrà nel prossimo futuro?

BL Esiste senza dubbio un ritorno di interesse nei confronti delle tecniche non digitali, di un modo di lavorare che prevede di fare le cose a mano prima di trasferirle al computer e trasformarle nell’opera grafica finale. Nella storia artisti e designer hanno di frequente reagito alla tecnologia (pensiamo al movimento Arts & Crafts, una reazione alla Rivoluzione industriale), e così accade oggi con il risorgere della tipografia, della serigrafia, della stampa Risograph (realizzabile tecnicamente senza fare uso del computer). Tutto ciò condurrà a una nuova estetica? Credo che il mescolare le tecnologie sia ciò che rende eccitante e appagante il lavoro di molti graphic designer oggi. La maggior parte di loro non avverte l’esigenza di essere purista in termini di metodi analogici, ma adora sporcarsi le mani. L’evoluzione tecnologica incide da sempre sul lavoro dei graphic designer: è stato così in passato e continuerà a esserlo fin quando questa disciplina esisterà. Per esempio, non molto tempo fa, un consorzio di aziende leader nel settore tipografico ha annunciato un progetto per font variabili che possono essere regolate a proprio piacimento. Quando l’ho saputo, ho reagito nervosamente all’idea che quelle variabili sarebbero state utilizzate senza una solida preparazione tipografica. Ma, in fondo, non erano di questo genere le preoccupazioni dei graphic designer all’apparire dei desktop computer quando il desktop publishing ha aperto le porte ai non designer? Certo, abbiamo assistito al proliferare di un design non eccellente, ma anche al boom della sperimentazione che grazie a questi nuovi strumenti ha generato un’estetica inimmaginabile fino a poco tempo prima.

Lucille Tenazas, graphic designer e docente, presente in «Graphic Means».

JP Nel preparare il documentario hai conosciuto persone che all’epoca avevano messo in discussione le nuove tecnologie o proposto alternative?

BL Non ho conosciuto nessuno che proponesse alternative alle nuove tecnologie del graphic design. Anzi Art Chantry, ad esempio, ha rifiutato di prenderle in considerazione e ha continuato a utilizzare metodi analogici. Quando l’ho intervistato mi ha detto: «Diciamo così: ogni volta che la tecnologia fa un passo in avanti io faccio un passo indietro. È come se fossi tornato allo stampino con le patate. Con una tecnologia estremamente avanzata, chi mai mi chiederebbe di realizzare qualcosa che potrebbe fare per conto suo?».

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