Bisogna sempre vincere per ottenere il miglior risultato finale?

Marco A. Munno
Crampi Sportivi
Published in
8 min readMar 29, 2017

A prima vista, la domanda del titolo sembra avere una banale risposta affermativa. In barba a Guglielmo di Occam, però, non è sempre così. L’equazione tipica — che applichiamo alle competizioni a cui siamo abituati nel vecchio continente — recita “più partite vinte = più possibilità di vincere la competizione finale”.

D’altro canto, i classici campionati (quello italiano e i più conosciuti in Europa) si svolgono con la possibilità di costruire la miglior squadra utilizzando quante più risorse si possa; inoltre, in ogni annata — retrocessioni e promozioni a parte — i risultati raggiunti nella medesima competizione durante la precedente stagione non hanno peso su quella corrente.

Il team con maggiori risorse quindi riuscirà ad ammassare la maggior parte di talento possibile, mantenendo la prelazione sulla scelta degli atleti da mettere in squadra grazie al potere economico: tranne gli storici casi Leicester-style, Davide sarà sempre schiacciato quando arriva Golia.

Tuttavia non si tratta dell’unico sistema con il quale si svolgono le competizioni; al di là dell’Oceano, difatti, l’idea dei gestori della NBA (la lega per eccellenza quando si parla di basket), è quello di garantire una sorta di parità competitiva.

Per cercare di assicurarla, possiamo individuare alcune peculiarità che semplifichiamo:

Le retrocessioni sono inesistenti, di fatto c’è un solo campionato

È fissato un tetto per gli stipendi, il cosiddetto salary cap (concetto ripreso e rivisitato, per la prima volta nel calcio professionistico, dalla Serie B italiana)

Non è possibile acquistare giocatori dalle altre squadre, ma solamente scambiarli (mentre è possibile firmare i giocatori svincolati a costo zero, tuttavia rimanendo all’interno del salary cap)

A fine stagione, i giocatori esordienti che si renderanno eleggibili saranno scelti dalle squadre partecipanti nel cosiddetto Draft. L’ordine delle scelte (due per team, ripartite in due giri) sarà definito in ordine inversamente proporzionale al risultato ottenuto la stagione precedente

Naturale conclusione è quindi quella che si costruisca una sorta di ciclicità fra le squadre al vertice: chi vince, non ha possibilità di scegliere il prossimo potenziale fenomeno, che andrà a rinforzare la squadra attualmente più indietro, e così via.

Unica squadra a battere il sistema, rimanendo da 20 anni ai vertici, i San Antonio Spurs

Questo tipo di sistema ha quindi portato i general managers NBA a talvolta adottare quella strategia chiamata “tanking”, ovvero a scegliere deliberatamente di non competere per ottenere un ingresso ai playoffs nella stagione corrent, ma disputare intenzionalmente un’annata di basso profilo, così da avere maggiori probabilità di ottenere una scelta di valore più alto al Draft dell’estate successiva.

Tutto ebbe inizio del 1984, quando a fine stagione nell’elenco di ragazzi eleggibili per la scelta ce ne stavano due considerati provetti fenomeni: Hakeem Olajuwon e Michael Jordan.

All’epoca la prima scelta assoluta sarebbe toccata alla vincente del lancio della monetina fra la peggiore squadra della costa Ovest o alla peggiore della costa Est; ultimi a Ovest erano gli eterni sfortunati dei Los Angeles Clippers fino a poche partite dalla fine, quando Houston, che ormai aveva mancato l’accesso ai playoffs, cominciò a disputare prestazioni molto riluttanti in partita, ottenendo 15 sconfitte nelle ultime 20 e precipitando all’ultimo posto a Ovest.

Per loro, la ciliegina sulla torta fu la vittoria nel testa/croce e quindi la conquista della sospirata prima scelta assoluta al draft, che portò loro in dote Olajuwon, che rispettò in pieno le grandi attese che lo circondavano.

A poco servì l’abolizione da parte della lega del lancio della monetina in risposta al comportamento dei Rockets, dato che proprio in quel draft viene introdotto il sistema della lottery: i diritti di scelta più alti o più bassi sarebbero stati estratti da un’urna con delle palline, con un numero di palline presenti per ogni squadra inversamente proporzionali alla posizione in classifica ottenuta l’anno precedente.

Anche senza la presenza di una corrispondenza diretta fra numero di sconfitte e ordine di scelta, disputare stagioni perdenti assicura una probabilità ben più consistente di pescare in alto fra i prospetti disponibili.

Unici a sfuggire alla rigida regola matematica i Cavaliers, che evidentemente hanno venduto l’anima al diavolo: nell’ultimo lustro, i Cavs hanno infatti vinto il sorteggio con le palline (e quindi la prima scelta assoluta) nel 2011, nel 2013 e anche nel 2014, quando le loro probabilità di vincerla erano solo del 1.7%.

Il periodo dell’abbandono di LeBron, prima del suo ritorno, fu triste nel campo per i Cavs…

L’eccezione conferma la regola, ormai diventata prassi: pianificare un buon futuro porta con sé un presente fatto di poche soddisfazioni, con i tifosi che si fanno forza chiedendo addirittura alle franchigie di andare fino in fondo nel baratro e scegliere la strada del tanking (nel pessimo italianizzato “tankare”) per potersi assicurare a giugno la talentuosa stella del futuro.

A volte le richieste di tanking dei tifosi sono davvero ben elaborate

A proposito, nel parlare di Embiid abbiamo già citato la questione: proprio nelle ultime tre stagioni, abbiamo assistito alla maggiore estremizzazione di questo espediente, con Sam Hinkie che ai Sixers ha sdoganato la sistematizzazione del tanking in attesa di collezionare giovani di belle speranze fra cui pescare almeno un fenomeno. L’intero percorso fu chiamato “The Process” e proprio questa stagione si iniziano a vedere i primi frutti, con alcune delle scelte quali Saric a mostrare lampi di talento e il nostro Joel Embiid a rappresentare il fenomeno tanto perseguito. Pazienza se nel Processo si siano vissute alcune delle peggiori stagioni di sempre della franchigia di Philadelphia: il comandamento era uno solo…

Proseguendo su questo filone si arriva quindi al paradosso nella situazione attuale dei Miami Heat. La franchigia, passato un brutto inizio di stagione, a inizio 2017 ha firmato una striscia di 13 vittorie consecutive, roba da top team per una squadra che si è appena piazzata fra le migliori otto posizioni della costa Est, quelle che a fine stagione regolare daranno l’accesso ai playoffs. Dove, nonostante la situazione di vicinanza in classifica per le squadre dal quinto al decimo posto, dovrebbero restare.

Anno 2017: Miami is the coolest place to be

Con l’addio doloroso di quest’estate alla bandiera Dwyane Wade (dopo aver già salutato LeBron James nel 2014), la squadra ha chiaramente espresso l’intenzione di ricostruire dopo le vittorie ottenute con il magico duo in campo; la strada scelta non era quella di rifondare su giovani provenienti dal Draft, ma su ragazzi già nel loro prime da responsabilizzare, a partire dall’asse Whiteside-Dragic, tenuti insieme dall’esperienza della stella ormai unica rimasta dei vecchi Big Three, Chris Bosh.

Tuttavia gli eventi non sono evoluti in quella direzione: prima dell’inizio della stagione, Bosh viene tagliato per assenza di via libera al ritorno in campo da parte dei medici, causa formazione di pericolosi coaguli di sangue nei polmoni. Inoltre, la sfortuna si accanisce con l’intero roster: infortuni in sequenza a tutti i migliori 8-9 giocatori — a turno o contemporanei — impediscono al team di sfoggiare la migliore formazione e fra questi anche il più futuribile della cricca, Justise Winslow. La scontata conseguenza è che la casella delle sconfitte aggiorna il suo numero ben più rapidamente di quella delle vittorie.

Più facile trovare il Santo Graal che un’altra immagine col quintetto titolare di Miami in campo

Con il treno diretto ai playoffs partito, agli Heat non resta che pensare al modo alternativo di ricostruzione: nel Draft del prossimo anno si scorgono vari talenti che potrebbero rappresentare nuove stelle, da Markuelle Fultz a Lonzo Ball. Perdere per accaparrarsi una scelta più alta diventa una concreta opzione. Anzi, si cercano acquirenti per lo sloveno Goran Dragic, ritenuto inadatto per un progetto a raggio più ampio di quello preventivato.

Gli acquirenti non arrivano prima delle varie guarigioni (non tutte, ma una buona parte) e allora qualcosa scatta nella testa dei ragazzi, che iniziano a macinare vittorie.

Una. Due. Cinque. Dieci. Tredici di seguito. TREDICI.

Una seconda metà del mese di gennaio eccezionale, ironicamente contemporaneo al peggior periodo affrontato sia da LeBron James che da Dwyane Wade dopo la fine delle rispettive avventure a Miami; nel caso di entrambi, il front office aveva deciso di puntare sull’allenatore Erik Spoelstra in merito ai loro contrasti col coach.

Good job, coach Spo!

“The Dragon” Dragic inanella in quel mese numeri da All Star, con 22.7 punti e 4.8 assist di media nella striscia di vittorie, ritornando a essere il maggior creatore di gioco, come già visto nelle belle stagioni che l’hanno fatto conoscere a Phoenix.

La migliore di Goran giocata in questa striscia e Rubio stracciato nel confronto fra play europei

Addirittura Dion Waters, nota testa calda, smette di piangersi addosso sull’ingiusta decisione (a suo modo di vedere, i risultati dicono tutt’altro) dei Cavs di puntare a suo tempo su Kyrie Irving invece che su di lui, ma inizia a rendere in modo costante e anche a chiudere le partite.

Magari contro i peggiori di tutti, i Nets, può accadere più facilmente…
… contro i Warriors però un pò meno…
… per chiudere infine con la vendetta dell’ex!

Eppure, in Florida non c’è solo un corteo di sorrisi a 32 denti per i risultati che stanno arrivando; il motivo è da ricercarsi proprio nel concetto precedentemente espresso relativamente al modello sportivo della lega cestistica più famosa al mondo.

Già, perché con questa situazione gli Heat si pongono in un pericoloso limbo, rappresentato dai limiti della zona playoffs. E magari li conquisteranno anche, ma senza una squadra realmente competitiva e contemporaneamente perderanno via via posizioni nell’ordine di scelta al Draft.

Cosa fare?

Nessun giocatore va in campo per perdere e nei casi di tanking sono i general managers a comporre squadre con giocatori nell’immediato troppo meno bravi degli avversari per conquistare vittorie. Così, in questa situazione, la prova del campo dimostra che il nucleo imbastito non sia di questo livello così basso.

Quindi si può partire da questo gruppo e lavorare su piccole occasioni di mercato per puntellarlo direttamente, sperando che il contesto cresca (e come per i Raptors, diventi un gruppo valido nonostante premesse in fase di programmazione non eccelse), magari diventando appetibile per qualche free agent nei prossimi anni.

Oppure è meglio massimizzare il valore dei giocatori ritenuti meno funzionali ai successi futuri, cederne qualcuno per accumulare scelte o prospetti futuribili e sacrificare l’immediato? Una mossa che cela un gran rischio, perché non c’è alcuna certezza in un futuro più roseo di una situazione che ora prosegue ottimamente.

Bel dilemma per il presidente Riley, una delle maggiori menti di sempre per questo gioco

Certo, la situazione va ponderata: solo la scorsa stagione, i Portland Trail Blazers — designati a essere una delle peggiori squadre della lega, vista la ricostruzione in atto — hanno conquistato a sorpresa i playoffs per poi essere eliminati dalla successiva finalista. A Portland si sono poi ritrovati quest’anno con una sovrastima delle capacità del gruppo, attualmente fuori dagli otto posti validi per il raggiungimento dei playoffs, di fatto peggiorando i risultati quando si pensava di essere ripartiti per un nuovo ciclo.

Tutta questa situazione è di difficile lettura, che parte da un quesito di cui siamo sempre stati certi di conoscere la risposta: sicuri che bisogna sempre vincere per ottenere il miglior risultato finale?

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Marco A. Munno
Crampi Sportivi

Pensa troppo e allora scrive. Soprattutto di pallacanestro.