“Narciso e Pennadoro”: (aspettando di) risolvere il conflitto psicologico del poeta

Roberto R. Corsi
9 min readApr 26, 2018

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Giorgione (attribuito), Doppio ritratto, olio su tela, circa 1502, Roma: Galleria di Palazzo Venezia (img Wikimedia Commons, Public Domain)

Conduco una vita ritirata per una serie di motivi, il primo dei quali è che non ho un briciolo di autostima sin da ragazzo. Il secondo è che, per il classico schema della profezia che si autoavvera, avere poca o punta autostima sin dalla giovane età mi ha portato a non combattere per affermarmi, dunque… a non affermarmi. Perciò adesso ho ancora meno autostima o energie per le residue sfide. Una frase attribuita a Pessoa lo esprime al meglio: Porto addosso i segni delle battaglie che non ho combattuto.
Per fortuna ho delle reti di protezione (la famiglia; un diamante cucito dentro l’avambraccio per le emergenze… ah no, quello era Redford in un film), ma temo che le maglie di questa rete si stiano deteriorando.
Il terzo motivo è che non mi piace come sto vivendo e quindi, in attesa di poter eventualmente cambiare, non amo propormi all’esterno, parlare di me, rispondere a domande sempre piuttosto ficcanti, talora studiatamente destabilizzanti. Dovrei imparare dalle mie ex l’arte di cambiare discorso, che pratico ancora male.
Il quarto è che non sono stato neppure troppo fortunato, collezionando, quasi tutte le volte che mi sono affacciato timidamente al mondo, una serie di giudizi ed epiteti piuttosto che fiducia nelle mie capacità: apicalmente, «pagliaccio», «omuncolo», «impostore», «impotente ingannatore», incapace di amare ma solo di porre in essere una «pallida imitazione» di amore. Non tutti, peraltro, avevano torto. Mi sarebbe servita una keynesiana iniezione propulsiva trivalente di affetto, amore e sesso sconsiderato, soprattutto in età liceale.
Ma il fato così non volle.

Detto questo, non voglio ammorbarvi oltre con le mie disgrazie. Questo cappello introduttivo rientrerà in gioco più tardi. Ora mi serve soltanto per spiegare che il mio atteggiamento ritirato ed elusivo si riflette anche sulla mia vita di (presunto) scrittore.
C’è stato un periodo, diciamo dal 2007 al 2011, in cui credevo nella “gavetta”, inanellando scritture e presentazioni gratuite che, come sagacemente è stato fatto notare, ti portano solo ad avere più richieste per ulteriori collaborazioni gratuite. Forse la remunerazione per quel periodo è stata l’endorfina di “sentirsi vivo, al centro di qualcosa” (autocit.): attestati di stima, invii librari, qualche applauso, qualche presenza nei lanci di stampa. La mia ragazza di allora, nerovestita, geek appetitosa, si sedeva in prima fila e, alla fine, si lasciava presentare con un sorriso ironico come “la moglie del critico”, poi tornavamo a casa e facevamo l’amore. Ma ora (lei non c’è — è “quella dell’incapace di amare” — e) questa sensazione egocentrica è effimera come un gas, non basta più.

Contemporaneamente, infatti, la considerazione verso la mia scrittura non è decollata. Ho rimarginato gli errori di “gioventù”, errori forse segnanti. Ma non ho riscontri editoriali seri. E la gente non mi legge. A volte, manco gratis. Semplicemente, la mia scrittura non è richiesta. A meno che non diventi ancillare, recensendo/mettendomi al servizio di un autore magari ben radicato in rete: e allora il contatore s’impenna coi tag, con i pingback, con i commenti e con i like (che sono sempre e comunque a lei/lui: tu scrivi un saggio su John Doe e il commento standard di chi conosce lui è «Grande John»; raramente «bravo questo studioso del Grande John». Fateci caso: nessun reale engagement, nessuna volontà di andare oltre l’amico e conoscere nuove voci).

Il punto è che ho preso atto e me ne sono tirato fuori, credo di essere coerente. Pubblico ormai quasi solo in rete, realizzo ebook gratuiti per i miei 24 lettori (uno meno di Manzoni, per reverenza).
Ma non cesso di provare amarezza.
E qualche volta mostro una enorme ingenuità, spedendo i miei inediti solo alle grandi case editrici, che non rispondono e probabilmente manco li leggono (una dice di sì, le altre boh). Sì: quelle case editrici lì, quella con lo struzzo, quell’altra col gufetto e così via.

Sogni proibiti (che rimarranno tali)

Questa mossa ad alcuni potrà sembrare perfino arrogante.
Chi si crede di essere questo?
C’è una grande-grande Poeta, ahimè scomparsa un paio di estati fa, che ha scritto una dozzina di libri di poesie di alto livello, ottimamente prefati e pure pregevolmente confezionati.
Bene: con la usuale, fiorentina schiettezza, trattando sul suo sito dei propri libri di ricerca, scriveva: «Premi e riconoscimenti a parte, dirò subito che queste sono le uniche pubblicazioni in volume che non ho pagato». Ergo, per pubblicare tutti quelli di poesia ha pagato.
(Pagato? Fate pagare pure le altissime poete, i vanti cittadini?)
Altre e altri viventi, validi come lei, si arrabattano per una vita con libri, premi e serate, però agli animaletti citati sopra non ci arrivano.
E io, che scrivo con qualità decimale rispetto a costoro, perché dovrei saltare subito all’ultima casella? Chi sono per ribellarmi allo status quo? — penseranno.
Chi sono? Un ingenuo che agisce in base a una considerazione assai capillare delle varie offerte editoriali e, soprattutto, paraeditoriali. Ma pur sempre un ingenuo.

Ingenuità, la mia, che forse è indice di una irrisolta, impossibile, smania di notorietà.
Ma se ho smania di notorietà, perché mi tiro indietro?
Questo è il punto.
C’è un conflitto, e se ne è mirabilmente accorto un amico storico, che ogni tanto — bontà sua — mi usa, sul piano esistenziale, come “ragazza brutta con cui la ragazza bella va a passeggio”… Ma che non manca di ammannirmi benevolmente il suo punto di vista, che in questo caso mi ha aperto la mente. Gli ho chiesto, con apparente leggerezza, come scendere a patti col proprio fallimento come scrittore. Ecco un fermo immagine della nostra chat, con alcune sue parole:

Bersaglio centrato. L’amico opera una dicotomia, ponendo da un lato «narcisismo e ritorno economico», obiettivi che richiedono di essere un «animale da industria culturale» dall’altro una «fuga dal palcoscenico» verso la «intimità del pensiero». In chat seguono esempi macroscopici del suddetto animale industriale, alcuni microesemplari più tristi del quale si possono trovare anche nel piccolo acquario della poesia.
Spicca poi, nell’ultima nuvoletta in basso, il tentativo di risolvere la contraddizione: alla sua radice c’è un bisogno insoddisfatto di accoglimento e di rassicurazione.

Questo tentativo ricostruttivo mi piace e, come ognun vede, coincide apparentemente con la mia storia, con le macerie della mia autostima.
Abbiamo davanti a noi un bivio molto chiaro.
Per inseguire — senza alcuna garanzia di risultato — il successo e il culto della personalità dobbiamo percorrere per forza il sentiero della iper-promozione, del personal branding, della logica di commercio.
Se invece c’interessa un discorso più intimo o, soprattutto, non abbiamo voglia o convinzione nel fare girare la ruota, dobbiamo scegliere una via più introspettiva e lontana dal meccanismo editoriale (che è sempre, non va scordato, un meccanismo imprenditoriale, con le sue ragioni ed esigenze correlate).
Qualunque contraddizione comportamentale, come i miei ingenui invii o il mio malessere, andrebbe indagata nei termini psicanalitici del bisogno primordiale insoddisfatto.

Ciò dovrebbe chiudere il cerchio. Il lettore devoto dovrebbe tornare all’inizio dell’articolo e alla mia simpatica adolescenza stercoraria; io invece dovrei cercare, se non è tardi, di realizzarmi a livello personale e lavorativo. Extrapoetico, insomma. Per avere la forza di mantenere vivo e fluente il mio dilettantismo di scrittura (inteso in senso atecnico-qualitativo, perché in senso tecnico-giuridico quasi ogni poeta è un dilettante) senza sbroccare. Del resto devo ritenermi un privilegiato, perché ho la fortuna di vivere in un’epoca storica in cui è molto semplice, immediato, portare la propria scrittura a conoscenza degli altri mediante internet.

Guido Morselli | img Wikimedia Commons, pubblico domino IT

Ho usato il condizionale: dovrebbe. Perché, man mano che buttavo giù queste righe, sono diventato consapevole che questo mio comportamento letterario schizoide è determinato anche da fattori di distorsione che non si esauriscono nel mio vissuto.
Quello che il mio amico non considera è che, per addivenire a un sano percorso di scrittura che sia avulso dall’industria culturale, con ciò senza uscirne pazzi o in forma non corporale (penso al povero Guido Morselli e alla sua sorte paradigmatica, vitalizio >> insuccesso >> suicidio >> pubblicazione post-mortem), occorre non solo fare i conti con se stessi, ma anche con alcuni “fattori di conflitto” che rendono difficile risolversi nel distacco.

  1. Uno ha una radice sociologica-culturale, ed è il cosiddetto publishing divide: cito ancora Ben Lerner, che, nel suo Odiare la poesia, rileva come la prima domanda che normalmente deve affrontare chi si afferma poeta è «Sei poeta pubblicato?». Ove si sottintende, normalmente, pubblicato in volume cartaceo (quindi molte volte il publishing divide è un digital divide al contrario!).
    La domanda, se posta dal di fuori, avrebbe anche un senso: vorrebbe dire, «Esiste un editore che ha avallato il tuo lavoro?». Il problema è che, con qualche eccezione, i libri di poesia sono in stragrande maggioranza pubblicati col contributo (nominale o in forma di acquisto copie) dell’Autore. E questo ha portato storicamente all’instaurarsi di un business dell’editoria a pagamento: prassi forse non illecita ma che, ex se, non ha a che fare con un giudizio di qualità (o comunque, anche se un editore a pagamento si sforza di fare selezione, all’Autore non sarà mai chiaro del tutto per quale motivo è stato pubblicato).
    Di fronte a questa prassi, molti autori hanno preferito l’autopubblicazione o, semplicemente, il ricorso diffuso a internet. Purtroppo, però, il pregiudizio persiste, declassa questi ultimi e determina in molti di loro, di riflesso, la tentazione di mettere mano al portafogli per essere assunti di diritto alla mistica rosa dei “Poeti PICNIC”® (Pubblicati In Cartaceo, Non Importa Come).
    Bisognerebbe invece fare controinformazione ancora più intensa per smontare questo punto e la sua valenza diffusa. Purtroppo i player della poesia, come si direbbe oggi (non solo autori ed editori ma anche media, portali internet, premi e concorsi letterari con grandi poeti in giuria) non espungono dalla loro considerazione i libri editi con contributo e dunque perpetuano divide e relativo meccanismo di conflitto mentale. La sensazione è di un congegno complesso che si autoalimenta: per usare il gergo satirico di un blog geniale ma fermo: I pagautori di oggi aspirano a diventare gli editeuro di domani.
    Discorso lungo e complesso. Quello che mi interessa evidenziare qui è però unicamente che non risolverò pacificamente il mio distacco finché ci sarà qualcuno che mi nega la qualifica di Poeta oppure mi declassa semplicemente perché non addivengo al meccanismo industriale. La riduzione del conflitto al mio vissuto non tiene conto di questo fattore, che è un fattore essenziale di riconoscimento.
  2. Sul secondo fattore, che forse esaspero, mi soffermo meno. Anche perché è ineludibile. Comporta il fatto che ogni dilettantismo autoimposto (perché è ciò di cui stiamo parlando) è fallace, perché l’essere umano tende a quello che nella storia e sociologia dello sport è chiamato Agonismo programmatico a carattere illimitato.
    Voglio scrivere con sempre maggiore qualità? A questo proponimento dovrà seguire un tempo sempre maggiore dedicato alla scrittura, a scapito del tempo dedicato alla mia fonte di mantenimento, fino a esaurire virtualmente quest’ultimo e dunque dover trarre sostentamento da tempo e attività di scrittura.
    Questo è il processo storico che, nello sport, ha portato dal dilettantismo decoubertiniano al professionismo.
    A meno che non si accetti di contemplare il proprio ristagno, reprimere giocoforza questo istinto, in una società che non remunera praticamente più lo scrittore se non a livelli altissimi, è un atteggiamento razionale ma che ha conseguenze cognitivo-comportamentali pesanti e imprevedibili.

Considerare che la poesia non paga non è sufficiente a saziarci. Saliremo e scenderemo dall’onda dell’autopromozione; ogni tanto ci proclameremo distanti e insensibili al mercato, per poi postare su cento gruppi ogni straccio di recensione internautica, piovuta dal nulla, a qualche nostra poesia; i giorni successivi li passeremo sulle statistiche di accesso; ai loro scarni numeri torneremo al romitaggio, alle gioie del lavoro e della famiglia… fino alla recensione seguente.

L’auspicio, almeno per me stesso, è di risolvere tutti questi conflitti e di ritrovare serenità.

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