Dovremmo fare Code for America anche qui…

ErikaMarconato
CivicHackingIT
9 min readMay 21, 2019

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Abbiamo fatto un po’ di domande a Matteo Fortini e Matteo Tempestini, due prolifici civic hacker italiani. Il 22 giugno includeremo questa intervista in un numero della newsletter con cui vorremmo cominciare a riflettere sul perché le “americanate” in Italia non funzionano.

Qualche tempo fa, abbiamo scritto un post sui miti da sfatare su Code for America, o meglio su alcuni errori o cose nebulose che sono state abbinate alla “narrazione” di Code for America in Italia. Secondo voi, li abbiamo inclusi tutti o ne abbiamo dimenticato qualcuno?

[Tempestini] Il vostro post mi è parso completo. Aggiungerei solo un altro mito: Code for America è solo per gli statunitensi (la community dà a tutti la possibilità di creare contatti e discutere dei progetti per replicarli ovunque, così come è possibile suggerire idee sviluppate fuori dagli Stati Uniti). Nei gruppi operativi, infatti, ci sono canali affiliati come Code for Europe o Code for Africa.

Di Code for Africa e di alcuni dei suoi progetti abbiamo parlato anche in una newsletter. Ogni volta che accenniamo a Code for America, soprattutto quando parliamo con persone che non sono perfettamente consapevoli di cos’è il civic hacking, il commento è sempre lo stesso: dovremmo farlo anche in Italia. Siccome l’avete detto anche voi, una volta nel passato lontano, vuoi raccontarci perché non ha funzionato?

[Fortini] Sì, lo ammetto, anche noi abbiamo provato a fondare un Code for America in Italia. Perché lo volevamo fare? Volevamo cercare soluzioni a problemi che impattano sulla società con strumenti il più possibile aperti, sia come software, che come dati. In più, cercavamo una struttura leggera, ma che potesse avere un minimo di autonomia finanziaria (in parole povere: un modo per riconoscere impegno, tempo e competenze, quando si va oltre al volontariato). Il primo problema sta proprio lì: abbiamo impostato i nostri tentativi come volontariato, non come inizio di un’impresa. Il che si è tradotto in due cose: carenza di tempo e mancanza di fondi, non avendo stimato né costi né ricavi.

C’è poi un problema di “concorrenza”: ci sono tante realtà che fanno cose simili, ed era necessario capire cosa ci distinguesse. Tentando di accedere o mettere in campo dei fondi pubblici, poi, ci si scontra con attori come università, enti di ricerca, altri “fornitori” che già lavorano con le pubbliche amministrazioni e altre associazioni che si vedono come possibili partner in progetti di questo tipo. Non è da sottovalutare nemmeno la Pubblica Amministrazione centrale, che interviene in modo direttivo su alcuni argomenti, rendendo, di fatto, impossibile l’innovazione spontanea. Infine, non si devono dimenticare gli attori economici di alto livello (grandi aziende e multinazionali americane, per nominarne un paio), interessati, se non a rispondere con i progetti, almeno a imporre le proprie soluzioni.

Una cosa che non avevamo considerato - e si è rivelata essere un altro vicolo cieco - è stata la possibilità di accedere a finanziamenti privati: in Italia, i fondi privati delle fondazioni vengono dedicati soprattutto alla cultura, alla salute, al benessere, al sociale, all’ambiente, ma non abbiamo trovato, nemmeno chiedendo in giro, alcun soggetto disposto a finanziare con un investimento consistente un lavoro legato al settore pubblico, ai dati aperti e al software libero. Ad esempio, la fondazione Nesta, che nella versione inglese ha un filone sulla Government Innovation, in Italia si è focalizzata su cultura, arte, educazione, salute e sulle comunità inclusive e sostenibili, ma non sulla collaborazione con la Pubblica Amministrazione.

[Tempestini] Secondo me, l’Italia avrebbe bisogno di Code for America nella misura in cui si vuol fare sistema e capitalizzare gli sforzi di miglioramento delle Pubbliche Amministrazioni attraverso la sperimentazione tecnologica. E ne avrebbe bisogno per riproporre soluzioni già sperimentate alle PA in difficoltà. E ne avrebbe bisogno per dare una veste a tutti quei cittadini che vogliono darsi da fare e dedicarsi a progetti di pubblica utilità. Questa, però, dovrebbe essere un’esigenza delle persone comuni, non solo dei nerd come me.

Creare qualcosa di simile a un Code for Italy sarebbe possibile, ma è altrettanto vero che il civic hacking — tramite progetti scalabili — può esistere ed essere utile anche senza questa sovrastruttura. Abbiamo davvero bisogno di un Code for Italy? Progetti come TerremotoCentroItalia, ad esempio, hanno avuto una valenza locale e nazionale senza che ci fosse un “ente” di questo tipo. E sono già riusabili da chiunque. Servirebbe comunque una comunità di persone che sponsorizzi questi progetti, li documenti, li scali, ci lavori e ne faccia capire l’utilità soprattutto per dimostrare che la tecnologia è di aiuto — e non di intralcio — alla risoluzione di alcuni problemi. Non è Code for America che fa la differenza, ma come i progetti sono coordinati.

La confusione tra civic hacking e consulenza agli enti pubblici è un’altra cosa che ha fatto fallire il nostro progetto.

Uno dei problemi principali che vediamo noi, rispetto alle realtà estere — soprattutto americane — è che le iniziative, anche istituzionali, attecchiscono a macchia di leopardo. Dando per scontato che questo è un elemento piuttosto tipico del civic hacking — che ha comunque una matrice fortemente territoriale, come si può bilanciare questa cosa con un’attitudine piuttosto centralizzante, come quella di Code for America?

[Tempestini] Non si bilancia. Si cerca di divulgare i progetti dimostrandone l’utilità: fare comunicazione sui progetti non è tempo buttato. L’Italia è piena di capitale umano, ossia persone che — per propria attitudine personale — vogliono contribuire a migliorare il Paese. Su queste persone, il nostro Paese basa già la risoluzione di tanti problemi. Sono queste persone che vanno intercettate perché sono quelle che hanno la capacità di arginare l’autoreferenzialità della tecnologia.

Gli enti pubblici italiani non capiscono fino in fondo il modello di Code for America (ad esempio, non esiste in Italia un evento che mobiliti tutti i territori come Hack for Change, nonostante il timido tentantivo di Piacentini). Le Pubbliche Amministrazioni italiane sono abituate a lavorare da sole, in genere, quindi non sono molto aperte alla contaminazione con l’attivismo civico.

[Fortini] Bilanciare accentramento e territorialità può richiedere varie soluzioni: chiaramente, la modalità di Code for America — che introduce un governo centrale — può essere efficace, ma dovrebbe essere fortemente regolamentata. Nel nostro territorio, non penso funzionerebbe, perché una delle caratteristiche del civic hacking italiano è proprio il suo essere libero da schemi e basato sulla do-ocracy, il governo del fare, per cui chi fa le cose decide anche le soluzioni.

Anche alla do-ocracy abbiamo dedicato una newsletter. Come avete deciso di comportarvi, proprio in ottica di do-ocracy?

[Fortini ]La nostra soluzione è sempre stata quella di lavorare con strumenti e dati aperti, aspirando alla la massima condivisione possibile. Abbiamo sempre voluto creare qualcosa in cui tutti abbiano le stesse possibilità, lasciando agli utenti la possibilità di decidere le direzioni di sviluppo.

Come abbiamo già detto, la realtà di Code for America ha una natura centralizzata. In Italia, invece, è molto più facile operare in piccole realtà territoriali (molto diverse rispetto alle Brigate americane e difficilmente accentrabili). L’unico esempio che ci viene in mente di struttura centrale e unità operative periferiche è la Protezione Civile e realtà simili. Dato che entrambi avete esperienza di interazioni anche con la Protezione Civile (grazie a TerremotoCentroItalia o ItaliaAFuoco), cosa pensate funzioni che potrebbe essere riportato anche nei progetti di civic hacking?

[Tempestini] Una delle cose più interessanti è la potenzialità di far interagire il mondo reale con quello virtuale, facendoli diventare un mondo solo. La capillarità della Protezione Civile nei territori consente di registrare ogni singola esigenza e questo può essere un’indicazione per chi lavora nel back-office per rendere davvero utile la tecnologia. Questo è un approccio che, nel civic hacking, dovrebbe guidare tutti i progetti: non si parte mai dalla tecnologia, ma da un reale problema sentito dai cittadini. A volte, però, il civic hacking si trasforma in puro nerdismo autoreferenziale per mostrare che si possono fare cose fighe programmando.

[Fortini] La Protezione Civile ha un elemento importantissimo per attivare il coinvolgimento delle persone: lavora in situazioni di emergenza. Durante un’emergenza, qualunque essa sia, ci sono problemi chiari e impellenti da risolvere in fretta. I risultati sono misurabili in tempo di risoluzione, persone o cose salvate: chi si mette a disposizione, vede immediatamente i risultati — ci si iscrive alla Protezione Civile come forma di collaborazione con la comunità. Il legame con la comunità locale è così stretto, che, in passato, la forza di una squadra era proporzionale alla forza della comunità stessa in cui operava, tanto che si è sentita la necessità di coordinarsi e darsi una struttura centrale più forte per poter rendere più omogeneo il supporto ai territori.

Il civic hacking ha caratteristiche e necessità simili. I problemi devono essere concreti, le soluzioni devono arrivare in un tempo ridotto, le risposte possono essere quasi immediate.

La differenza sta nel riconoscimento: un intervento di civic hacking, in generale, non salva vite e non risponde a un’emergenza. Per questo, il tempo speso in questo modo non viene considerato “volontariato civile”: non viene incluso fra le cose da finanziare, né, per esempio, si applicano al civic hacking (o alla partecipazione civica in generale) le agevolazioni concesse dal famoso “articolo 9”. Quindi scegliere di staccarsi dal lavoro per dare supporto tecnologico, ad esempio durante un’emergenza, è puro volontariato, a meno che non si operi all’interno della struttura della Protezione Civile.

Adesso che ci siamo tolti dai piedi il negativo, secondo te, quali dimensioni di Code for America potrebbero funzionare in Italia?

[Fortini] Nei progetti che abbiamo seguito, abbiamo visto che ci sono tantissime persone disponibili, anzi desiderose, di contribuire al bene della società mettendo in gioco le loro competenze — anche quelle tecniche. Lo sviluppo condiviso di soluzioni all’avanguardia, sia per la Pubblica Amministrazione, che per la società in generale, sarebbe una risorsa importantissima.

[Tempestini] Secondo me, ci sono tre elementi fondamentali che potrebbero funzionare anche in Italia:

  1. Il riuso: lavorare su scala nazionale — o internazionale — a una soluzione per problemi diffusi (ad esempio, le buche nelle strade) consente di non spendere soldi pubblici inutilmente in ogni singolo territorio, risparmiando!
  2. Il modello dal basso: sono le Brigate che sottolineano le esigenze territoriali e decidono quale soluzione riciclare o creare, non il coordinamento centrale.
  3. La dimensione di inclusività della comunità: la differenza nei progetti di attivismo civico non sta nel web o nella tecnologia, ma nella creazione di gruppi di persone attive che cercano di migliorare il mondo. L’Italia, proprio per la sua grande sensibilità al volontariato, ha una marcia in più rispetto ad altri paesi.

E, per finire, vuoi raccontarci qualcosa di te o dei progetti che segui.

[Tempestini] Sono Matteo Tempestini, classe 1980, ingegnere informatico dal 2006, babbo di Alberto, Tommaso, Diletta, sposato con Claudia. Lavoro nel testing di apparecchiature usate nel segnalamento ferroviario in una multinazionale francese. Sono da sempre appassionato di tecnologia e delle sue applicazioni alla città e alla nostra vita. Dal 2009 mi dedico al civic hacking, prima con semplici tutorial sul web, poi con progetti più strutturati come TerremotoCentroItalia, ItaliaAFuoco, Politicamente Corretto. Ho sempre creduto nella filosofia Open Source e Open Data come soluzione a molte problematiche della Pubblica Amministrazione italiana. Da qualche mese son tornato a sperimentare la tecnologia in una dimensione molto più “personale” attraverso la stampa 3D e altri strumenti per abilitare l’artigianato digitale. Mi piacerebbe che i prossimi progetti nazionali di civic hacking nascessero da persone che sentono esigenza di contaminarsi e non dai “malati di tecnologia”. Per diletto canto, suono il pianoforte e compongo canzoni leggere.

[Fortini] Sono sicuramente un sognatore, uno che non riesce a ignorare i problemi, ma che cerca di risolverli. Siccome ho esperienza e passione per la tecnologia, e il momento è più che propizio per farlo, mi piace usarla in questo senso. Il civic hacking è un nome che può raccogliere tante iniziative a cui partecipo o ho lanciato: sia quelle di impatto più ampio, come il progetto TerremotoCentroItalia fatto insieme a Matteo Tempestini (che grazie anche ad ActionAid ha avuto un ruolo di supporto alle comunità e alle amministrazioni colpite dai terremoti del 2016), sia nel far conoscere i dati aperti e il software libero o nella formazione al coding delle ragazze e dei ragazzi con i CoderDojo. Ho scelto di di candidarmi e fare l’amministratore (nello specifico, l’assessore) del mio Comune: la considero un’azione di partecipazione pubblica diversa, forse più incisiva, che mi sta dando molti spunti e mi sta facendo imparare molte cose sul funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni.

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ErikaMarconato
CivicHackingIT

#CivicHackingIT e #scrivo. Leggo molto, a volte troppo. Sto cercando di capire il legame tra #opensource e cultura. Di #opendata parlo su @spaghetti_folks.