Destinazioni trasformative, generative, adattive. Come il destination marketing e management diventa destination design

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13 min readMay 19, 2021

Scritto da Giada Abbiati | Destination Makers

Le destinazioni si trasformano.
Definire in un ambito circoscritto la complessità dei territori è difficile e probabilmente utopistico, progettare destinazioni lo è anche di più. Le destinazioni sono di fatto scelte, luoghi che, tra gli altri, sono stati eletti a meta di qualche aspetto della nostra esistenza: viaggio, lavoro, vita.

Ciò che spesso però viene dimenticato è che questi luoghi si trasformano. Hanno al loro interno miriadi di voci, da quelle di chi ci vive a quelle di chi li visita; e in quanto entità trasformative, cambiano. Cambiano necessità, paure, desideri, prospettive. Su queste voci e su questi cambiamenti vanno ragionati i nuovi paradigmi del fare destinazione che, a causa della pandemia, più di prima reclamano un approccio diverso alla progettazione.

Davanti a questo assunto occorre ragionare su cosa cerchiamo in questi luoghi. Analizzando l’etimologia della parola “destinazione” (così come di “destino”) individuiamo nella sua essenza il concetto di fissità, dello stare fermi in un punto. Non per niente la meta di un viaggio è il luogo in cui si arresta il movimento, dove si sceglie di restare — per breve o lungo tempo.

Quindi bisogna chiedersi: perché decidiamo di restare in un dato luogo?
Ed è partendo da questa domanda che si disegnano le nuove destinazioni.

Possiamo ancora parlare (solo) di destination marketing e management?

La pandemia ha cambiato i luoghi, creando nuove modalità di fruizione e soprattutto nuovi bisogni da un punto di vista dei contenuti di questi spazi. Forse, però, è più corretto dire che la pandemia ha accelerato solo un processo inevitabile e già in atto, sottolineando con forza i vuoti ancora da riempire.

Tra questi nuovi spazi ci sono anche le destinazioni.

Il turismo per come lo abbiamo sempre conosciuto è finito. Lo ha confermato Airbnb, l’ha analizzato nel dettaglio The Guardian con il suo articolo “The end of tourism?” e ne ha parlato a lungo The Travel Foundation, che dalla sua costituzione sostiene un approccio al turismo diverso, volto a superare il cosiddetto “invisible burden” (il peso invisibile, l’impatto negativo che il turismo incontrollato porta nei territori).

Come abbiamo visto in un nostro precedente articolo, sono cambiati i viaggiatori, ma soprattutto sono cambiate le destinazioni. Se prima erano soltanto delle coordinate su una mappa per i viaggiatori, oggi costituiscono una motivazione di visita. Chi vi si reca sceglie quei luoghi su altri per una precisa ragione, un bisogno profondo, personale e intrinseco.

Nel corso del 2020 e di questo neo-iniziato 2021 abbiamo visto diverse destinazioni diventare luoghi ideali.
I borghi per un ritorno alla lentezza e alla genuinità, fuori dalle grandi città.
Il Sud Italia per un ritorno alle proprie radici e per giovare di sole, mare e diverse opportunità.
La montagna per un ritorno all’aria aperta e per riscoprire la natura, riconnettendosi a se stessi.
Dall’altro lato le città hanno subito il cosiddetto effetto del city quitting, svuotandosi progressivamente, ma tornando a essere in breve tempo di nuovo il fulcro di attrazione di persone e innovazione dei luoghi.

Questo passaggio risulta fondamentale nello studio del contesto in cui si collocano le destinazioni. Esse sono diventate il destino di nuove migrazioni, per cui non è più possibile ridurre la loro gestione al semplice marketing e management. Dal momento che si tratta di luoghi ideali, e che quindi per definizione vivono nella mente delle persone con le loro idee e i loro desideri, occorre non tarare le azioni di progettazione delle destinazioni solo su questi due silos.

Il marketing e il management sono di fatto strumenti fondamentali, ma non costituiscono ormai più la base per assicurare uno sviluppo di destinazione (e quindi uno sviluppo turistico) efficace, in grado di soddisfare i residenti da un lato e i turisti dall’altro.

Insieme alla fine del turismo va di pari passo, infatti, il tema dell’overturismo, che con la pandemia si è ingigantito a sua volta mettendo davanti agli occhi di tutti la boccata d’aria fresca che hanno potuto prendere le destinazioni più affollate del mondo. Travel Weekly in uno dei suoi articoli riporta alla ribalta il tema, mostrando come le destinazioni più affette da overtourism a livello mondiale stiano ripensando i propri modelli di attrattività e sviluppo. È poi sconcertante l’ultima notizia di Aruba, che perso l’appiglio sui flussi di visitatori a causa del Covid-19 rischia di dover riprendere l’attività industriale di estrazione del petrolio.

Si tratta di destinazioni che per anni hanno vissuto facendo del turismo classico e incontrollato una base fondamentale per il proprio funzionamento, utilizzando il destination marketing e management più come finalità ultima che come mezzi per implementare il benessere dell’individuo — e quindi anche del visitatore.

Da marketing centered a human centered destinations attraverso il design

Visit Flanders è l’esempio virtuoso di come il modo di disegnare le destinazioni sia cambiato. Travel to tomorrow, per la destinazione Fiandre, non è solo un claim di marketing verso il territorio e verso il visitatore, ma è di fatto un approccio espresso attraverso il concetto di stewardship. Stewardship non è traducibile con un corrispettivo italiano, ma letteralmente significa: “gestione etica (responsabile) delle risorse”. Per risorse si intendono i beni comuni come l’acqua, il territorio, le foreste, le persone, i prodotti. Possiamo quindi intendere la stewardship come un modello per gestire eticamente i beni comuni e quindi i prodotti che ne derivano.

Le destinazioni sono fatte di persone e per le persone. Per questo non si può più pensare, soprattutto dopo le evidenze emerse dalla pandemia, di non partire proprio dagli individui per progettare le nuove destinazioni. Che poi, come racconta questo interessante articolo di Marketing Toys, i luoghi sono ibridi frutto dell’incontro tra persone e con fulcro la cultura.

Nel white paper Adaptive Cities redatto da PN6 e contenente un contributo di Destination Makers in relazione alle destinazioni adattive, si legge questo tipo di critica in relazione all’abuso del termine smart city (declinabile anche nell’ambito delle destinazioni con smart destination):

“…questa visione di Smart City spesso astrae il ruolo delle relazioni umane con la città e gli altri. […] Aspetti quali la percezione dello spazio o il rafforzamento delle identità locali non vengono considerati. Possiamo definire davvero le città intelligenti? O piuttosto le abbiamo riempite di tecnologia intelligente creando applicativi scollati dalla realtà e dalla “intelligenza” dei cittadini?”

È proprio qui che si inserisce il design, non inteso nella visione comune come un mero esercizio architettonico o di stile, ma come un processo che individua problemi e propone soluzioni. Il design da solo, però, non mette al centro le persone; quindi diventa in grado di aggiungere rilevanza laddove guarda all’individuo trasformandosi di fatto in human centered design.

Anche in Artribune si legge, partendo dall’eccezionale tema del non-finito di Michelangelo, come oggi sia il design a ricoprire un ruolo centrale nel ripensamento dei luoghi e delle destinazioni per “assegnare a questi spazi una nuova identità, e anche una nuova funzione, facendo ricorso a dispositivi allestitivi, provvisori e reversibili, purché coerenti con la natura e l’anima del luogo, per favorirne il reinserimento nel tessuto vivo sociale e la valorizzazione del loro contenuto simbolico”.

Torna sempre quindi il genius loci, lo spirito del luogo, che si incarna nelle sue persone. Nei nuovi viandanti che attraversano città e campagne (professionisti, viaggiatori, nomadi digitali, residenti), nelle loro voci e nei loro bisogni.

Richard Florida e Steven Pedigo lo confermavano già nel 2020 a proposito delle città, in un articolo che indicava dieci punti da considerare per la ripartenza, dal momento che questi grandi agglomerati urbani non solo sono antifragili per natura, ma basano la propria esistenza e trasformazione sulle persone.

Ne consegue che persino il concetto di marketing di destinazione si tramuta, come racconta Phocuswire con il concetto del “marketing of care”. Persino laddove l’elemento umano rischia di perdersi nei meandri della tecnologia, è importante il fattore della cura verso le persone che non sono più “users” ma “humans”.

Il primo passo verso le destinazioni human centered: ascoltare

A determinare l’impronta di una destinazione human centered è l’atto di ascoltare. Non si può progettare una destinazione incentrata sul fattore umano senza dare adito alla sua voce, individuando quindi quali siano i problemi cui porre soluzione e le necessità che esprimono invece il come ovviarli efficacemente.

Visit Flanders ha avviato con Synthesio, azienda di social intelligence, una collaborazione volta a far emergere e analizzare il sentiment dei residenti verso il visitatore. Una grande dimostrazione d’ascolto, che parte prima di tutto dalla percezione dei residenti per poter costruire strategie efficaci di destinazione.

Ipsos — Synthesio

Anche la città di Calgary, in Canada, ha svolto una sentiment analysis sui viaggiatori al fine di poter prendere migliori decisioni da un punto di vista della gestione della destinazione.

Del resto, la tecnologia da sola non può fare nulla senza la comprensione del tessuto umano che costituisce i territori. Occorre empatia, comprendere le emozioni, e da essa partire per rendere le destinazioni antifragili e adattive, dunque capaci di rispondere in maniera migliorativa agli eventi interni ed esterni.

Non per nulla in questo elenco di buone pratiche delle “smart” destinations non sempre la chiave di volta è la tecnologia, ma il design che parte dall’ascolto e quindi diventa human centered.

Da questi esempi emerge quindi che il tema dell’ascolto è fondamentale non solo in fase preliminare o finale, quanto durante tutto l’arco della progettazione e, quindi, del design. Centrale è infatti il ruolo che sta ricoprendo il monitoraggio (delle azioni, del sentiment, dell’impatto) all’interno di questo tema, per cui diviene fulcro dell’intero processo. Skift sottolinea infatti l’urgenza di una nuova metrica di monitoraggio post pandemia: “…c’è bisogno di una grande resa dei conti sul problematico squilibrio di capitale dell’industria, con ogni segmento che si impegna a svolgere un ruolo nello smantellamento di un modello superato. […] Solo allora l’industria potrà affermare che sta “costruendo di nuovo meglio”.

Nuovi modelli di governance per disegnare destinazioni incentrate sulle persone

Anche la governance non può prescindere dalla partecipazione delle persone per poter definire il design della destinazione “human centered”.

Le destinazioni più all’avanguardia stanno proponendo sempre più processi di governance innovativi che lavorano, di fatto, sull’attrazione di capitale umano. Già nel 2002 Richard Florida parlava di questo fenomeno attraverso la crescita della classe creativa, che permette — ancora oggi come trend in crescita anche nel settore viaggi — la diversificazione e continua innovazione dei territori, in particolar modo le città. Attualmente, le città si stanno sempre più ponendo come vere e proprie destinazioni a misura d’uomo.

Prolifera la letteratura riguardante le cosiddette città di 15 minuti, il cui fulcro è rappresentato dalla possibilità di raggiungere e trovare nell’arco di quindici minuti a piedi tutto il necessario per una vita appagante nella città. Si riscopre quindi anche il concetto di neighbourhood, ossia del vicinato/quartiere, in cui risulta fondante il ruolo attivo che le persone ricoprono nella sua governance.

www.15minutecity.com

Così Barcellona decide di rispondere alle critiche che da anni la incriminano come uno dei peggiori esempi di overturismo al mondo. Dall’effetto gentrification più affermato d’Europa che ha portato i cittadini a rivoltarsi contro Airbnb fino all’invivibilità della Rambla, il suo corso principale, oggi la città decide di ridisegnarsi e attuare un nuovo percorso di destination design.

In primo luogo, sono in atto i lavori per trasformare la Rambla in un nuovo hub culturale e creativo, connotando diversamente quello che fino ad oggi è stato il luogo emblema del turismo di massa a centro focalizzato sulle persone e la cultura. Per diventare liquida e, quindi, adattiva.
La Barcellona City Hall ha da poco adottato inoltre una strategia partecipativa per co-progettare la città con i suoi residenti. Grazie alla piattaforma online collaborativa Decidim, la nuova progettazione della città oggi è co-creata favorendo una governance partecipata.

Paganella Future Lab, nelle Dolomiti Paganella in Trentino, è un laboratorio avanzato per la governance diffusa e soprattutto condivisa della destinazione. All’interno di questo percorso partecipato il turismo non è il punto di arrivo, ma un mezzo, una costante fondamentale all’interno dell’equazione per costruire un territorio tenace e antifragile. È solo ascoltando gli operatori del territorio, diversificando anche le fasce di età, che si possono accogliere con efficacia i cambiamenti necessari.

Helsinki ed Eindhoven, invece, sono due degli esempi più virtuosi in Europa di City Branding and Design, in quanto da tempo lavorano su modelli di governance territoriale che siano in grado di rendere la città una destinazione per talenti, investimenti, business e, trasversalmente, viaggi.

La visione strategica di destinazione di Helsinki da sempre ragiona sul concetto di città di Helsinki. Non è quindi solo lo strato più superficiale dei viaggi a interessare il posizionamento e l’implementazione di servizi nella destinazione, ma l’intero assetto cittadino. Incentivi, ruolo attivo della cittadinanza nell’essere essa stessa ambasciatrice di destinazione, campagne di 90 giorni per assecondare l’ampio fenomeno di trasferimento a Helsinki da parte di lavoratori e nuovi personaggi attratti dalla vivibilità della città (liveability).

Eindhoven, d’altro canto, applica una politica di governance che punta a rendere la città The talent city, ossia l’hub perfetto per attrarre talenti. Non stupisce quindi che oggi Eindhoven sia proprio il polo del design, dove il capitale umano di più alto livello si concentra per creare innovazione che sia sempre e costantemente, dal concepimento fino alla fase post, human centered. Anche in questo caso il marketing diventa un mezzo per raccontare il concetto di città di Eindhoven, piuttosto che di sola destinazione.

La società di oggi è liquida e, in quanto tale, impossibile da incastrare entro confini troppo stringenti. Lo stesso vale per la governance di destinazione, che non deve gravare su di essa, ma muoversi con(n)essa.

Oltre il turismo che conosciamo, attraverso le human centered destinations

Gensler nei suoi punti chiave sul design per il 2021 in risposta alla pandemia, sottolinea due punti:

  1. Rimodellare il ruolo della destinazione ibrida richiederà un passaggio dall’essere un centro di transazioni all’essere un centro di cultura. Gli spazi pubblici avranno un ruolo centrale nel rafforzare l’impegno dei clienti e nel costruire una piattaforma di appartenenza.
  2. Per un futuro resiliente, dobbiamo evolvere da una città lineare a una circolare e rigenerativa, dove gli output di un processo possono essere usati come input per un altro.

Ritorna quindi il concetto di adattività, del fatto che le destinazioni non possono rimanere ferme a modelli che non funzionano più perché i presupposti sono cambiati. I presupposti risiedono, abbiamo visto, soprattutto nelle persone che queste destinazioni le vivono, a partire dai residenti.

Abbiamo parlato di luoghi ideali, ma non dobbiamo dimenticare che i luoghi diventano ideali in base alle prospettive delle persone. Nel Festival of Place che si tiene in Regno Unito, il claim recita “Shape the future of cities together” (disegniamo il futuro delle città insieme).

È tenendo conto di queste prospettive che il quartiere di Nordhavn, a Copenhagen, oggi è diventato (e sta ancora divenendo) la città ideale sull’acqua. Un progetto partito dalla necessità di riqualificare una zona portuale industriale, convertendola in un quartiere ideale per le persone che ci vivono e anche per i visitatori. Così i silos sono diventati ristoranti, le gru suite di lusso sempre occupate e sopra i tetti nascono parchi giochi e fitness mentre lo sviluppo urbano si basa su un modello sociale e sostenibile.

A Torino, fulcro del city imagining grazie all’iniziativa Torino Stratosferica, il Torino City Lab è oggi riferimento degli abitanti (ma in maniera direttamente proporzionale anche dei visitatori che fruiranno la città) come laboratorio in cui si sviluppano idee e progetti per la città partendo proprio dal co-design con gli abitanti.

Da Bergamo a Modena, invece, si sviluppano progetti attivi di rigenerazione urbana che vedono al centro, sempre, le persone. Dalla progettazione fino allo sviluppo, il Rammendo delle periferie di Renzo Piano a Modena e il progetto Generavivo a Bergamo mettono al centro le interazioni e la cultura.

Ed è errato pensare che un approccio di questo tipo non possa essere sostenibile in termini di attrazione turistica. Design Hotels ne parlava già nell’articolo “Beyond Bilbao: Build it and they will come?”, in riferimento al fatto che il design — in questo caso anche inteso come attrazione architettonica e culturale — può generare già da solo incoming di visitatori. Recentemente, il New York Times ne ha parlato in un articolo riguardante le piste ciclabili: una necessità comune per i cittadini, che in automatico diventa attrattiva per i viaggiatori. E dall’Olanda al Belgio, già in Europa sono numerose le piste ciclabili che, nate per soddisfare una cultura urbana, sono oggi simbolo del bike tourism delle aree.

Solo con un design human centered delle destinazioni è possibile superare i modelli fallimentari del turismo per come lo abbiamo sempre conosciuto, non solo favorendo approcci più sostenibili ma anche realmente inclusivi e autentici, perché le persone divengono parte fondamentale dell’equazione. Skift in un recentissimo articolo guarda alla community di Planeterra come un’opportunità concreta per cambiare i business model su cui oggi l’industria si è sempre basata e che è in espansione. Partendo proprio dal concetto degli anni Settanta del “community-based tourism”, questa comunità applica i principi di un modello già visionario con risultati concreti su territori e viaggiatori.

Le destinazioni sono fatte di persone e quindi di cultura. La cultura, si sa, è in fondo un insieme di valori, il famoso Why di cui parlava Simon Sinek e che oggi vale anche per i viaggiatori, che sceglieranno le destinazioni che, di fatto, rappresentano i loro valori.

Un’idea di città culturale quale risposta composita alla definizione di futuro, alle sfide urbane, alle molteplici domande di città di persone e comunità […]. Un progetto che rimette società e politica al centro ed è essa stessa un progetto sociale e politico. […] un ecosistema interdisciplinare, intersettoriale, multilivello, ri-mediando, assorbendo ed esplorando la complessità urbana e non subendola o tentando di ridurla.

- Lucio Argano, Guida alla progettazione della città culturale (Ed. Franco Angeli, 2021)

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