Dune: Parte Uno (2021) di Denis Villeneuve | by Alessandro Pin | Destinazione Cosmo | Medium

Dune: Parte Uno (2021) di Denis Villeneuve

SOLENNE, SONTUOSO ED ELEGANTE, COME UNA MESSA DA REQUIEM CHE RIECHEGGIA NELL’OLIMPO DELLE SPACE OPERE CINEMATOGRAFICHE

Alessandro Pin
Destinazione Cosmo
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18 min readSep 20, 2021

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Con questo articolo, non è mia intenzione approfondire i concetti di determinismo, l’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano o la deriva fortemente ambientalista presenti nell’opera di Frank Herbert — aspetti comunque percepibili nel Dune di Denis Villeneuve —; per questo, rimando gli interessati alla mia disamina sul romanzo capostipite QUI.

Invece, cerco di offrire una panoramica socio-politica su questo incredibile universo, attraverso una personale analisi dei suoi elementi costituenti e un confronto coi precedenti adattamenti cinematografici, per introdurre una storia dal monumentale contenuto che risulta, ancora oggi, terribilmente attualissima.

Dune, un melodramma cosmico

X Millennio d.C. L’universo è popolato da computer umani, mutanti drogati, assassini tanto intriganti quanto esecrabili, aristocratiche famiglie disfunzionali, lotte intestine tra feudi e cabale in lizza per il potere, la ricchezza e il controllo commerciale della Spezia: la risorsa che solo il desertico pianeta Arrakis è in grado di fornire e dove le insidie si nascondono persino nel più piccolo granello di sabbia; il cosiddetto mélange, oltre a permettere il viaggio interstellare, offre a chi lo assume proprietà rigeneranti, benefìci di una lunga vita e, ad alcuni eletti, la prescienza: la capacità di scorgere oltre il velo del tempo. Denis Villeneuve rappresenta alla perfezione tale abilità, grazie a una dimensione onirica percepita dalla prospettiva del protagonista che vede i possibili destini convergenti verso l’inevitabile strada maestra del Sentiero dorato: la fine di tutte le cose e il loro nuovo principio, in una spirale deterministica senza via di fuga (o quasi).

La lettura dei romanzi è d’obbligo per comprendere appieno le sfaccettate regole dell’universo creato da Frank Herbert, le quali determinano l’agire dei personaggi; seppur, non necessaria per capirne le motivazioni nel Dune di Denis Villeneuve che, insieme agli autorevoli sceneggiatori Eric Roth e Jon Spaihts, semplifica diversi aspetti in maniera assai elegante e, soprattutto, in modo così efficiente da non gravare troppo la narrazione di superflui dettagli.

Il mélange, altrimenti detto Spezia, è rappresentato in modo assai convincente: lo si vede letteralmente scorrere sull’iridescente sabbia del meraviglioso deserto di Arrakis, cangiando il quadro fotorealistico con una patina color dell’oro. Il Dune di Denis Villeneuve ha una ricchezza visiva così inebriante che sembra quasi di poterla assaporare: ammaliante è vedere l’infrangersi della sabbia sulle rocce, quasi fosse un oceano le cui dune sono le sue onde, in perenne movimento. La Spezia ha un ascendente misterioso sul giovane principe Paul Atreides, la cui famiglia deve trasferirsi su Arrakis per ordine dell’Imperatore Shaddam IV allo scopo di sovrintendere l’estrazione del prezioso mélange; compito affidato, prima del loro arrivo, alla famiglia Harkonnen che trama di riottenere il perduto potere. L’onesto e imperturbabile duca Leto Atreides è costretto, così, ad allontanarsi da Caladan, l’oceanica patria natale, per guidare con saggezza la famiglia su Dune e preparare il figlio Paul a condurre il gioco della realpolitik cosmica. Paul è tormentato da sogni adolescenziali albergati da Chani, un’intrigante ragazza del deserto dagli occhi azzurri come lapislazzuli, che apre al giovane le porte verso il Sentiero dorato, ovvero il suo predestinato fato: diventare un messia intergalattico per i guerrieri Fremen, il popolo autoctono del pianeta Dune che lo reclama a gran voce. Denis Villeneuve mostra alla perfezione il loro modus vivendi, attraverso la mente e gli occhi del giovane Paul Atreides che prova sulla sua stessa pelle il significato e l’esperienza di diventare un beduino del deserto.

Paul è al centro di questa travolgente epopea spaziale che combina l’intrigo shakespeariano a epiche battaglie incendiarie il cui teatro è un diorama desertico che può essere “contenuto” solo dal grande schermo di cui Denis Villeneuve sfrutta al massimo le dimensioni, eccedendo anche nella resa prospettica. Grazie proprio alla sua esperta regia, la trasposizione definitiva di Dune è resa attraverso l’evocativa rappresentazione di un mondo ricco di dettagli visivi e sonori che incorniciano un sorprendente e coinvolgente affresco spaziale; d’altronde, l’opera di Frank Herbert giustappone la più classica delle fiabe fantastiche, in cui l’eroe deve affrontare un arduo percorso disseminato di insidie per lui e la sua famiglia, e archetipi gotici: si vedono, ad esempio, sinistre suore spaziali in abiti fluttuanti discendere da pachidermiche astronavi incombenti e l’approvazione di trattati interplanetari, vergati su desuete pergamene con sigilli di ceralacca, a fronte di palazzi adornati con giganteschi arazzi e decorati con nobili fregi in legno. Tutti i personaggi sembrano dame o cavalieri privati del loro elmo per mostrare un volto ottenebrato da una profonda oscurità, abitanti enormi bastioni dal carattere brutalista, fatti di cemento e granito levigato, edificati su sconfinate distese soleggianti, o battute da un’incessante pioggia che si abbatte sulle oscure prigioni dell’imperiale pianeta-prigione di Salusa Secundus — luogo d’addestramento dei Sardauker, le truppe d’élite dell’Imperatore, che traggono forza dal sangue dei nemici caduti prima di scendere in battaglia grazie a micidiali e silenziosi jetpack — o sulle immense distese oceaniche del domestico pianeta Caladan, patria degli Atreides: un luogo squisitamente plumbeo, il cui arredamento è scevro dai tipici fronzoli ornamentali di stampo medievale. Il palazzo ducale sottintende due nature distinte, ma intrecciate: la perenne, temeraria lotta contro un avversario imprevedibile — simboleggiato da un toro — e un legame con gli antichi avi d’un tempo — rappresentato dal sacrario degli antenati Atreides — che mette in evidenza l’atemporalità del desiderio di dominare con saggezza e perpetuare la stirpe, tracciando una linea che intercorre tra passato e presente; poiché, il futuro è su Arrakis.

Nel Dune di Denis Villeneuve, il tema del saccheggio delle risorse del deserto di Arrakis entra in risonanza con la manipolazione e lo sfruttamento dell’Occidente nei confronti del resto del mondo: dal Colonialismo, alla Guerra del Golfo, fino ad arrivare alla Guerra al Terrore. Il tema del conflitto è esplicitamente pervasivo, anche grazie al direttore della fotografia Greig Fraser (Rogue One: A Star Wars Story) che applica un sigillo visivo di stampo prettamente bellico: velivoli simili a libellule sfrecciano davanti alla telecamera come gli elicotteri da combattimento nella Guerra del Vietnam, che comunicano tra loro attraverso apparecchi radiofonici tipici del Ventesimo secolo. Il regista trae proprio ispirazione da Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, Black Hawk Dawn e Le crociate di Ridley Scott e Lawrence d’Arabia di David Lean. Il titanico dipinto visivo è corroborato dalla roboante partitura ipnotica di Hans Zimmer che scatena lamentosi cori femminini, elettriche pulsazioni, snervanti percussioni e medievali cornamuse, con uno stile inedito, senza strumenti orchestrali, ma attraverso boati, grida, rumori e suoni ambientali davvero evocativi, assurgendo la space opera a un melodramma cosmico, ammaliante per i sensi.

Il prologo mostra l’esercito degli Harkonnen lasciare improvvisamente Arrakis: un’immagine agghiacciante alla luce del recente e caotico ritiro dell’esercito statunitense dall’Afghanistan, ovvero da un conflitto, come suggerisce anche la storia di Dune, generato dalla ricchezza. È sempre affascinante vedere un’opera di fantascienza alle prese con l’aspetto economico della politica e le famigliari lotte di potere intestine — come nel low fantasy Il trono di spade —, assumendo, però, un’allure interplanetaria; tuttavia, la scelta di NON mostrare l’Imperium, ovvero l’imperatore Shaddam IV di casa Corrino, la principessa Irulan, sua figlia, che invece introduceva la narrazione nel Dune di David Lynch, e anche il nipote del barone Harkonnen Feyd-Rautha, è singolare, ma congeniale alla visione di Denis Villeneuve che evita, così, di inserire ulteriori elementi sulla scacchiera galattica, gettando ottime basi narrative in previsione della Parte Due, la quale, molto probabilmente, avrà un registro narrativo differente e si concentrerà su tutt’altri elementi. Di fatto, Denis Villeneuve sorvola nel descrivere le mansioni di alcuni personaggi, come l’importanza dei Mentat — Thufir Hawat (Stephen McKinley Henderson) e Piter de Vries (il convincente David Dastmalchian) — o dei Dottori Suk — il Dottor Yueh (Chen Yang) —, preferendo mostrarne direttamente le abilità — scelta, a mio avviso, efficace, poiché sufficiente a disvelare la loro funzione all’interno della storia —, così come preferisce non soffermarsi sulla corporazione della Gilda Spaziale, né tanto meno sul Landsraad, che comunque menziona, suggerendo solamente la loro funzione all’interno dell’ingranaggio politico; sulla falsa riga delle perfette linee di dialogo che George Lucas scelse di far pronunciare al governatore Tarkin in Guerre stellari, per mostrare con semplicità e immediatezza il quadro politico della Galassia, anche gli sceneggiatori di Dune cesellano ogni parola in modo sublime ed efficace. Il risultato dona al tutto un senso di chiarezza, estraneo ai precedenti adattamenti.

Di carne al fuoco ve n’è così tanta che la scelta di concentrarsi quasi esclusivamente sulla famiglia Atreides, di cui sono disvelate le nobili origini, è vincente; mentre, degli Harkonnen si riesce a saggiare l’opulenza e la venale brutalità, quasi vampiresca per concezione. Ciò nonostante, la natura delle famiglie è irrilevante nell’economia galattica: l’unica cosa che conta è riuscire ad aumentare le quote di Spezia; di fatto, Denis Villeneuve non rinuncia a denunciare (sottotraccia) anche il capitalismo. Ci sono così tante idee che affiorano dalla visione di una così suprema bellezza artistica che il solo ammirarla coinvolge e affascina a tal punto da lasciare estasiati; infatti, mentre le immagini scorrono, come se si stesse osservando una delle più belle mostre fotografiche di immoti paesaggi, si ha il tempo di soffermarsi — il lento ritmo della narrazione lo concede — a sviluppare i propri pensieri sulla disuguaglianza, la scarsità di risorse, la crisi climatica, la guerra, il feudalesimo, il viaggio nello spazio, il piano onirico dell’esistenza, la genitorialità, l’unione parassitica tra essere umano e natura e molto altro ancora. Come se ciò non bastasse, tutto è imbrigliato nella fitta rete della tradizione generazionale, attraverso la comunicazione e l’utilizzo di diversi idiomi e strani linguaggi gestuali: un inno alla diversità e la relazione sociale, evidenti dal cambio di identità del planetologo Liet-Kynes — nel romanzo un uomo caucasico, qui una donna afroamericana col volto di Sharon Duncan-Brewster — e dalla recitazione sorprendentemente sommessa degli attori, a tratti muta, impassibile, compassata, solenne, ma non imperscrutabile, anzi, necessariamente mimica ed empatica.

Oscar Isaac è fenomenale nei panni del duca Leto, così come Jason Momoa che si distingue particolarmente dai ruoli passati, complice il bellissimo rapporto con l’amico-pupillo Paul e la particolare raffinatezza delle scene di combattimento che lo vedono campione indiscusso; completa il magnifico parterre, la presenza di altri giganti, come Josh Brolin Gurney Halleck, il mentore di Paul —, Javier Bardem — Stilgar, il cacciatore dei Fremen —, Charlotte Rampling — Gaius Helen Mohiam, la sinistra reverenda madre Bene Gesserit — e Dave Bautista — Rabban, il nipote del barone Harkonnen —, sempre più bravo e a suo agio in ruoli drammatici (e che deve molto a Denis Villeneuve per la piccola parte in Blade Runner 2049 che, a suo dire, gli ha aperto molte più porte rispetto al più famoso ruolo di Drax nei Guardiani della galassia di James Gunn); infine, come non menzionare la gigantesca prova attoriale di un irriconoscibile Stellan Skarsgård, nel ruolo del barone Vladimir Harkonnen, la cui presenza scenica trasuda carisma da ogni gesto ed espressione — assimilabile a quella di Marlon Brando nel ruolo del colonnello Walter E. Kurtz in Apocalypse Now. Il temibile, edonistico, subdolo, mostruoso Barone, libra a mezz’aria la pachidermica mole del suo corpo, avvolta in un costume color dell’ebano, per torreggiare sui suoi insulsi servitori, o sprofondare in vasche di nera pece come un maiale in un trogolo, quando non si nutre come il più fagocitante degli animali — analogamente come, ne Il ritorno del re, il sovrintendente Denethor degusta il suo prelibato banchetto, mentre i soldati cadono in battaglia. Un antagonista che, in realtà, non rappresenta una minaccia diretta per Paul — piuttosto per la sua famiglia —, ma un’immensa, oscura ombra che sovrasta lo spirito del giovane eletto, schiacciando, infierendo, mortificando, devastando ogni cosa al suo passaggio. L’alter ego dell’imperatore Palpatine di Star Wars, ma con la sostanziale differenza che, per il Barone, l’essere malvagio deriva da un bisogno irrefrenabile di saziare la sua fame e i suoi istinti più lussuriosi, in modo molto più articolato e volubile: più vicino all’archetipo del magnate alla ricerca di sempre maggior ricchezza, che non di un piatto supercattivo con oscuro e illimitato potere. L’interpretazione più ricca di sfumature, tuttavia, è quella di Rebecca Ferguson — Lady Jessica, la concubina del duca Leto —, conflittuale matriarca Atreides, che incarna il tumulto emotivo di un personaggio che è sia una madre appassionata sia una fervente e potente Bene Gesserit, in possesso della Voce — Denis Villeneuve rende tanto seducente, quanto terrificante, il suo incredibile potere. Per quanto riguarda, infine, Timothée Chalamet nel ruolo del protagonista, non si può che restare ammutoliti: gli zigomi pronunciati, il fisico esile, ma agile, e gli occhi pieni di (ri)sentimento, donano al suo Paul un carattere insperato. Come Ryan Gosling in Blade Runner 2049, non ha molte battute, il che rende la sua interpretazione fascinosamente ambigua. È coinvolto o distratto? È destinato a diventare un cauto leader o un temibile regnante? Una scelta di casting semplicemente perfetta, così come la sua interpretazione che riconferma le incredibili doti recitative ed espressive di un attore in perpendicolare ascesa.

Trasposizioni cinematografiche a confronto

Nell’universo delle space opere cinematografiche, in cui Star Wars è il franchise più popolare, Dune mai è stato rappresentato come avrebbe meritato; una curiosa e beffarda ironia, se si considera che Frank Herbert, vedendo la genesi e la crescita della creatura di George Lucas, affermò di aver identificato molti e diversi punti di diretto confronto tra il mitico blockbuster lucasiano — concepito con la paura di essere un fallimentare esperimento in cui credeva solo il suo creatore — e il suo romanzo Dune — negli anni Settanta ancora privo, o meglio privato, di trasposizione sul grande schermo —; tuttavia, la mole scoraggiante di pagine, gli intrighi di potere, la visione ecologicamente sensibilizzante e il brillante parterre di personaggi, dal più stoico al più mostruoso, del biblico volume di Frank Herbert hanno assunto, nel tempo, un valore sempre più grande. Dune, considerato uno dei romanzi capostipite della fantascienza moderna, vinse alla sua prima edizione i più prestigiosi premi di settore, tra cui l’Hugo e il Nebula; inoltre, il prosieguo della saga letteraria — oggi grazie al figlio Brian Herbert e lo scrittore Kevin J. Anderson — donò una dimensione ulteriore all’opera che divenne presto un imprescindibile cult, visti e considerati i numerosi tentativi di adattamento; tentativi fallimentari, seppur aureolati per essere stati martirizzati e successivamente santificati a lavori incompresi. Dopo due trasposizioni sul grande schermo e due dimenticabili miniserie televisive, ecco che Denis Villeneuve, regista del sequel impossibile di Blade Runner, compie un altro miracolo. Ma torniamo indietro, ripercorrendo il calvario che ha reso Dune un martoriato cult maledetto.

IL DUNE DI ALEANDRO JODOROWSKY: UN SOGNO IRREALIZZABILE E IRREALIZZATO

Negli anni Settanta, Warner Bros. ebbe in cantiere di trasporre su grande schermo il gigantesco Dune per cavalcare l’onda del successo de Il pianeta delle scimmie (1968). La major incaricò David Lean, esperto di kolossal, per dirigere il film — viste e considerate le similitudini sceniche e con il soggetto del capolavoro Lawrence d’Arabia del 1962 —; tuttavia, i diritti passarono al produttore francese Jean Paul Gibon che, nel 1975, incaricò di compiere il primo sforzo — fondamentale nel panorama della fantascienza — al visionario Alejandro Jodorowsky, il cineasta dietro La montagna sacra (1973), considerata da molti un’allucinante e geniale follia. L’anticonformista, e a tutto tondo, artista cileno, vedendo nell’opportunità un modo di comunicare direttamente ai giovani, attraverso un’opera che avrebbe dovuto, secondo suo estro, cambiare il cinema per sempre, coinvolse i talenti artistici unici di H.R. Giger — il futuro “inventore” dello xenomorfo —, Chris Foss — altro geniale futurista — e del fumettista francese Jean Giraud alias Moebius — uno dei più influenti disegnatori per le successive generazioni — per avviare la pre-produzione sulla progettazione scenica di una delle più grandi e onerose opere cinematografiche MAI realizzate. Per la composizione della colonna sonora furono contattati, tra gli altri, i Gong, i Tangerine Dream e i Pink Floyd; mentre, il compito di realizzare gli effetti speciali visivi fu affidato al team che poi avrebbe lavorato, guarda caso, a Guerre stellari (1977).

L’ardire nella realizzazione del “kolossal dei kolossal” non si fermò certo qui; per il cast furono contattati Orson Welles — per il ruolo del barone Harkonnen —, Mick Jagger, Alain Delon, David Carradine, Gloria Swanson — la diva del muto —, Udo Kier e, niente meno, che Salvador Dalì per il ruolo dell’Imperatore — e Amanda Lear, la sua musa dell’epoca. I mostri sacri richiesero, però, grandi ricompense: per dirne un paio, Salvador Dalì pretese 100.000 dollari all’ora per pochi minuti di minutaggio — per il resto, ci avrebbe pensato un animatronic — e Orson Welles la visita quotidiana del suo chef preferito per cucinargli ciò che desiderasse. Insomma, l’ingranaggio cinematografico di Dune, preparato e ben oliato dai bozzettisti che ultimarono gli story board e il design delle astronavi, era pronto a partire; tutto era pronto per essere avviato, ma la paura della major fu troppo grande, visti gli esorbitanti costi produttivi che continuavano a salire. In pochi credettero nel regista e il suo progetto, come il produttore francese Michel Seydoux. Degli oltre dieci milioni stanziati — per l’epoca un’esorbitanza —, Aleandro Jodorowsky ne aveva utilizzati già due e i finanziatori cominciarono a ritirarsi quando, da un normale film della durata di due ore, il regista ne volle dilatare la portata a dieci. Prevedibilmente, l’affare si trasformò in un cul-de-sac, al punto che il collaboratore Dan O’Bannon perse i suoi investimenti; successivamente, il noto produttore, assieme a Ronald Sushett, finanziò quello che sarebbe diventato un imprescindibile cult: Alien (1979), diretto da Ridley Scott.

IL DUNE DI DAVID LYNCH: UNA CONTROVERSA REALIZZAZIONE

E fu proprio Ridley Scott, dopo lo straordinario successo del suo horror fantascientifico, a essere contattato dal noto produttore Dino De Laurentiis, entrato in possesso dei diritti di Dune, per lavorare su una nuova trasposizione; tuttavia, il regista britannico preferì allontanarsi — oltre che per l’entità della produzione, anche per motivi personali — e dedicarsi a un progetto più “contenuto”: Blade Runner (1982). Lavorando a stretto contatto con lo stesso Frank Herbert, il magnate incaricò, così, David Lynch di assumere le redini del progetto, reduce dal grottesco Eraserhead (1977) e il drammatico The Elephant Man (1980).

Lo sforzo di David Lynch può sembrare una passeggiata al confronto del primo, mastodontico tentativo di Aleandro Jodorowsky. Di fatto, nonostante i colossali difetti nell’esecuzione della magnificente storia di Frank Herbert, il lavoro di David Lynch fu certamente eccezionale per l’epoca; tuttavia, l’eclettico ed ermetico regista commise il più fatale degli errori in ambito di adattamenti: non leggere l’opera, prendendosi alcune libertà coi fondamenti della trama — imperdonabile l’introduzione dell’assurda tecnologia del modulo estraniante —, specialmente sul finale. In realtà, a sua discolpa, ciò gli fu imposto dalla major per mitigare il fatto che George Lucas avesse già catturato una serie di caratteristiche esclusive dell’universo di Dune. CURIOSITÀ: Il regista Danny Cannon avrebbe avuto un simile problema alcuni anni più tardi, con il suo adattamento cinematografico di Dredd (1995), dopo che gli sceneggiatori di RoboCop (1987) ebbero “saccheggiato” le peculiarità distintive del fumetto.

La struttura dell’opera di Frank Herbert è così estremamente articolata e meticolosamente dettagliata che il taglio teatrale di “soli” 140 minuti faticò a mostrare una storia coesa; questo, indubbiamente, contribuì alla scarsa accoglienza ricevuta nelle sale, sebbene l’opera di David Lynch incuriosì abbastanza gli spettatori da consentire alla compagnia di Dino De Laurentiis di rielaborare il montaggio e rilasciare una versione di tre ore per la televisione. Alcune delle scene più crude e suggestive furono rimosse, assicurando, così, il pubblico che tale versione sarebbe stata un’esperienza meno frustrante, ma più completa, lontana dalla visione originale del regista che, di fatto, si oppose con forza sufficiente a ritirare il suo credito dall’edizione estesa, da lui considerata apocrifa, utilizzando lo pseudonimo — comune nell’ambiente per tali circostanze — di Alan Smithee. Ma la storia degli adattamenti di Dune non finisce certo qui.

Altri autori tentarono di compiere ciò che, nel tempo, assunse la connotazione di “missione impossibile”. Nel 2000, infatti, John Harrison decise di cambiare mezzo, realizzando una miniserie televisiva, avente durata di quasi cinque ore; ciò nonostante, anch’essa compromise e omise un certo numero di elementi, seppur il risultato finale fosse più fedele alla storia originale, ma con effetti speciali visivi e una messinscena da budget televisivo — nonostante la presenza di William Hurt e Giancarlo Giannini — che non resero comunque giustizia alla maestosità scenica e narrativa del romanzo.

Da tempo, ormai, si attende un restauro completo e originale dell’opera del 1984, supervisionato da David Lynch; tuttavia, probabilmente, mai si potrà vedere il suo personale cut: ciò che resta, al momento, è un’opera imperfetta, ma indubbiamente ingegnosa e di stravaganza lynchiana, avvolta in un mélange di perverse, vivide immagini e una gloriosamente sinistra malvagità narrativa. Ma torniamo ad analizzare alcuni aspetti del Dune di David Lynch per aiutarci a comprendere meglio la transizione verso il Dune di Denis Villeneuve. L’esempio più incisivo che suscitò un senso di straniamento nel vedere il cult fantascientifico degli anni Ottanta fu di far ascoltare i pensieri dei personaggi, come se stessero dialogando: elemento distintivo nel romanzo che difficilmente può essere trasposto col voice over nel mezzo visivo — tecnica funzionale, che personalmente apprezzo molto, ma non sempre adattabile. Proprio a causa di soventi fermi immagine sui primi piani dei personaggi, vagamente pensierosi e, nel peggiore dei casi, del tutto vacui, il risultato passò dalla diffidenza verso tale tecnica, alla bizzarria nella sua esecuzione; inoltre, lo spettatore medio si sentì ulteriormente distaccato dalla scarsa “masticabilità” di alcuni dialoghi, dal particolare registro scelto e dalle interpretazioni fin troppo teatrali del cast; nonostante tutto, però, alcune prove risultarono memorabili — ricordate ancora oggi —, in particolare: Kenneth McMillan — un irascibile barone Harkonnen —, la cui espressione era completamente investita di malefica gioia e trasudante disprezzo, Brad Dourif — un eccentrico Piter de Vries —, perfetto nell’esprimere la folle dedizione del personaggio al suo padrone, e Kyle MacLachlan — Paul Atreides, il giovane protagonista, definito da un tratto più lynchiano che herbertiano —, attore-feticcio di David Lynch.

Nonostante le tante carenze, Dune riuscì comunque a rendere abbastanza bene la storia nel suo insieme. Sting fu terribile, ma la musica dei Toto entrò a pieno titolo tra le più riuscite soundtrack dell’epoca, grazie anche al prezioso contributo di Brian Eno sul tema caratteristico. L’ago della bilancia rimaneva nel mezzo. Per ogni difetto, compensavano un Patrick Stewart e un Jack Nance, per ogni grottesco effetto visivo — ce ne furono diversi —, sontuosi dettagli e virtuosismi scenici, e per ogni goffo verme della sabbia, uno sgargiante fondale, dipinto con maestria dal geniale artista Syd Dutton. Alla fine, di fronte a una sceneggiatura incredibilmente contorta e priva di comprensibilità — per il frequentatore occasionale delle sale cinematografiche —, il salvatore di una produzione destinata (nuovamente) al collasso fu lo stesso David Lynch.

In conclusione, non vedo alcun motivo per cui il Dune di David Lynch debba essere apprezzato meno delle altre sue opere, ancor più insondabili, ma comunque straordinariamente brillanti; tuttavia, per coloro che non conoscono David Lynch e avessero intenzione di avvicinarsi per la prima volta ai suoi lavori, Dune è l’ultimo suo film che consiglierei. Nonostante tutto, Dune offrì l’opportunità di veder trattare il regista con alti temi sociologici, in una narrazione immortalata da immagini futuristiche in 70 mm coordinate dal talento creativo del direttore della fotografia Freddie Francis, su panorami del tutto più grandi di The Elephant Manal contrario, strettamente concentrato e claustrofobico. L’assenza dello spirito caratterizzante l’opera letteraria di Frank Herbert, l’ingombrate presenza della famiglia di Dino De Laurentiis, la partecipazione di un cast di tutto rispetto — a parte, ripeto, la discutibile scelta di Sting — e la gloria visiva — per gli standard dell’epoca — resero Dune un prodotto avente una sensibilità del tutto diversa da qualsiasi altro blockbuster mainstream; con la possibile eccezione di Flash Gordon (1980), il precedente, eminente fallimento di Dino De Laurentiis, ma questa è un’altra storia. Per lo spettatore esigente, infatti, indifferente al fascino mainstream e affamato di sensazioni, il Dune di David Lynch non può che essere un succoso, brillante e stravagante successo. Un cult maledetto, negli anni trasformato, rimontato, riconsiderato e reinterpretato da maestosamente epico a ignobilmente difettato: un’abominazione incompresa.

IL DUNE DI DENIS VILLENEUVE: UN RIFACIMENTO NECESSARIO

Dopo lunga e agognata attesa, ecco che Dune ha una veste del tutto rinnovata, ma non così avulsa dall’opera di David Lynch. Un remake, dunque?! Niente affatto. Forse Denis Villeneuve condivide più con Aleandro Jodorowsky che con il creatore di Twin Peaks, in quanto il regista franco-canadese ha dalla sua la grande passione per l’universo creato da Frank Herbert; fin da adolescente, infatti, Denis Villenueve ha sognato di poter trasporre l’opera che l’ha ispirato. L’occasione è arrivata dopo i grandi successi di critica di Arrival e Blade Runner 2049due capolavori che, piacenti o meno, hanno ridefinito la fantascienza in questi ultimi anni. La scelta più importante di Denis Villenueve è stata di non rinnegare il lavoro di David Lynch, ma neanche rifarsi alla sua eccentrica visione; l’intenzione, di fatto, è stata di trasporre visivamente le immagini scaturite dalla sua mente quando lesse il libro in gioventù, utilizzare meno ambientazioni digitali possibili — il deserto di Arrakis è quello autentico di Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, mentre le distese oceaniche di Caladan sono viste dalle splendide coste norvegesi della penisola di Stad — e, decisione più importante, dividere la sua opera più personale in due parti — analogamente a quanto accaduto all’efficace e convincente trasposizione di IT di Stephen King per mano del regista Andy Muschietti.

Nonostante il Cinema non sia certo nuovo alle trasposizioni stenografiche di epici romanzi, è proprio la storia cinematografica e televisiva di Dune che ha suscitato estremo interesse nell’adattamento di Denis Villeneuve che, come fece Peter Jackson prima di lui con Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, ha (ri)portato il mondo di Frank Herbert all’attenzione di tutti, evidenziandone i tratti caratteristici e i riflessivi contenuti distopici, riuscendoci pienamente e, cosa più rilevante, lasciandone intatta l’essenza.

Con un brusco cliffhanger finale, che fa implorare la realizzazione del necessario sequel, si avvera un sogno di un grande regista, ma anche dei colleghi che l’hanno preceduto. Dune è un’opera plumbea, scolorita nelle tonalità visive, ma sgargiante nel carattere ambiguo dei personaggi che abitano un universo tenebroso, ammantato di una fantascienza di stampo militare, travolgente per la sua regalità e maestosità che assuefa come una droga, immagine dopo immagine. Una messa da Requiem che ha tutti gli elementi per far breccia nel cuore dei giovani — complice la natura del romanzo capostipite di Frank Herbert —, di cui il regista Denis Villeneuve racconta il dramma con ardore, contrapposto a controllata dedizione, e con uno stile narrativo asciutto, prosciugato di superflui fronzoli narrativi. Quasi didascalicamente, gli sceneggiatori cesellano ogni elemento e ne selezionano i migliori per portare in auge un’opera che, fin dal principio, meritava questo: una storia dall’allure epica e generazionale che (non) si conclude con la convinzione che il secondo ed eroico atto coroni la maestosa e definitiva (space) Opera cinematografica; un lavoro destinato ai posteri — a coloro che, attraverso l’opera più intima di uno dei più grandi registi del nostro tempo, disveleranno il velo di meraviglia posato sul mondo fantastico di Frank Herbert —, in cui è doveroso trovare risposta ai quesiti sociali e alle domande filosofiche verso una più alta consapevolezza della realtà in cui viviamo. Perché è questo che fa — deve fare — la fantascienza: aprire la mente su situazioni possibili, seppur remote, e sviluppare condizioni di vita ancor più probabili in cui potrebbe imperversare l’essere umano. Un’altra opera generazionale ha inizio. L’opera generazionale definitiva. Vergata da Denis Villeneuve, il Kwisatz Haderach dei registi moderni.

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Alessandro Pin
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Sono un appassionato di fantascienza. Mi piace scrivere e condividere la mia passione, tra incredibili viaggi e immaginifici universi.