Perché Potere al Popolo, nonostante i buoni sondaggi, non deve presentarsi alle Europee 2019

Giuseppe D'Elia
17 min readNov 3, 2018

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http://tg.la7.it/politica/potere-al-popolo-la-prossima-volta-tocca-a-noi-05-03-2018-125254

Questa storia incomincia la notte del 4 marzo scorso e l’immagine che ho scelto per rappresentarla è un fotogramma di un video che tutti possono rivedere per capire bene quello che è successo in questi mesi e, in particolare nelle ultime settimane.

L’uomo che sorride di gioia, in secondo piano, ma evidentissimo sulla destra è Maurizio Acerbo, segretario del Partito della Rifondazione comunista.

Che Acerbo gioisca, a caldo, assieme alle care compagne e ai cari compagni di Potere al Popolo, con cui aveva condotto una difficilissima campagna elettorale, organizzata in poco più di tre mesi, dovrebbe essere perfettamente comprensibile, visto che il risultato raggiunto in poco tempo e con scarsissimi mezzi era tutto sommato incoraggiante, a voler prendere sul serio quanto sottoscritto da tutti nel manifesto fondativo, ovvero:

«Affronteremo questa campagna elettorale con gioia, umanità ed entusiasmo.

Con la voglia di irrompere sulla scena politica, rivoltando i temi della campagna elettorale.

Non abbiamo timore di fallire, perché continueremo a fare — prima, durante e dopo l’appuntamento elettorale — quello che abbiamo sempre fatto: essere attivi sui nostri territori.

Perché ogni relazione costruita, ogni vertenza che avrà acquisito visibilità e consenso, ogni persona strappata all’apatia e alla rassegnazione per noi sono già una vittoria.

Non stiamo semplicemente costruendo una lista, ma un movimento popolare che lavori per un’alternativa di società ben oltre le elezioni».

E tuttavia l’immagine di questo segretario di partito sorridente, gioioso e solidale, nei giorni successivi, progressivamente, svanisce, anzi: smette proprio di esistere.

Da un certo momento in avanti non esiste più il segretario del PdRC che gioisce insieme ai compagni del nuovo movimento politico, ma esistono solo e soltanto “quelli dei centri sociali” che, di fronte alla più grande disfatta elettorale della sinistra italiana, hanno osato gioire, anziché disperarsi.

Badate bene che questa narrazione non è soltanto mistificatoria.

In questa narrazione c’è anche un contenuto di verità che va analizzato a fondo, se si vuole comprendere davvero la matrice più autentica dello scontro politico che c’è stato dentro Potere al popolo dopo il voto del 4 marzo scorso.

Se, infatti, si considera PaP come un mero cartello elettorale, vale a dire come «unione di più partiti che si presentano alle elezioni in una sola lista, per evitare una dispersione di voti», va da sé che l’un per cento è un risultato disastroso e senza appello.

Ed è per questo che non deve sorprendere il finale di stagione, andato in onda domenica scorsa, e a cui ci rifacciamo direttamente, per risparmiare l’analisi puntuale dello stillicidio di polemiche messe in scena in questi lunghi mesi (e tutt’altro che sopite, purtroppo).

Userò qui il documento approvato dal CPN di rifondazione, non per adesione convinta a quanto in esso possiamo ritrovare, ma per sviluppare un ragionamento politico, partendo dalle premesse che questo stesso partito pone.

Non mi interessa, insomma, stabilire chi sta dicendo la verità tra le due parti in causa (questo ce lo dirà il tempo, come sempre).

Qui e ora mi interessa verificare se il ragionamento di quello che è stato da sempre il mio partito è coerente e corretto o se presenta delle incongruenze e, nel caso, quanto queste siano rilevanti.

Rifondazione esce da PaP, delegittimandolo, e contestualmente invitandolo a partecipare al nuovo cartello elettorale in fase di realizzazione

http://web.rifondazione.it/archivio/cpn/181027/181027doc_approvato.html

Nel paragrafo intitolato “POTERE AL POPOLO”, dopo aver confermato tutte le accuse rivolte alla componente non partitica del movimento, si decide di concludere con queste testuali parole:

«Rifondazione Comunista — nonostante tutte le difficoltà, gli attriti e i limiti emersi nel corso del percorso — ha lavorato con la massima generosità per portare avanti il progetto prefigurato nel manifesto fondativo di costruire “Un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista che in questi anni sono stati all’opposizione e non si sono arresi”.

Questo progetto originario non c’è più.

Siamo di fronte a un progetto politico diverso che intende usare la stessa sigla che ha ottenuto visibilità presentandosi alle elezioni politiche anche e soprattutto grazie all’impegno di Rifondazione Comunista.

Il CPN conferma il giudizio espresso nel documento approvato dalla Direzione Nazionale del 13 ottobre riguardo alle forzature antidemocratiche e alle violazioni palesi delle più elementari regole di correttezza che hanno reso impraticabile una già di per sé assurda consultazione su due statuti contrapposti.

In qualità di soggetto co-fondatore di Potere al popolo non riconosciamo la legittimità di una consultazione falsata, di uno statuto che è stato bocciato dalla maggioranza degli aderenti che non hanno partecipato al voto, e degli organismi che verranno eletti su questa base.

Giudichiamo positivamente l’appello “Compagne e compagni” per rilanciare un percorso di confronto e attivazione di chi non ha condiviso la deriva di Pap.

Proprio perché non abbiamo abbandonato l’originaria ispirazione di Pap non intendiamo separarci da quanti/e hanno condiviso con noi quell’impegno e ci adopereremo per tenere in vita, in forma autonoma, la rete di relazioni politiche e sociali che in questi mesi si sono consolidate.

Il CPN ritiene quindi che non vi sono le condizioni per proseguire l’impegno politico diretto del nostro partito in quello che si ostinano strumentalmente a chiamare Potere al popolo».

Delegittimazione, disconoscimento, abbandono e contestuale lancio di un percorso parallelo «per tenere in vita, in forma autonoma, la rete di relazioni politiche e sociali che in questi mesi si sono consolidate», ma soprattutto — come si legge uno dei post della pagina Facebook collegata all’appello citato — la prospettiva basilare del gruppo dirigente di rifondazione è e resta sempre questa:

«non convergenza verso un unico soggetto, ma definizione di una comune tensione politica in cui identità e specificità non perdano riconoscimento e riconoscibilità».

Ora, che questo tipo di «tensione politica in cui identità e specificità non perdano riconoscimento e riconoscibilità» — che è la cifra distintiva del PdRC dal 2008 in avanti — abbia come suo sbocco naturale il cartello elettorale e che nessuno di questi cartelli elettorali debba mai trasformarsi in soggetto politico e in una comunità in cui tutte e tutti si sentano rappresentati, andando oltre la logica delle tribù di appartenenza, è ampiamente e letteralmente confermato dal paragrafo conclusivo del documento del CPN in parola (“PER UN’ALTERNATIVA DI SINISTRA E POPOLARE”):

«Rilanciamo l’obiettivo di costruire uno schieramento di sinistra e popolare alternativo a tutti i poli esistenti con le caratteristiche delineate nel documento del CPN del luglio scorso.

Lo avevamo chiamato “quarto polo” ma non siamo affezionati alle definizioni quanto alla sostanza.

Nelle prossime elezioni regionali e amministrative — nelle forme proprie di quel tipo di consultazioni in cui contano molto le specificità territoriali — lavoriamo per la costruzione di liste e coalizioni alternative alle destre e al PD.

Il nostro obiettivo è quello di concretizzare alle elezioni europee questa proposta in una lista unitaria in Italia che raccolga tutte le soggettività di sinistra e di movimento che si collocano sul piano della critica radicale dei trattati europei e dell’UE.

Con questo approccio Rifondazione Comunista lavora nel Partito della Sinistra Europea e nel GUE e sul piano nazionale.

In questi mesi abbiamo lavorato per concretizzare la proposta politica di costruire uno schieramento della sinistra popolare, civica, di classe, antiliberista, anticapitalista, ambientalista, femminista, civica, autonomo e alternativo rispetto al Pd responsabile, con le sue politiche, dell’avanzamento delle destre nel nostro paese.

In questo schieramento e in questa lista unitaria pensiamo che possano e debbano ritrovarsi formazioni politiche come Potere al popolo, Dema, Diem, L’Altra Europa, le “Città in comune”, Pci, Sinistra Anticapitalista, e tutte le soggettività politiche, sociali, culturali e sindacali che sentono l’urgenza di costruire un’alternativa al governo LEGA-M5S e agli altri poli esistenti e ad una prospettiva comune sul piano europeo ed anche nazionale.

Giudichiamo positive le posizioni assunte da Sinistra Italiana sulla collocazione nel Gue e nella Sinistra Europea.

In questa direzione ci siamo confrontati in questi mesi con Luigi De Magistris e tante soggettività a partire dalla comune convinzione che nel nostro paese c’è bisogno di una proposta di netta rottura sul piano programmatico e del profilo politico quanto capace di essere inclusiva e larga, un progetto che sul piano europeo si collochi in alternativa tanto a nazionalisti e razzisti quanto ai trattati UE e alla governance neoliberista».

Ci sono due incongruenze notevoli in questo modo di ragionare.

Se le parole hanno un senso, non si può infatti, nello stesso documento politico, denunciare «una consultazione falsata», disconoscendo e delegittimando il movimento politico dal quale si annuncia di voler uscire («Il CPN ritiene quindi che non vi sono le condizioni per proseguire l’impegno politico diretto del nostro partito in quello che si ostinano strumentalmente a chiamare Potere al popolo»), per poi fare appello, subito dopo, a questa stessa forza politica delegittimata, in nome di quell’afflato unitario che è tanto pressante sotto elezioni, quanto evanescente a cominciare dal giorno dopo il voto.

Già questa prima clamorosa contraddizione dovrebbe essere più che sufficiente per avanzare qualche forte perplessità su tattica e strategia di quello che resta del partito nato nel 1991 con la nobile aspirazione di rifondare il comunismo.

E tuttavia è proprio l’analisi puntuale della storia di tutte le “formazioni politiche” espressamente individuate e menzionate nel documento del PdRC — quelle che dovrebbero andare a comporre il nuovo fronte di lotta politica (o, molto più prosaicamente, il nuovo cartello elettorale usa e getta) — che disvela, oltre ogni ragionevole dubbio, il persistere di quella patologia della politique politicienne che, già poche settimane dopo il voto del 4 marzo scorso, ho definito come La sindrome di Penelope della sinistra italiana.

  • Potere al popolo (lista con cui Rifondazione comunista si è presentata alle Politiche del 2018)
  • Dema (il movimento politico del sindaco di Napoli Luigi de Magistris)
  • Diem (il movimento politico dell’ex ministro greco Yannis Varoufakis)
  • L’Altra Europa (lista con cui Rifondazione comunista si è presentata alle Europee del 2014)
  • le “Città in comune” (insieme di liste con cui Rifondazione comunista si è presentata, negli ultimi anni, alle elezioni amministrative in diversi Comuni d’Italia)
  • Pci (partito in cui è confluito nel 2016 il Partito Comunista d’Italia, denominazione assunta nel 2014 dal Partito dei Comunisti Italiani, nato nel 1998 «in seguito ad una divisione interna a Rifondazione Comunista e in concomitanza con la crisi del Governo Prodi I»)
  • Sinistra Anticapitalista (già Sinistra Critica, ovvero «un partito politico italiano nato nel dicembre 2007 da una scissione di Rifondazione Comunista, partito di cui formava una corrente interna già dal 2005»)
  • Sinistra Italiana (partito nato due mesi dopo lo scioglimento di Sinistra Ecologia e Libertà, già Sinistra e Libertà in cui confluisce gran parte del ceto politico che sotto la guida di Nichi Vendola era fuoriuscito da Rifondazione comunista nel 2009, dopo il lacerante congresso del 2008 che aveva letteralmente spaccato in due il partito).

Cosa si vuole unire, dunque?

In estrema sintesi, la nuova “lista unitaria” punta a mettere assieme (quasi) tutto il ceto politico che è il prodotto di vent’anni di scissioni e ricomposizioni del Partito della Rifondazione Comunista, a cui si andrebbero ad aggiungere, stavolta, due partiti personalistici: quello del sindaco di Napoli e quello di un ex ministro greco (partiti sul cui effettivo radicamento territoriale in Italia mi sembra, tra l’altro, più che lecito avanzare qualche dubbio).

Potere al Popolo vs “lista unitaria”: il rischio concreto di un disastro analogo a quello delle Europee 2009, anche in presenza di sondaggi tutto sommato incoraggianti

http://tg.la7.it/politica/il-sondaggio-politico-di-luned%C3%AC-29-ottobre-2018-29-10-2018-132705

Nonostante tutto lo stillicidio di polemiche susseguenti all’esito del voto del 4 marzo scorso — con LEU che elegge i suoi rappresentanti (quasi tutti ex PD, per la cronaca), superando di poco la soglia di sbarramento fissata al 3% e PaP che resta fuori dal parlamento prendendo un terzo dei voti dei primi — i rapporti di forza tra le due compagini che si contendono il voto del residuale elettorato della cosiddetta sinistra radicale si era leggermente modificato a favore di Potere al Popolo che si attestava stabilmente sopra al 2% in uno dei sondaggi più popolari (quello del TG di La7) e, più esattamente, al 2,5% nell’ultima rilevazione disponibile.

Va da sé che il problema politico della sinistra italiana dell’ultimo decennio, al momento, è e resta questo: l’incapacità di uscire dal recinto del voto militante e fidelizzato.

Alcuni — incluso il sottoscritto — ritengono conseguentemente che le due condizioni necessarie (ma non automaticamente sufficienti) per provare a invertire questa tendenza siano queste:

  1. spezzare la coazione a ripetere all’infinito sempre lo stesso schema e le stesse infinite discussioni su come unire la sinistra sotto elezioni, per poi regolarmente tornare a dividersi il giorno dopo il voto;
  2. definire il contenuto programmatico del progetto politico e quindi scegliere un nome, un simbolo e una nuova e diversa rappresentanza per provare finalmente a riconnettersi innanzi tutto con l’elettorato non votante (perché una nuova proposta politica deve cercare in primo luogo di rappresentare chi non vota più, in quanto non si sente rappresentato da nessuna delle forze politiche già esistenti) e, secondariamente, con l’elettorato fluido che negli ultimi anni ha cambiato più volte orientamento, spezzando in particolar modo lo schema bipolare e portando in poco tempo il neonato terzo polo (ovvero il M5S) ad essere il primo partito, con quasi un terzo dei consensi dell’elettorato votante.

Potere al popolo, in linea di principio, nasce come progetto politico che non solo soddisfa queste due condizioni minimali, ma addirittura dà una lettura ancora più ambiziosa al punto 2, puntando alla ricostruzione di un blocco sociale di classe, in senso marxiano, che si propone dunque di rappresentare l’intera classe degli sfruttati contro quella degli sfruttatori.

Classe dominante, quest’ultima, che è largamente minoritaria in ogni società capitalistica e che, tuttavia, può contare sempre su ampie masse di fiancheggiatori — masse incoscienti, in senso leninista — nella classe sfruttata, i quali erroneamente identificano i propri interessi con quelli di chi li usa strutturalmente per arricchirsi e realizzare equilibri sociali in cui non solo non vi è un benessere diffuso, ma si porta a compimento un lento ed inesorabile abbattimento degli equilibri biofisici del pianeta.

I sempre più devastanti e frequenti eventi meteorologici che si producono, ad esito del cambiamento climatico, rappresentano infatti un campanello d’allarme che dovrebbe quanto prima favorire una urgente presa di coscienza, diffusa e generalizzata, della portata epocale del problema da affrontare.

Le sfide che attendono il nuovo soggetto politico sono pertanto assai impegnative e quasi proibitive, in un contesto sociale largamente e profondamente egemonizzato dalla cultura padronale dominante.

A fronte di sfide di questo livello occorrerebbe, come minimo, una piena e convinta unità di intenti nell’ambito della piccola comunità che prova a organizzare il conflitto e a fargli (ri)assumere una dimensione di massa.

I sette mesi di discussione sul modello statutario, il crescendo di accuse reciproche e la recente (e tutt’altro che imprevedibile) rottura finale tra area movimentista e componenti partitiche hanno invece trasparentemente fatto emergere una diversità di vedute di fondo dentro PaP, sulla natura stessa del progetto politico che non era affatto componibile in via compromissoria:

«Lo statuto 1 e lo statuto 2 alludono a due diversi modi di concepire la costruzione di un movimento popolare:

il primo in netta discontinuità con la sinistra del passato, indipendente dalle organizzazioni esistenti, che si rivolge direttamente al blocco sociale;

il secondo invece più simile a un intergruppo, con forme tradizionali dei partiti quale assemblea dei delegati, coordinatori ai diversi livelli etc
(salvo poi paradossalmente limitare la sovranità dell’organizzazione introducendo un meccanismo di 2/3 che rischia di paralizzarci: qui purtroppo credo pesi l’interesse immediato delle Europee e quindi la voglia di Rifondazione di avere mano libera per fare il “quarto polo” a ogni costo).

Questo dunque il punto politico.

Il primo statuto risente maggiormente delle sollecitazioni che arrivano da Podemos, France Insoumise, fa tesoro dell’esperienza dei 5 Stelle (che hanno tradito la voglia di partecipazione e la voglia di rottura del “sistema”), cerca soprattutto di parlare a chi non fa politica, a chi è deluso e non entrerebbe mai in un partito che non sia impostato intorno a principi di democrazia diretta.

Il secondo statuto invece parla più alla sinistra tradizionale, a un corpo militante che non trova particolarmente problematica la delega, che ha più difficoltà a capire le piattaforme etc.

I due statuti non vengono dal nulla ma riflettono un tema che si pone dalla nascita di Potere al Popolo e che si è riproposto sempre più insistentemente dopo le elezioni.

Non sono il frutto di un fraintendimento, ma di due culture politiche, persino due esperienze di vita diverse».

In altre parole, quale composizione di sintesi era mai possibile tra le posizioni di chi ritiene necessario chiudere la stagione dei cartelli elettorali usa e getta — che, come è evidente, non solo produce un’unità che è meramente transitoria e sostanzialmente fittizia, ma paradossalmente finisce al contrario per moltiplicare le sigle da mettere assieme di volta in volta — e chi, invece, è entrato in Potere al Popolo a fine 2017 per poi uscirne a distanza di dieci mesi, boicottando e contestando la votazione statutaria, e contestualmente invocando la formazione di una nuova lista unitaria, con le stesse componenti partitiche già presenti in PaP, un pezzo di LEU, due partiti personalistici e pure le due ultime liste unitarie, ma da considerare come soggetti autonomi, stavolta?

Piuttosto che dare continuità al percorso innovativo di Potere al Popolo, le componenti partitiche hanno scelto di puntare tutto su una sorta di Altra Europa 2, con de Magistris e Varoufakis al posto di Tsipras, ignorando le ragioni politiche che hanno portato alla rottura della precedente esperienza europea e che sono sostanzialmente le stesse per cui è naufragato il cosiddetto percorso unitario del Brancaccio nelle recenti elezioni politiche: si continua, cioè, a scomporre e ricomporre il fronte residuale e partitico della vecchia sinistra radicale invece di provare a lavorare stabilmente e continuativamente su un nuovo e diverso progetto politico.

La scelta astensionista per le imminenti elezioni europee, accompagnata da un serio lavoro di consolidamento per uscire finalmente dal recinto e dare rappresentanza, con PaP, a un nuovo e più ampio blocco sociale

https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=E&dtel=07/06/2009&tpa=Y&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

A questo punto, tre sono le strade che Potere al Popolo può decidere di seguire, a pochi mesi dal voto per le Europee 2019, previsto per domenica 25 maggio:

  1. aderire al solito cartello elettorale che verrà messo in campo, come sempre, sotto elezioni, per poi sciogliersi — presumibilmente e salvo clamorose e sorprendenti inversioni di tendenza — poco dopo il voto;
  2. andare al voto col proprio nome e col proprio simbolo — confidando nel fatto che almeno la controversia legale sull’uso del contrassegno ci verrà risparmiata — per sfidare le componenti partitiche e il cartello elettorale ancora in fase di costruzione, provando a giocare d’anticipo e scommettendo sulla validità di un progetto politico che punta sulla continuità piuttosto che sui soliti rituali di composizione e scomposizione già visti e rivisti più e più volte;
  3. rinunciare ad avere subito una propria rappresentanza eletta nel parlamento europeo — istituzione, tra l’altro, dai poteri assai limitati, come è noto — rifiutando allo stesso tempo sia la logica del cartello elettorale, sia quella dello scontro tutto interno al recinto della militanza e dell’elettorato fidelizzato e residuale della vecchia sinistra radicale, per costruire invece una più solida proposta politica in grado di dare ampia rappresentanza a un nuovo e assai più vasto blocco sociale.

Fermo restando che la scelta verrà fatta dalla comunità di Potere al Popolo mediante le proprie strutture deliberative, sulla scorta dello Statuto recentemente approvato, l’auspicio è che nessuno prenda seriamente in considerazione l’ipotesi di entrare nell’ennesimo cartello elettorale dell’ultimo minuto (vero e proprio suicidio politico) e che, tra le due strade più percorribili, alla fine, si scelga quella che è la più ragionevole, per i motivi che qui cercherò di esporre, offrendoli alla riflessione collettiva e al dibattito tra tutte le compagne e i compagni aderenti che ancora credono alla validità del percorso intrapreso.

La prima ragione è quella che ho già precedentemente accennato: per quanto i sondaggi siano promettenti e il trend di crescita di PaP sia netto e consolidato, è del tutto evidente che l’obiettivo di uscire dal recinto dell’elettorato residuale della vecchia sinistra radicale è ancora assai lontano e, qui e ora, si tratta di provare in pochi mesi a raddoppiare i consensi rispetto a quanto attestato dai sondaggi e a quadruplicarli rispetto a quanto certificato dal voto del 4 marzo scorso.

È appena il caso di ricordare infatti che la soglia di sbarramento per eleggere alle Europee è del 4%: ciò che — unitamente al meccanismo di voto (proporzionale con preferenze) — ha spinto verosimilmente la vecchia dirigenza di SEL, ora in larga misura confluita in SI, ad abbandonare LEU per andare a ricomporre, a cinque anni esatti di distanza, lo schema Altra Europa: qui, il testo integrale del documento approvato dall’Assemblea Nazionale di Sinistra Italiana il 27 ottobre scorso.

D’altra parte, sia la segreteria di rifondazione (prima Ferrero e poi Acerbo) che quella ex SEL, ora SI (prima Vendola e poi Fratoianni) hanno ben impresso il ricordo delle Europee di dieci anni fa, con la vittoria di misura della lista unitaria PdRC/PdCI su SEL e con entrambe le compagini che restarono, però, sotto lo sbarramento del 4% e quindi fuori dall’europarlamento.

Ecco: la seconda ragione per astenersi è appunto quella di non ritrovarsi a dover fare una campagna elettorale che acuisca ulteriormente un clima già esasperato, dopo mesi di confronto all’insegna di un conflitto asprissimo, per poi, eventualmente, ritrovarsi con due liste che sfiorano ma non raggiungono il 4% e con i conseguenti scambi di accuse reciproche, per la doppia sconfitta, nei mesi a seguire.

Meglio, molto meglio, lasciare il campo ai teorici del cartello elettorale permanente, prendendo nettamente le distanze da questo modo di procedere, ma lasciando che sia l’elettorato a decidere se dare o meno fiducia a operazioni che non hanno mai convinto negli ultimi dieci anni, finendo, anzi, sempre con ottenere risultati inferiori anche alla mera somma del potenziale di ciascun singolo componente.

Altro elemento che chi, come il sottoscritto, partecipò alla sfibrante opera di raccolta delle firme per Altra Europa, cinque anni fa, dovrebbe ricordare molto bene è che non è sufficiente raccogliere 150mila firme per presentarsi alle elezioni europee, ma è necessario anche che per ciascuna delle regioni italiane si raccolgano almeno 3mila firme — in Val d’Aosta si tratta del 3% dell’intero corpo elettorale, per intenderci: circa il doppio dei voti che PaP ha preso in quella regione il 4 marzo scorso — e 30mila per ciascuna delle cinque circoscrizioni.

Ma molto più di queste tre ragioni pratiche contano le ragioni e gli ideali che sono stati messi nero su bianco nel manifesto fondativo, e che giova riprendere ancora una volta per esteso:

«Abbiamo deciso di candidarci facendo tutto al contrario.

Partendo dal basso, da una rete di assemblee territoriali in cui ci si possa incontrare, conoscere, unire, definire i nostri obiettivi in un programma condiviso.

Vogliamo scegliere insieme persone degne, determinate, che siano in grado di far sentire una voce di protesta, che abbiano una storia credibile di lotta e impegno, che rompano l’intreccio di affari, criminalità, clientele, privilegi, corruzione.

Potere al Popolo significa costruire democrazia reale attraverso le pratiche quotidiane, le esperienze di autogoverno, la socializzazione dei saperi, la partecipazione popolare.

Per noi le prossime elezioni non sono un fine bensì un mezzo attraverso il quale uscire dall’isolamento e dalla frammentazione, uno strumento per far sentire la voce di chi resiste, e generare un movimento che metta al centro realmente i nostri bisogni.

Un movimento di lavoratrici e lavoratori, di giovani, disoccupati e pensionati, di competenze messe al servizio della comunità, di persone impegnate in associazioni, comitati territoriali, esperienze civiche, di attivisti e militanti, che coinvolga partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale e politica, antiliberista e anticapitalista, comunista, socialista, ambientalista, femminista, laica, pacifista, libertaria, meridionalista che in questi anni sono stati all’opposizione e non si sono arresi.

La televisione chiama “sinistra” un ceto politico che ha fatto politiche antipopolari indistinguibili dalla destra.

Noi vogliamo unire la sinistra reale, quella invisibile ai media, che vive nei conflitti sociali, nella resistenza sui luoghi di lavoro, nelle lotte, nei movimenti contro il razzismo, per la democrazia, i beni comuni, la giustizia sociale, la solidarietà e la pace.

(…)

Non stiamo semplicemente costruendo una lista, ma un movimento popolare che lavori per un’alternativa di società ben oltre le elezioni».

I fatti di questi ultimi mesi hanno dimostrato che il coinvolgimento dei partiti nel progetto è stato un boomerang.

Ma se è vero che le elezioni per PaP «non sono un fine bensì un mezzo» e che lo scopo non era certo quello di costruire il solito cartello elettorale «ma un movimento popolare che lavori per un’alternativa di società ben oltre le elezioni».

Beh, se è vero tutto questo, e nella prospettiva di lavorare al progetto «facendo tutto al contrario», allora questo è il momento di capovolgere il noto motto di Lenin e di fare un passo indietro, per poterne poi fare due in avanti:

«Abbiamo già molte conquiste al nostro attivo; dobbiamo ora continuare la lotta, senza scoraggiarci per gli insuccessi».

Solo il tempo saprà dirci, in questa fase così travagliata, chi è che aveva davvero visto giusto e chi no.

Ma i prossimi mesi sarebbe molto meglio dedicarli all’organizzazione piuttosto che a una campagna elettorale lacerante in cui Potere al Popolo, come progetto politico, ha oggettivamente molto più da perdere che da guadagnare.

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Giuseppe D'Elia

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta