“Introduzione al processo creativo”, Accademia di Architettura di Mendrisio (dal 2011). Esercitazione “La forma dell’energia”.

Il corpo è didattica

Nello scenario attuale della didattica del progetto stanno emergendo alcuni esperimenti che esplorano la sensorialità come condizione indispensabile per produrre conoscenza attraverso il corpo.

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Progetto grafico
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8 min readOct 4, 2017

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di Azalea Seratoni

Questo articolo (here in English) è stato pubblicato su Progetto grafico, rivista internazionale di grafica edita dall’Aiap, Associazione Italiana design della comunicazione visiva. Il numero 31, “Intorno al corpo”, è a cura di Claude Marzotto, Jonathan Pierini e Silvia Sfligiotti. Sul sito dell’Aiap è possibile abbonarsi o acquistare il numero.

Il design in quanto disciplina nasce al Bauhaus, nel contesto del corso propedeutico che veniva chiamato Grundkurs a Weimar e a Dessau, Grundlehre alla Hochschule für Gestaltung di Ulm ed è stato poi tradotto nei paesi anglosassoni con l’espressione Basic design.
Al Grundkurs del Bauhaus erano stati chiamati due artisti, Kandinskij e Klee, che avrebbero trasformato la loro poetica in un sapere trasmissibile e in una oggettivazione e formulazione disciplinari, culminati per Kandinskij in Punto Linea Superficie e per Klee in Teoria della forma e della figurazione.

“Schriftentwurf”. Elaborati degli studenti dei corsi dal 1996 al 2005 presso SfG Zürich, SfG Biel/Bienne e
SUPSI Lugano.

Walter Gropius aveva chiamato anche Johannes Itten, il quale aveva introdotto un diverso modello di trasmissione del sapere, più prossimo alle discipline orientali, e basato sull’idea di un training in grado di mettere lo studente nella condizione di agire. A Ulm, Giovanni Anceschi è stato testimone di questo approccio, avendo praticato, nel corso di Herbert Lindinger, l’esercitazione Scioltezza gestuale proposta proprio da Itten: volute a mano libera che coinvolgevano, in una sorta di danza, la postura del polso e contribuivano a scioglierlo, in una azione gestuale, somatica e sensoriale che stimolava e produceva consapevolezza del proprio corpo.

Anceschi ha indicato come componente cruciale tra i caratteri di originalità del basic design, la sua capacità di adeguamento alle circostanze e agli sviluppi di nuovi scenari¹. Ne è conferma l’inclusione di una esercitazione sul corpo, che sembra attualizzare l’istanza vitalista e il paradigma di Itten, in accordo con l’espansione e contaminazione della disciplina con i nuovi ambiti tecnologici (in particolare l’interattività) e la presenza determinante del computer.

In Corpo a corpo di Cristina Chiappini è il corpo che si mette in scena attraverso un racconto che si traduce in una sequenza di azioni. Il brief è preciso — una simulazione in miniatura di un progetto — e costringe a usare quello che si ha a disposizione addosso o a portata di mano per realizzare una scacchiera interattiva e modulare di immagini.

Attraverso l’uso delle sue parti, ragionando sulle sue anomalie o qualità, il corpo si dispiega, agisce, si dà, con ironia, con narcisismo o secondo un puro ma discreto progetto erotico, per dare forma a esperienze e a campi di accadimenti, alfabeti, parole o effetti a onda pilotati da un dispositivo di input o da un click. Nel gioco ipnotico e divertito di scorrimento e interazione con la griglia di elementi quadrati che si accende di sorprese, meraviglie, beffe e artifici visivi e sonori, agisce, tra le altre che si trovano a margine, l’immagine di quell’«uomo di Munari», descritto più di mezzo secolo fa da Umberto Eco sull’Almanacco Bompiani, «costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle dita, sul sedere», che «si rivolta inquieto, in un mondo che lo tempesta di stimoli che lo assalgono da tutte le parti» e «si scopre abitatore inquieto di un expanding universe»². Forse non a caso viene da pensare a Bruno Munari, perché in Italia, complice la mancanza di un’università del design, è proprio nell’arte e più precisamente in quella zona intermedia fra il design e l’arte da lui custodita che il basic design si è realizzato.

A partire dal mutamento epistemologico provocato dal basic design cinetico interattivo di Cristina Chiappini, provando a catturare e a descrivere alcuni esperimenti che mettono il corpo al centro dell’insegnamento e, iniziando a registrare un’attitudine che pare stia diventando forma nello scenario attuale (non solo italiano) della didattica del progetto, il fenomeno che sembra emergere è che tutto si stia giocando proprio sui confini e le sovrapposizioni tra discipline. E che corpo, spazio-tempo, movimento siano gli elementi basilari su cui fondare questi programmi.

Introduzione al processo creativo, Accademia di Architettura di Mendrisio (dal 2011). Esercitazione “Marcia articolata”.

Agli studenti di Composizione architettonica del Politecnico di Milano, Corrado Levi diceva che il corpo è progetto e l’architettura si fa a partire da sé. E lo stesso sembra ribadire Riccardo Blumer all’Accademia di Architettura di Mendrisio. Il suo corso, al primo anno, inizia con l’allenamento, perché il movimento amplifica la capacità di percepirsi in relazione allo spazio. La cinestesia rende il nostro corpo un dispositivo attivo, uno strumento cognitivo fondamentale per l’appercezione del mondo e per la progettazione di prototipi in scala 1:1 che siano adeguati ai corpi che li useranno. Ogni anno si ragiona su un oggetto diverso: un abitacolo minimo che si indossa e, nella sua articolazione che ingloba il corpo, accondiscende l’automatismo di un gesto o di un passo; una grande onda attivata dalla comunità degli studenti per dare forma all’energia; una sagoma che si moltiplica e diventa misura topologica della città; un punto attorno a cui si danza per generare un luogo.

Attorno al concetto di luogo nel suo significato più vasto di cultura, storia, spazio, e sul progettare l’esperienza dello stesso come modalità di apprendimento, è stato organizzato il corso di Giorgio Camuffo, Emanuela De Cecco e Jonathan Pierini presso la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. Nei diversi workshop e attività sviluppati durante il semestre estivo (2015), il discorso si è concentrato sull’interazione tra i corpi delle persone e sui loro comportamenti, sugli imprevedibili e molteplici usi ed effetti che la sperimentazione di uno spazio comporta, sulla possibilità di estendere o costringere i limiti della nostra percezione.
Per capire meglio, forse, che il mondo non c’è se non in presenza di qualcuno che lo vive, lo gode e danza dentro di esso, in una ragnatela fittissima e interconnessa di azioni, nodi, innesti e reciprocità che molto assomiglia a quella che Tomás Saraceno ha installato alla 53ma Biennale di Venezia (Galaxy Forming along Filaments, like Droplets along the Strands of a Spider’s Web, 2009).

Giorgio Camuffo, Jonathan Pierini, Emanuela De Cecco
in collaborazione con il progetto di ricerca EDDES — Educare attraverso/con il design: stimolare l’apprendimento creativo in contesti museali e scolastici, Come on Kids! 3 — alla ricerca dello spazio perduto, Corso di Comunicazione visiva, semestre estivo 2015, UNIBZ, Facoltà di Design e Arti.

Gli esperimenti didattici di Susanna Stammbach agiscono negli interstizi tra nozioni e istanze come il suono e la scrittura. Il disegno è per Susanna Stammbach un esercizio quotidiano che si riconosce nella sua collezione di taccuini in cui esplora il territorio smodato e plurale di una pratica originalissima per intenzioni autoriali e morfologie espressive. Insegna Storia della scrittura e della tipografia e lo fa attraverso le variazioni timbriche che il suo corpo può produrre. Disegna lettere con il gesso alla lavagna, sovradimensionandole, e amplifica con la voce gli aspetti distintivi di ogni carattere. Gli studenti ne imitano i gesti su grandi fogli adagiati sui banchi. È la restituzione somatica e sonora che, immediatamente e in modo viscerale, identifica la qualità di una forma, di un segno calligrafico, di un disegno, di una composizione tipografica, ma anche l’orchestrazione dello storytelling visivo e verbale di una sequenza di pagine. Susanna Stammbach, che molto ha imparato da Wolfgang Weingart e Kurt Hauert alla Allgemeine Gewerbeschule Basel, ma soprattutto da Adrian Frutiger, trasmette la sua pratica attraverso l’esercizio manuale e un metodo fondato sull’esperienza e sull’osservazione, dove il paradigma disciplinare, nella tradizione del basic design, è sotteso e non enunciato; lo studente lo pratica e se ne appropria, prima di formularlo (o di sentirlo formulare) secondo un approccio epistemologico ri-fondativo e induttivo. Solo così si può assimilare, come dice Susanna Stammbach, il wesen delle forme, il loro essere.

In un paesaggio culturale diversissimo, Ko Sliggers, sul terrazzo baciato dal sole dell’Accademia di Design e Arti visive di Abadir, fa esperimenti sulla scrittura, prima sul pavimento con l’acqua e poi con l’inchiostro su grandi fogli di carta, attraverso l’uso di grandi pennelli fatti a mano, assemblando oggetti trovati. Sono esercizi di calligrafia astratta, gestuale ed effimera, che partono dalla grafia spontanea di ogni studente. S’improvvisano l’estetica e il design di un alfabeto e si sceglie, tra le lettere più interessanti, una serie di tre che poi viene ripetuta, aumentando la dimensione, a un ritmo accelerato, usando tecniche e strumenti diversi, inventati e fabbricati ad hoc, il cui movimento inizialmente coinvolge solo il polso e poi il corpo nella sua interezza.

Negli anni in cui lavora allo studio Dumbar, grazie all’incontro con la grafica polacca — in particolare con la scuola di Varsavia di Henryk Tomaszewski e con Grzegorz Marszałek –, Ko Sliggers riprende gli esercizi di calligrafia imparati da studente nel corso di Chris Brand all’Accademia St. Joost di Breda, attualizzandoli in un nuovo percorso didattico.

Al Bauhaus ci era stata offerta la possibilità di assistere allo sforzo di trasformare una poetica artistica personale in un sapere condivisibile e trasmissibile. Con Itten l’esplorazione della sensorialità era la condizione indispensabile perché lo studente diventasse competente e raggiungesse l’episteme. Così forse accadrà a questi esperimenti aurorali di un modo di educare al design che ritrova la centralità del corpo.

  1. «Il basic design è la disciplina centrale del design. È una disciplina estremamente particolare e originale come statuto, in quanto intreccia propedeutica (la pratica dell’insegnamento di un saper fare) e fondazione disciplinare (il pensiero teorico al quale si àncora l’operatività). Ma c’è un altro carattere di straordinaria originalità nel basic, e cioè l’intrinseca plasticità del corpus dei saperi specifici che lo compongono. È inteso che il basic vuole costruire i fondamenti dell’attività di “configurazione” (Gestaltung), ma, se i fondamenti della matematica tendono a restare decisamente costanti nel tempo, nel caso del design si tratta, per principio, di fondamenti adattivi. Il basic col procedere del tempo porta — per così dire — avanti con sé il proprio orizzonte. In altre parole, alcune esercitazioni (e quindi alcuni punti disciplinari focali) decadono e ne nascono di nuovi, adeguandosi alle circostanze e agli sviluppi del contesto epocale. È una disciplina rigorosa ma anche vivente e metamorfica». G. Anceschi, Una favoletta per capire che cos’è il basic design, «Progetto grafico», n. 12–13, settembre 2008, pp. 186–187.
  2. Umberto Eco, La forma del disordine, «Almanacco Bompiani» 1962, Milano, 1962 p. 187.

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