“Non vi dico cosa hanno fatto a quel viso. Tutto il male del mondo si è riversato su Giulio”

Episodio 3: La “verità” su Giulio Regeni venduta su un piatto d’argento dall’Egitto. L’Italia: “Richiameremo l’ambasciatore italiano al Cairo”

Verità per Giulio
17 min readMar 29, 2016

(Episodi 123)

“Siamo feriti e amareggiati dall’ennesimo tentativo di depistaggio da parte delle autorità egiziane sulla barbara uccisione di nostro figlio Giulio che, esattamente due mesi fa, veniva rapito al Cairo e poi fatto ritrovare cadavere dopo otto giorni di tortura. Siamo certi della fermezza con la quale saprà reagire il nostro Governo a questa oltraggiosa messa in scena che peraltro è costata la vita a cinque persone, così come sappiamo che le istituzioni, la nostra procura e i singoli cittadini non ci lasceranno soli a chiedere e esigere verità” — scrive la famiglia di Giulio Regeni.

“Lo si deve non solo a Giulio ma alla dignità di questo Paese”.

Giulio Regeni era un ricercatore italiano di 28 anni, originario del piccolo comune di Fiumicello nella regione del Friuli Venezia-Giulia, stava svolgendo la tesi del dottorato per l’università di Cambridge al Cairo. Studiava i diritti dei lavoratori e i sindacati indipendenti dei venditori ambulanti, e raccoglieva le loro storie. Era il 25 gennaio, il quinto anniversario della “primavera araba” in Egitto quando è stato rapito. Il 3 febbraio, il suo cadavere è stato ritrovato in uno sterrato di Giza. Lo avevano torturato per giorni, prima di ucciderlo con un colpo alla nuca.

A due mesi dalla scomparsa, il 25 marzo il ministero degli Interni egiziano ha pubblicato sulla sua pagina Facebook le foto del passaporto del ricercatore. Per annunciare che le forze di sicurezza avevano ucciso alla periferia di Cairo Est cinque componenti di una banda di criminali che “sequestravano stranieri per derubarli, camuffati da poliziotti”. “Al momento dell’arresto, tentato nella zona della New Cairo-5th Settlement, c’è stato uno scontro a fuoco e tutti i componenti della banda sono rimasti uccisi”. A casa di un componente della banda, le forze di sicurezza avrebbero trovato i documenti di Giulio dentro una borsa rossa con la scritta Italia.

I siti di due giornali Al Masry Al Youm e Al Shourouk, avevano smentito da subito il legame della banda di criminali con il caso di Giulio Regeni. Come aveva fatto anche il quotidiano filogovernativo Al-Ahram.

“Tarak non ha ucciso Giulio” ha dichiarato Mabrouka Ahmed Afif, la moglie di Tarek Abdel Fatah, il capobanda ucciso insieme a quattro complici al Cairo che secondo gli inquirenti egiziani sarebbero gli assassini di Giulio Regeni. Mabrouka Ahmed Afif e Rasha Saad Abdel Fatah, la sorella di Tarek, nelle dichiarazioni hanno smentito la tesi della Procura generale egiziana. Le notizie sono state diffuse dal sito del quotidiano Al Masry Al Youm che ha citato fonti investigative.

Nella deposizione, la moglie di Tarek racconta che suo marito “era entrato in possesso del borsone rosso con alcuni effetti personali di Regeni, tra cui il passaporto, solo cinque giorni prima”. Tarek, le avrebbe confidato che “la stessa borsa apparteneva a un suo amico”. La sorella dell’uomo, avrebbe raccontato inoltre che la borsa era stata portata a casa dal fratello di Tarek soltanto “il giorno prima della sua morte”.

La moglie del capobanda ha attribuito a suo marito anche i 15 grammi di hashish che il ministero dell’Interno egiziano aveva inserito nell’elenco degli oggetti appartenuti a Giulio Regeni. Vedere quei 15 grammi di fumo messi su un piatto d’argento accanto al passaporto del figlio, è stato come un colpo allo stomaco per la famiglia Regeni. Prima hanno torturato Giulio e poi il regime egiziano ha tentato di infangare il suo nome.

“Credo che il nostro sgomento sia quello dell’Italia intera, rispetto a infamanti depistaggi che si susseguono in questi giorni. La cosa che ci ha colpito di più è l’insulto, la mancanza di rispetto non solo nei confronti di Giulio ma di tutto il Paese, delle istituzioni, come se potessimo accontentarci di queste menzogne” — ha dichiarato in una intervista l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini.

Le due donne e il cognato di Tarek sono stati arrestati l’accusa di connivenza e occultamento di refurtiva perché erano a conoscenza delle attività di Tarek Abdel Fatah. La Procura di Shubra El-Khema, che per territorialità si occupa della banda, ha chiesto di unire i fascicoli dell’inchiesta con quella su Regeni.

Gli investigatori italiani sono stati informati dalla polizia egiziana dell’uccisione dei membri della banda durante un incontro al Cairo, ma al termine della riunione hanno espresso forti dubbi. Se lo scopo era una rapina, perché Giulio Regeni è stato rapito e torturato? Nel conto corrente del ricercatore non c’è traccia di prelevamenti o movimenti dal 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, e non nemmeno nei giorni successivi alla sua scomparsa. Il saldo del conto era di 850 euro.

Non è credibile che una banda di sequestratori e rapinatori abbia conservato per mesi passaporto e telefoni, con il rischio concreto di essere scoperti. Chiunque se ne sarebbe liberato all’istante. Il sospetto è che quei documenti siano stati conservati da qualcun altro per poi farli saltare fuori al momento più opportuno.

“La Procura di Roma ritiene che gli elementi finora comunicati dalla Procura egiziana al team di investigatori italiani presenti al Cairo non siano idonei per fare chiarezza sulla morte di Giulio Regeni e per identificare i responsabili dell’omicidio” — ha affermato il procuratore generale Giuseppe Pignatone. “Siamo in attesa che la Procura generale del Cairo trasmetta le informazioni e gli atti, da tempo richiesti e sollecitati, e altri che verranno richiesti al più presto in relazione a quanto prospettato ai nostri investigatori”.

Per fornire questa ricostruzione sul caso di Giulio Regeni, fasulla come le precedenti, hanno perso la vita cinque persone, messe a tacere in modo da non potersi più difendere.

Rabab al Mahdy, la professoressa dell’American University del Cairo che seguiva Giulio nella tesi di dottorato, ha scritto: “Triste, arrabbiata e senza parole per l’uccisione di cinque persone con il pretesto che abbiano assassinato Giulio. Questa triste fattispecie di governo decide semplicemente di uccidere ogni volta che viene messo spalle al muro”.

“L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo. Consideriamo un passo in avanti importante il fatto che le autorità egiziane abbiano accettato di collaborare e che i magistrati locali siano in coordinamento con i nostri. — potremo fermarci solo davanti alla verità. Non ci servirà a restituire Giulio alla sua vita. Ma lo dobbiamo a quella famiglia. E, se mi permettete, lo dobbiamo a tutti noi e alla nostra dignità”. Lo ha dichiarato, a seguito della diffusione delle foto dei documenti di Giulio Regeni, il presidente del consiglio Matteo Renzi.

“Questa menzogna e questa grottesca versione diffusa dal ministero degli Interni egiziano, ha costretto i genitori di Giulio Regeni e l’avvocato della famiglia a convocare oggi una conferenza stampa”, ha spiegato il presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi. La conferenza stampa della famiglia Regeni si è svolta il 29 marzo, nella sala caduti di Nassirya del Senato italiano.

La conferenza stampa della famiglia di Giulio Regeni

Il suo sguardo ricorda quello di Giulio. Claudio Regeni con una voce ferma e tenendo un foglio di appunti stretto nella mano, ha raccontato della vita e del percorso di studi del figlio davanti ai giornalisti. Anche se conteneva l’emozione, si percepiva quanto fosse fiero di lui. “A 12 anni, Giulio è diventato sindaco del suo paese, Fiumicello, è iniziato così il suo impegno civile. A 17 anni era in New Messico, negli Stati Uniti, a studiare in un college con gli studenti da tutte le parti del mondo, dove ha imparato ad apprezzare il valore della diversità e dell’amicizia. All’università, era a Londra a studiare l’arabo”.

Gli amici di Giulio sono venuti dagli angoli più lontani del mondo il giorno dei funerali e abbiamo ricevuto in tutti questi giorni l’abbraccio dell’Italia intera.

La madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi, avvolta in una pashmina del colore giallo della campagna “Verità per Giulio”, si fa forza con la determinazione di una mamma che vuole scoprire quello che è accaduto al figlio. “Quello che è successo a Giulio, non è un caso isolato come è stato detto dal governo egiziano. È stato un caso di morbillo? Un’influenza che andava isolata, come forse le idee di mio fglio?” — ha detto Paola Deffendi durante la conferenza stampa.

Giulio era andato a fare ricerca. Era un ragazzo contemporaneo, invece è morto sotto tortura. Lo hanno ucciso e torturato.

Abbiamo educato i nostri figli perché si aprissero al mondo.

Lo hanno torturato e ucciso come un egiziano. Non era un giornalista, non era una spia, era un ragazzo che faceva ricerca. Era un ragazzo del futuro. Lui, come tanti altri, con la sua apertura al mondo”.

“Aveva quel bel viso, sempre sorridente, con uno sguardo aperto, con una postura aperta. L’ultima foto, scattata il 15 gennaio, era quella con la maglia verde scura e la camicia rossa. È l’ultima immagine che abbiamo di Giulio. Era una foto in cui era felice, con i suoi amici al Cairo. Era un giovane uomo, con un bel piatto di pesce davanti, che si divertiva”.

La foto di Giulio Regeni, scattata il giorno del suo compleanno al Cairo, il 15 gennaio 2016

“Io e Claudio abbiamo un’altra immagine di Giulio nella nostra testa, che cerchiamo di sovrapporre a quella fotografia. È l’immagine del volto di Giulio come ci è stato restituito dall’Egitto. Quel viso che era sorridente e solare, che abbiamo baciato e accarezzato, era diventato piccolo, piccolo, piccolo”.

Non vi dico cosa hanno fatto a quel viso. Ho visto il male. Tutto il male del mondo si è riversato su lui.

Era di colori che non vi dico. Forse, l’unica cosa che ho riconosciuto di lui è stato la punta del suo naso.

Quando siamo stati all’obitorio di Roma per riconoscerlo, era la prima volta che lo vedevo. Non lo avevamo visto in Egitto perché ci avevano detto di non farlo, ed eravamo così sconvolti che avevamo acconsentito. Non era più il nostro Giulio”.

“Quel Giulio non lo avremo più. Ma continuerò a dire sempre Verità per Giulio”.

“Tra i dolori necessari abbiamo pensato che questo non fosse necessario, che non fosse necessario mostrare le foto di Giulio. Per chi le ha viste, quelle immagini sono uno sprono innarrestabile a cercare la verità” ha detto l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. “Avevamo pensato di mostrare quelle immagini, perché dovevamo combatterne un’altra. Quel vassoio d’argento, in cui servono un’immagine ignobile di Giulio con elementi a tratti femminili, kitsch, grotteschi, con un pezzo di fumo, che forse non è fumo, chi lo sa — dall’esame tossicologico sappiamo che Giulio era pulito. Quello che sappiamo per certo, è che tutti gli elementi in quel vassoio, tranne i documenti di identità, non sono di Giulio. C’è forse un dubbio sull’appartenenza del portafoglio, non quello con la scritta Love”.

“Giulio era uno che indossava i vestiti del padre, per non gravare sul bilancio della famiglia”.

“Non abbiamo consegnato la foto di Giulio” in quelle condizioni, ha spiegato l’avvocato Ballerini, “perché la mobilitazione del Paese e le campagne sui social, e su tutti gli organi di stampa, hanno fatto in modo di provocare una piccola marcia indietro da parte del’Egitto sulla loro ultima versione”.

“È stato soltanto grazie alla mobilitazione del Paese per chiedere la verità. E speriamo che questa mobilitazione non smetta mai, perché non ce ne vendano un’altra di questa falsa pista”.

“È evidente che sia in atto, all’interno del sistema di potere del regime egiziano, uno scontro e che anche intorno alla vicenda di Giulio Regeni vi sono posizioni diverse, volontà diverse, purtroppo ciò che appare inequivocabile finora non è stato un orientamento che facesse prevalere la conquista della verità” — ha dichiarato il presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi.

“Penso si debba anche operare con una determinazione maggiore di quella finora adottata, che si debba porre con urgenza e tempi molto stretti, ed è questa la richiesta che faccio, la questione del richiamo in Italia del nostro ambasciatore in Egitto — richiamo non vuol dire ritiro, vuol dire richiamare il nostro ambasciatore per consultazioni”.

“Un gesto non solo simbolico, particolarmente intenso, per fare comprendere come il nostro Paese segue con la massima vigilianza e con la massima serietà, questo caso considerandolo elemento discriminante per le relazioni in corso e per quelle future tra l’Italia e l’Egitto. Così come io penso che sia necessario considerare le revisioni delle relazioni diplomatico consolari, fatte di molti rapporti e di molte convenzioni, tra il nostro Paese e l’Egitto”.

Sottolineo “l’urgenza, indifferibilità, l’indeludibilità, di atti concreti come quello che porterebbe l’unità di crisi della Farnesina a dichiarare l’Egitto Paese non sicuro, sulla scorta di quello che è accaduto a Giulio Regeni, e per quel rosario di persone sottoposte a tortura, a detenzione illegale, a violazione dei diritti fondamentali della persona, con effetti non insignificanti sui flussi turistici dall’Italia verso quel Paese”.

“Tutto questo all’interno di un quadro dove le relazioni di natura politica, istituzionale, economica, commerciale con l’Egitto non devono essere rotte, ma devono essere sottoposte a una revisione attenta e particolarmente approfondita. Perché riteniamo che nel sistema di relazione tra due Stati, in questo caso tra l’Italia e l’Egitto, la questione della tutela dei diritti fondamentali della persona non può rappresentare un accessorio secondario, un’appendice insignificante, ma rappresenta elemento fondativo di quello stesso sistema di rapporti” — Luigi Manconi.

Siamo arrivati al punto della fabbricazione di prove false. Dopo i tentativi di insabbiamento e di depistaggio sulla morte di Giulio Regeni, ci troviamo di fronte a un’altra impronta dell’azione dei servizi segreti in Egitto. Una situazione con cui gli egiziani devono fare i conti tutti i giorni. “La zona in cui è stato ritrovato Giulio, è molto controllata” — ha ricordato durante la conferenza stampa, non a caso, l’avvocato della famiglia Regeni.

Sarà per i golf resort e le sedi dei media ma nella zona di “Citta 6 Ottobre”, poco distante da luogo in cui è stato ritrovato il cadavere di Giulio Regeni, si trova la sede del Servizio investigativo per la sicurezza dello Stato, più nota con il nome in arabo di Amn al-Dawla. A seguito della primavera araba del 2001, la Amn al-Dawla ha cambiato nome diventando semplicemente la Homeland Security. La stessa agenzia a cui la società milanese Hacking Team ha venduto un potente software di spionaggio informatico — lo dimostrano dei documenti diffusi da WikiLeaks ma l’azienda italiana non ha mai voluto commentare la notizia.

La Homeland Security fa capo al ministero degli Interni egiziano, lo stesso ministero che ha diffuso su Facebook le foto del passaporto di Giulio Regeni e di quel borsone rosso.

“È necessario tenere strettamente collegata la storia di Giulio, il suo omicidio a seguito di tortura, con il contesto di sparizione sistematica che c’è in Egitto. Il ministro dell’Interno egiziano Magdi Abdel-Ghaffar è entrato in carica dal marzo 2015 e sotto il suo ministero i casi di tortura in Egitto sono aumentati esponenzialmente” — ha dichiarato durante la conferenza stampa Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia.

“I dati li fornisce la ong El Nadeem, che ora è minacciata di chiusura, il Centro per la riabilitazione per le vittime della tortura e della violenza, attivo dal 1993. Nel 2015, ci sono stati 464 casi documentati di sparizione forzata su carceri segrete e in basi militari. Ci sono stati 1176 casi tortura, cinquecento dei quali terminati con la morte della persona torturata. Nel 2016, un dato aggiornato ai primi due mesi, ci sono stati 88 casi di tortura, di cui 8 esito mortale. Nei giorni in cui Giulio spariva, altri due attivisti sparivano al Cairo, entrambi ritrovati morti con segni di tortura. Per il ministero dell’interno sono morti crivellati di colpi in uno scontro a fuoco tra bande criminali. È reale, alla luce delle circostanze in cui Giulio è scomparso ed è stato ritrovato Giulio, che sia l’ennesimo caso di una vittima di violazione dei diritti umani, in un paese in cui quelle violazioni sono all’ordine del giorno”.

S e si tratta di un omicidio di matrice politica, dietro cui si nasconde un mandante di Stato, l’assassinio e la tortura di Giulio Regeni non possono eludere il contesto geopolitico. E dai rapporti economici tra Italia e Egitto.

Nella ricostruzione del caso di Giulio, le date diventano fondamentali. Il 25 gennaio, Giulio Regeni veniva rapito al Cairo. Era la sera del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir dalla “primavera araba” del 2011. Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Giulio Regeni veniva ritrovato in uno sterrato di Giza, lo stesso giorno in cui il ministro italiano Federica Guidi era in visita al Cairo con un gruppo di impreditori italiani. In questo scenario, si deve inserire l’accordo dell’Italia con l’Egitto per lo sfruttamento del giacimento di gas di Zohr, reso pubblico in forma ufficiale il 21 febbraio con un comunicato stampa dell’Eni.

Il giacimento offshore chiamato Zhor in una zona di concessione dell’Eni nelle acque egiziane del Mediterraneo, ha riserve stimate a 850 miliardi di metri cubi di gas, abbastanza da trasformare lo scenario energetico del paese.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg di un giro di affari miliardario.

Non c’è soltanto l’Eni. Sono circa 130 le aziende italiane che operano in Egitto. C’è Edison con investimenti per due miliardi e Banca Intesa San Paolo, che nel 2006 ha comprato Bank of Alexandria per 1,6 miliardi di dollari. Ci sono le aziende Italcementi, Pirelli, Italgen, Danieli Techint, Gruppo Caltagirone, e molti altri. Imprese di servizi, impiantistica, trasporti e logistica. E poi c’è il turismo, con Alpitour e Valtour in testa. Ma senza dimenticare le armi.

L’Italia ha esportato fucile e carabine per 1.364.738 euro in Egitto. Sono dati da gennaio ad ottobre 2015. La cifra è dichiarata nel rapporto Istat sul commercio estero.

A questo punto, non possiamo fare a meno di chiederci: Qual è il ruolo dell’Italia dentro quel sistema? — scrive il regista e attivista Omar Robert Hamilton.

“L’Italia è stata, per decenni, la principale destinazione delle esportazioni egiziane. L’Italia mantiene nel paese attività per un valore di 2,6 miliardi di dollari, comprese partecipazioni importanti nel settore del petrolio e del gas, nell’industria del cemento, nelle banche e nei trasporti”.

“L’Italia vende all’Egitto armi, munizioni, e veicoli blindati destinati alla polizia. Nei cinque anni che hanno portato alla rivoluzione del 2011, l’Italia aveva venduto all’Egitto armi leggere e munizioni per un valore di 48 milioni di dollari. I camion della polizia che riempiono le strade di ogni città egiziana, che trasportano le forze antisommossa e che passano sopra i manifestanti sono prodotti da un’azienda italiana, la Iveco. Centinaia di migliaia di proiettili sparati contro i manifestanti possono essere ricondotti a una fabbrica italiana di armi, la Fiocchi”.

“Le armi, però, sono solo una piccola parte di questa storia. Le aziende italiane fanno soldi in tutto l’Egitto. Prendiamo il cemento, per esempio: l’industria del cemento egiziana è il settore con i più alti profitti in una economia-paese che sta crollando. Quando il patrimonio pubblico è stato svenduto a causa dell’agenda neoliberale di Mubarak, tre grandi società sono arrivate a dominare la scena della produzione del cemento egiziano, vale a dire la francese Lafarge, la messicana Cemex, e la italiana Italcementi. Queste società, messe assieme, godono di un monopolio che consente loro di applicare prezzi fissi con percentuali di profitto sbalorditive, rese possibili anche, tra le altre cose, da condizioni di lavoro criminali e dall’elettricità che viene sovvenzionata dal governo egiziano”.

“Imprese come Italcementi fanno affidamento sull’apparato di sicurezza dell’Egitto per mantenere forte quel vantaggio competitivo. Se non fosse per il pugno di ferro dei servizi di sicurezza, se non fosse per la loro repressione della protesta, del dissenso, dell’attivismo sindacale quegli alti margini di profitto non potrebbe mai essere sostenibili. Jack Shenker descrive la storia della Italcementi in Egitto nel suo nuovo libro intitolato Egyptians: a radical history”.

“La mastodontica Helwan Cement Company fu fondata nel 1929 con un decreto reale. Nel 2001 è stata acquistata per una quota da un società svizzera di management e consulenza, che successivamente è stata sostituita dalla più grande società di investimento privato della regione, prima di essere acquistata dalla sussidiaria francese di una multinazionale italiana, che continua a gestire l’impianto ancora oggi. I nuovi proprietari hanno approfittato della riforma della legislazione sul lavoro in Egitto, imposta dalle pressioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che ha consentito ai dirigenti di mettere i lavoratori sotto contratto temporaneo virtualmente senza indennità né assicurazione. Contratti che potevano essere rinnovati per un tempo indefinito. Nel 2007 un centinaio circa di lavoratori che erano stati impiegati continuativamente per più di cinque anni attraverso questo tipo di contratti temporanei sono stati licenziati senza preavviso. La loro richiesta di parlare al direttore non è stata accolta, e sono stati messi fuori dai cancelli della fabbrica. Un leader sindacale locale ha detto che la decisione avrebbe ‘privato centinaia di famiglie dell’unica fonte di reddito’. Quell’anno, la società madre della Helwan Cement, e cioè la Italcementi, che ha la sua sede a 1600 km di distanza a Bergamo, ha avuto un utile netto di 613 milioni di euro”.

Giulio Regeni era andato in Egitto per fare ricerca sui movimenti sindacali indipendenti. Nel suo ultimo articolo, aveva discusso della “ondata massiccia di privatizzazioni durante l’ultimo periodo dell’era Mubarak” e di come la politica del regime di Al Sisi fosse “un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali” — prosegue Omar Robert Hamilton. Aveva lodato “i sindacati indipendenti, che rifiutano di arrendersi” e “il loro coraggioso mettere in dubbio la retorica che il regime usa per giustificare la sua stessa esistenza”. E quindi dobbiamo anche mettere in discussione la retorica del regime internazionale, mettere in cima alle nostre discussioni le modalità secondo le quali paesi economicamente rilevanti come l’Italia traggono benefici dal mantenimento di regimi dittatoriali degli Stati clientes, per sfruttare meglio le loro risorse naturali e il lavoro. Le elite affaristiche locali e le aziende internazionali raggiungono profitti astronomici mentre i servizi di sicurezza reprimono l’opposizione interna. Quella stessa repressione che ha incluso per lungo tempo la tortura e l’uccisione di attivisti sindacali, e che ha incluso anche Giulio”.

I veri responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni nel frattempo sono ancora in libertà. Al sicuro dietro il sistema di impunità del regime egiziano. Di certo i media filogovernativi non ne parlano ma una delle piste principali secondo alcuni reporter egiziani e altre fonti, sarebbe quella della possibile ritorsione da parte di un dirigente del sindacato e degli ambulanti di Cairo Est nei confronti di Giulio Regeni. Giulio era in contatto con i sindacati indipendenti dei venditori ambulanti al Cairo. Quei venditori che sono sempre per strada, tra cui si nascondono spesso informatori della polizia e infiltrati dei servizi di sicurezza.

Avrebbero incastrato Giulio, facendo in modo di metterlo nelle mani dei servizi segreti quella sera del 25 gennaio. Dato il profilo del ricercatore, l’intento era farlo passare per un analista dei servizi stranieri o un sabotatore del regime. Tutto per quelle 10 mila sterline di un bando, che Giulio voleva usare per aiutare i venditori ambulanti del Cairo. Ma voleva farlo senza che interferisse Mohammed Abdullah, il dirigente del sindacato degli ambulanti di Cairo Est.

Il sindacalista, aveva dichiarato in una intervista al quotidiano Al Masry Al Youm: “Prima che Giulio partisse per la pausa natalizia mi aveva avvicinato parlando di un progetto per noi ambulanti con una organizzazione britannica. Da quel momento ho iniziato a diffidare di lui. Ho cominciato a stargli alla larga, non mi sentivo a mio agio con lui”.

Per quale motivo non si indaga in modo approfondito questa pista? Perché non ci sono notizie dall’Egitto, riguardo alle posizioni di questi soggetti coinvolti nel caso?

Domande a cui potrebbe dare una risposta l’incontro del 5 aprile, data in cui sono attesi gli investigatori della polizia egiziana a Roma per una riunione con gli investigatori italiani.

La foto pubblicata online il 25 marzo da Irene Regeni, la sorella di Giulio Regeni

“Giulio doveva tornare a casa il 23 marzo ma non tornerà mai più” ha scritto la madre di Giulio Regeni. Sono domande a cui serve dare una risposta, per questo motivo. Per una famiglia a cui è stato ucciso e torturato un figlio. Per un intero Paese che si è mobilito. Per tutte le vittime di tortura e sparizione forzata in Egitto. Lo chiedono gli sguardi determinati della famiglia Regeni a scoprire la verità, in questa foto pubblicata online il 25 marzo da Irene Regeni, la sorella di Giulio. Nella fotografia, la mamma e il papà di Giulio, Claudio Regeni e Paola Deffendi, con la sorella Irene tengono in mano uno striscione per non smettere di chiedere “Verità per Giulio Regeni”.

(Questo articolo è stato scritto da Martino Galliolo, in collaborazione con Verità per Giulio reporting team)

Leggi la puntata percedente. Parte 2:

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