The 52-Week Writing Challenge #5

Thengglam
3 min readFeb 5, 2017

In questa settimana appena trascorsa mi sono sentita abbandonata e stupida: abbandonata dalla mia rete virtuale di conoscenze e stupida perché incapace di sentirmi a mio agio in un luogo pieno di persone reali.

C’è chi sta in una città del Nord all’università, magari sostenendo un esame o lavorando alacremente nel suo giardino o magari sta solo dormendo perché ancora se ne può permettere il lusso.

C’è chi sta in una città del Sud, che si impegna ogni giorno per realizzare il proprio grande progetto.

C’è chi sta in un altro paese dell’Europa, in un altro continente.

Per quanto profonde possano essere considerate delle conversazioni via WEB, per quanto ci illudiamo reciprocamente di capirci, di comprenderci, la lontananza, la mancanza del contatto fisico, dalla mimica del viso, della gestualità rende qualsiasi comunicazione priva della “prova del nove”, ovvero la possibilità di cogliere la trasparenza oppure la malizia fra te e il tuo interlocutore.

In cinque anni da madre non avevo mai partecipato ad una festa di compleanno di un bambino, men che meno messo piede in uno di quei surrogati di parco giochi.

Pensando alla mia infanzia passata al mare e con una genitrice che pochi anni prima aveva deciso di lasciare il suo lavoro da insegnante per fare la casalinga a tempo pieno, ritengo che i bambini che vivono al Nord, crescano in cattività, nelle loro gabbie dorate, che sanno di PVC, colori fluorescenti che risultano tali perché baciati dalla luce dei neon e non dai raggi di sole.

Tornando al mio sabato in mezzo alle persone reali, ricordo solo confusione, musica assordante, minorenni al di sotto dei 10 anni che cantano a profusione “Andiamo a comandare” di Rovazzi, una sensazione di disagio, di ansia, quasi un attacco di agorafobia.

Avevo provato la stessa sensazione quasi un anno prima, ovvero l’ultima volta che ho portato mio figlio al parco. Era Aprile, la scuola materna era in chiusura, sono stata costretta a chiedere un giorno di ferie. L’ho portato al parco. Non sapevo come vestirlo, se troppo leggero o troppo pesante, se avessi dovuto portare con me un asciugamano, oltre a dei fazzolettini, del disinfettante e che ne so magari un medico tascabile per ogni evenienza.

Nel parco c’erano delle panchine sulle quali si sedevano degli esseri superiori: le mamme full time o part time, quelle che sanno sempre tutto, quelle che fanno sempre la cosa giusta. Mi guardo intorno, non riconosco lo spazio che mi circonda, non conosco nessuno. Le altre mamme stanno in gruppetti da due o tre persone, si scambiano informazioni, magari si conoscono da tempo.

Completo smarrimento.

Sprofondo nuovamente nel mio mondo virtuale, un occhio e un dito sullo smartphone, un occhio e tutto il resto del corpo a cercare di prevedere le mosse del bambino.

Passa il tempo, comincia a diventare buio. Mi sbraccio per convincere mio figlio che è ora di tornare a casa. Gli altri bambini si dirigono spontaneamente verso l’uscita perché è la loro routine quotidiana.

Lo prendo per mano, lo trascino di peso, sono rossa, affannata, sudata. Ci infiliamo in macchina. Inizio a rimpiangere la mia giornata lavorativa.

E a rimpiangere la mia rete virtuale.

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Thengglam

Cerco un modo per scappare da una esistenza che mi sta stretta. Se non posso materialmente confido nei viaggi spazio temporali e nello stream of cousciusness.