Essere uno sviluppatore in Italia fa schifo — Parte 2

Roberto Mossetto
Blue Partners
Published in
10 min readMar 9, 2018

Terzo appuntamento con la ricerca più improbabile degli ultimi anni sulla situazione degli sviluppatori italiani: oggi parleremo di gender gap, cioè le differenze di condizione fra uomini e donne in questo mestiere.

La vicinanza con la data dell’8 marzo è abbastanza casuale; in realtà era un approfondimento programmato da tempo ma poi il karma ha voluto insegnarmi una grande lezione: mai rimandare un backup online di un file su cui stai lavorando da mesi 🤬

Il mio vecchio portatile ha infatti deciso di friggersi all’improvviso (credo nel vero senso della parola perché non emanava un buon odore) portandosi con sé tutto il lavoro fatto in precedenza.

Nessuno ne farà una questione di Stato, anche perché molti stanno ancora discutendo sui primi due articoli che — volutamente — contenevano i temi più caldi: soldi e formazione. Se non li avete ancora visti:

L’obiettivo di questo nuovo articolo è, come sempre, riportare alcuni insight emersi dal questionario su uno specifico argomento con la possibilità di stimolare un dibattito a tal proposito.

Ovviamente ho perso anche il file che usavo per la cover image degli articoli e non ho minimamente idea di quale font stessi usando per scrivere il sottotitolo: quelli che nel curriculum scrivono di essere “detail-oriented” avranno probabilmente un calo di pressione nel vedere che sto usando un font diverso dal passato; gli altri probabilmente non ci faranno nemmeno caso.

Questa analisi non parte proprio benissimo, poiché tra tutti i partecipanti alla survey il numero di donne è inferiore al 5%.

Non nascondo di aver avuto qualche perplessità sull’effettiva utilità di questo post perché, come sappiamo più o meno tutti e come si è visto nei post precedenti, un campione statistico relativamente piccolo porta a risultati non sempre attendibili. Tuttavia, come già fatto in altri casi, ho deciso di riportare il dato oggettivo che emerge dal questionario e poi di provare a dare una chiave di lettura liberamente accettabile e personalizzabile.

Per non sembrare proprio un pazzo, ho anche voluto fare una prova empirica con altri “campioni” a mia disposizione:

  • il database di Jaguar28 dove il numero di donne iscritte è pari al 3.2%
  • la mega survey di Stack Overflow che riporta, a livello globale, il 7.6% di professioniste donne nella ricerca 2017 e il 5.8% nel 2016

Ci sono anche altri articoli e paper accademici che più o meno confermano una soglia inferiore al 10% (tipo questo, di cui ho trovato un estratto online). Esistono anche report che parlano di numeri mooolto più alti in tema di Women in Tech (qualcosa come il 30–40%) ma sono abbastanza convinto che si riferiscano al concetto di “tech” come settore, quindi tutte le donne che lavorano in aziende tecnologiche anche in funzioni extra IT.

Diciamo quindi che il campione emerso da questa survey non è totalmente randomico rispetto alla realtà. Da parte mia ho inoltre cercato di entrare in contatto con iniziative, associazioni e meetup focalizzati sull’avvicinare maggiormente le donne al mondo dell’IT: tuttavia, se devo essere sincero, il feedback che ho ricevuto non è mai stato troppo esaltante.

Il 4.7% di risposte da parte di professioniste donne è quindi il risultato di quella che potrebbe essere l’effettiva distribuzione sui principali gruppi facebook, canali Slack e community su LinkedIn:

Ho anche inserito come opzione un politically-correct “Preferisco non dichiarare” che ha raccolto un 1% tondo tondo. Non saprei bene come e dove collocarlo ma ho notato che molte delle risposte “burlone” coincidono con chi ha scelto questa opzione. Alla luce della sua scarsa rilevanza credo quindi sia accettabile escluderlo da ulteriori approfondimenti.

Passiamo ordunque all’analisi vera e propria, tenendo sempre a mente che parliamo di un campione abbastanza piccolo che potrebbe soffrire di poca solidità statistica.

Seguendo l’ormai consueta e notissima abitudine, ho voluto immediatamente raccogliere in un’unica tabella le macro aree di riferimento su cui — secondo me — è possibile valutare la situazione lavorativa attuale di una persona.

A parità di condizioni sulla maggior parte degli elementi, ci sono 3 voci in cui il gap è molto elevato e meritevole di approfondimento:

  • il salario
  • il titolo di studio
  • il lavoro all’estero

In termini di età anagrafica e seniority professionale abbiamo una differenza irrisoria: circa 1–1.5 anni in più a favore degli uomini. Tuttavia il delta salariale è enorme: circa 8 mila euro di differenza.

Questo dato assume una connotazione ancora più preoccupante se lo si confronta con i titoli di studio: mentre gli uomini con una laurea o titoli superiori si fermano al 60%, le donne superano il 75%. Quindi, nonostante una preparazione accademica più diffusa, questo aspetto non viene premiato dall’azienda.

Che sia legato alla quantità di professionisti che lavorano all’estero? In parte potrebbe essere così.

Gli uomini che decidono di lasciare il suo italico sono in proporzione il doppio delle donne, quindi sono in grado di portare all’interno del conteggio un maggior numero di stipendi “stranieri” (che, ricordiamo dagli articoli passati, sono spesso e volentieri 1.5–2 volte quelli nostrani).

Sempre in questo perimetro è interessante considerare la seniority/età degli expat. Lo sviluppatore uomo che va all’estero ha quasi 10 anni di seniority (9.95 per essere precisi) e sulla carta di identità ne segna poco più di 34; la donna invece è più giovane (28 anni circa) e meno senior (4.6 anni di esperienza).

Ci troviamo quindi in una situazione in cui le donne decidono di espatriare molto prima degli uomini ma, di conseguenza, si ritrovano con ruoli meno senior e dunque meno retribuiti.

E se invece andassimo a guardare la distribuzione geografica dei professionisti? Sempre negli articoli precedenti abbiamo compreso il gap abbastanza elevato fra nord e sud quindi si potrebbe ipotizzare una maggior presenza di professioniste donne nel sud Italia che abbassa la media globale.

Sembrerebbe di no. Tralasciando il mio dubbio gusto estetico in termini di scelta dei colori — soprattutto per grafici che dovrebbero rappresentare lo stesso tipo di dato — si nota facilmente che le regioni più rappresentate sono Lombardia e Piemonte in entrambi i casi.

Forse però abbiamo la prima situazione in cui i casi limite vanno ad influenzare il valore medio.

Guardate la Campania: il peso di questa regione per le donne è quasi il doppio rispetto agli uomini. La Campania, sempre riprendendo i dati degli altri articoli, è tra le ultime in classifica in termini di salari quindi c’è una possibile influenza negativa.

Stesso discorso, ma al contrario, per Veneto ed Emilia-Romagna: qui gli stipendi sono nella parte alta della classifica ma il loro peso nella distribuzione tra le donne è nettamente inferiore rispetto al dato rilevato per gli uomini.

Rapida precisazione: con queste riflessioni non sto facendo campanilismo dicendo che una regione è meglio dell’altra; piuttosto sto cercando tutte le possibili cause esogene che potrebbero motivare il gap salariale di 8 mila euro visto prima. Non è semplice riuscire a scrivere queste informazioni con un tono completamente neutro, ma ci provo 😉

La situazione non cambia se proviamo ad analizzare la dimensione delle aziende in cui i professionisti lavorano. Questo è un dato nuovo, che non ho ancora analizzato in altri post: qui vi do un’anteprima, ma come potrete facilmente intuire indaga la dimensione dell’azienda con cui l’intervistato sta collaborando come dipendente o come freelance.

Il buonsenso — ma anche i primi numeri che ho iniziato a ricalcolare dopo la grave perdita del file originale — ci dicono che le aziende piccole pagano meno di quelle grandi.

Non è sempre vero: ci sono startup particolarmente di successo che con 20 dipendenti pagano più del colosso multinazionale con 800 uffici, tuttavia si può dire che solitamente c’è una piccola correlazione positiva fra livello medio dei salari e dimensione dell’azienda.

In questo caso mi sono chiesto: è possibile che il gap sia causato da una situazione in cui le donne lavorano principalmente in micro aziende mentre gli uomini trovano lavoro nei grandi colossi?

Numeri alla mano, direi di no.

Tralasciamo nuovamente le infelici scelte cromatiche e focalizziamoci sui segmenti: le micro aziende (sotto i 10 dipendenti) danno lavoro a quasi il 25% degli uomini mentre si fermano al 17% delle donne. Le piccole imprese (fino a 50 dipendenti) invece coprono il 27% degli uomini e il 32% delle donne.

Siamo quindi in una situazione dove metà della forza lavoro in ambito IT è impiegata da aziende sotto i 50 dipendenti: per gli uomini parliamo del 52%, per le donne del 49%.

E’ una situazione che rispecchia abbastanza fedelmente lo scenario italiano, dove le PMI (società con meno di 250 dipendenti) rappresentano il 99% del tessuto economico nazionale e di queste il 95% conta meno di 10 dipendenti (qui un articolo molto interessante sull’argomento, se vi ho incuriosito).

Dunque, anche in questo caso, il gap non è giustificato dalle possibili diverse dimensioni dei datori di lavoro.

Rimangono esclusi da questa indagine due aspetti che secondo me potrebbero essere interessanti per chi vuole approfondire la questione del gender gap in maniera autonoma: la frequenza di cambio e il monte ore settimanale.

Sono due aspetti che ho riscontrato in maniera empirica nel mio lavoro ma che poi ho dimenticato di “tradurre” all’interno della survey. Non credo sposteranno di molto l’ago della bilancia ma secondo me meritano un approfondimento.

Il primo riguarda la frequenza con cui un professionista cambia azienda, possibilmente ottenendo un piccolo incremento del proprio salario. Nella mia esperienza ho notato che le professioniste donne tendono ad essere più “fedeli” alla propria azienda, cambiando lavoro con frequenza minore. Per gli uomini, togliendo alcuni casi isolati che passano 20 anni nella stessa realtà, il cambio avviene con regolarità ogni 3–4 anni.

Io purtroppo non so dire se questa mia impressione è confermata dalla survey perché non ho previsto domande del tipo “Da quanti anni ti trovi nella tua attuale azienda?” oppure “Quante aziende hai cambiato nella tua carriera?”, ma se qualcuno volesse fare qualche esperimento con i propri contatti (magari su LinkedIn) credo possano essere due indicatori da tenere d’occhio.

Perché cito questa cosa? Perché non è affatto raro trovare persone che a parità di seniority prendono due stipendi profondamente diversi: il primo magari ha cambiato regolarmente azienda e aggiornato con coerenza le proprie skills rispetto ai trend di mercato; il secondo magari è nella stessa azienda dove ha iniziato il giorno dopo la laurea e fa ancora le stesse cose di allora ricevendo praticamente lo stesso stipendio.

Il secondo aspetto riguarda il monte ore delle professioniste donne. Ripeto: è un’intuizione che ho elaborato principalmente dalla mia esperienza professionale, attraverso la quale ho visto un trend emergente. Se poi dovessi fare una stima del peso di questa situazione, non credo si supererebbe il 5% dei casi ma questo è un altro discorso.

La situazione del monte ore la riassumo più o meno così: un numero crescente di professioniste donne negozia condizioni contrattuali con meno ore a settimana (full-time a 35 ore oppure direttamente part-time) per poter gestire più serenamente la propria situazione famigliare (magari in concomitanza con la nascita di un figlio). Ovviamente ne consegue che anche lo stipendio subisce una rivisitazione verso il basso.

Anche in questo caso, non ho fatto domande come “Lavori part-time o full-time?” che sicuramente mi avrebbero dato un’idea più coerente sulla possibile correlazione fra le due cose però, di nuovo, se volete fare questo esperimento tra i vostri contatti credo possa uscire un risultato interessante.

Poi, come si dice in inglese, c’è “un elefante nella stanza” che riguarda un fenomeno più esteso circa la disparità che colpisce molte donne nel mondo del lavoro ma sicuramente non sarà questo articolo a cambiare le cose.

Dalla survey esce un dato molto chiaro: quegli 8 mila euro che corrispondono ad un +30% in favore degli uomini. L’Italia in teoria dovrebbe essere uno dei paesi più virtuosi in questo campo (il gap dovrebbe essere sotto il 6% secondo una ricerca dell’OCSE) ma evidentemente c’è qualcosa che non torna.

Non sono in grado di dare una risposta a questa problematica (anche perché nessuno me lo ha chiesto e non è l’obiettivo di questo articolo) però spero di aver dato qualche spunto interessante su come impostare la propria carriera, sia come uomo che come donna, per aumentare le probabilità di ottenere salari competitivi in Italia e all’estero 👾

BONUS TRACK: per un confronto con un report molto interessante fatto negli USA, vi lascio questo link: The State of Women in Tech

Anche questo terzo episodio giunge al termine. Nel prossimo proverò ad analizzare la soddisfazione dei professionisti IT in termini di salario, condizioni di lavoro, rapporto con le aziende e con i recruiter.

Molte domande erano aperte quindi è stato un po’ complesso “tradurre” le risposte in cluster credibili e affini. Non prometto nulla, ma secondo me uscirà qualcosa di carino 😍

Se vuoi leggere le puntate precedenti, qui trovi la Parte 0 e l’indice generale.

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