Memorie di un aut(o)editore / 1

Il self-publishing in Italia: dal print-on-demand all’e-book — PRIMA PARTE

Mirko Visentin
Storie di libri

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Auteditori o autoeditori?

L’antologia “9 poeti esordienti”. Uscita nel 2003 con il marchio “edizioni DN”, decretò in realtà la nascita del progetto Auteditori.

Mi occupo di autoeditoria (o self-publishing che dir si voglia) dal 2003, ovvero da quando, assieme ad un gruppo di amici e colleghi di università, diedi vita al Gruppo di Autoproduzione Editoriale Auteditori (senza ‘o’…).

auteditori [au-te-di-tó-ri]s.m.pl. Gruppo di giovani scrittori esordienti, attivi a partire dai primissimi anni del XXI secolo nell’Italia nord-orientale, impegnati nello sviluppo del progetto editoriale omonimo consistente nella creazione da un lato di un vasto catalogo di opere dall’elevato valore artistico-letterario, dall’altro di una rete di scrittori, fumettisti, illustratori, cantautori interessati al confronto creativo e all’autoproduzione. […] ¶ Fusione dei due sostantivi autori e editori.

All’epoca il fenomeno del self-publishing, già maturo nel mondo anglosassone e statunitense, non era ancora sbarcato a pieno titolo in Italia, un po’ per questioni tecnologiche, ma a mio avviso più per una questione culturale, in quanto pagare un editore perché fingesse di pubblicare la tua opera permetteva — e permette tutt’ora — di indossare quella veste di prescelto che tanto valore ha nei salotti letterari dell’infinita provincia italiana.

Fu anche in opposizione all’ipocrisia delle edizioni a pagamento, dunque, che nacque la nostra idea di farci orgogliosamente editori di noi stessi, mettendo assieme la passione per la scrittura e la lettura, la conoscenza dei nuovi strumenti di desktop publishing e la dimestichezza col web.

In quei primi anni del XXI secolo autopubblicarsi significava ancora tirar fuori dei soldi, quanto meno per la stampa. E per quanto avessimo optato fin da subito per un formato molto spartano (10 x 15 cm, rilegatura a punto metallico, massimo 64 pagine) il tipografo ci avvisò che sotto le mille copie non si sarebbero ammortizzati i costi di avviamento, quindi, tanto valeva.

Col primo esperimento, nell’estate del 2003, ce la cavammo stringendoci tutti dentro un’antologia di 64 pagine, stampata a prezzo sociale a Barcellona (dove risiedevo per uno stage in casa editrice). La seconda esperienza (la prima col nome Auteditori) la finanziò la Regione Veneto grazie a un bando per progetti giovanili. La terza ed ultima (quella “seria”, con tanto di ISBN e distribuzione in libreria)… be’, quella ce la dovemmo pagare di tasca nostra.

Print-on-demand… made in Italy

Gli ultimi quattro titoli usciti nella collana Auteditori (2006): “I baci ai muri” di Silvia Salvagnini, “Giona” di Enrico Lucchese e Fabio Favaretto, “Skate or Die!” di Roberto Cesaro e “Decide your life” del sottoscritto.

Gli ultimi quattro volumi pubblicati col marchio Auteditori uscirono nel marzo del 2006. Più o meno in quello stesso periodo la soluzione che avrebbe spianato definitivamente la strada all’autopubblicazione di massa in Italia stava per arrivare, e stava per arrivare dal web. Il suo nome era print-on-demand — ‘stampa su richiesta’, anche in copia unica — ovvero la frontiera estrema della stampa digitale in bassa tiratura. Una tecnologia che esisteva in potenza già da anni, ma che ora, grazie allo sviluppo tecnologico della rete, poteva finalmente permettere a qualunque autore di sottoporre ai suoi potenziali lettori la sua opera senza dover sottostare al filtro di un editore e senza dover pagare nulla, perché l’opera sarebbe stata stampata e spedita al lettore-cliente soltanto nel momento in cui ne avesse fatto richiesta attraverso un’apposita piattaforma di e-commerce.

Il primo a proporre questa soluzione fu Lulu.com — la versione italiana del più famoso portale di self-publishing della rete, fondato negli USA nel 2002 — che però fu sorpassato nel giro di poco tempo da Ilmiolibro.it, piattaforma made in Italy, arricchita di un social network dedicato alla scrittura e alla lettura, ma soprattutto forte della sua appartenenza al gruppo editoriale L’Espresso.

Il futuro di un mestiere (e di un prodotto)

Video promozionale del progetto “Espresso Book Machine” fondato da Jeson Epstein nel 2003 e lanciato ufficialmente con l’installazione delle prime macchine per il print-on-demand nel 2006. La tecnologia ormai è obsoleta, ma la filosofia che la sottende è ancora attuale.

Si stava insomma concretizzando la profezia di Jeson Epstein, che avevo letto nel 2001 in un suo libro pubblicato in modo ancora estremamente tradizionale dall’editore milanese Sylvestre Bonnard: Il futuro di un mestiere.

I libri come oggetti materiali non scompariranno, sloggiati dagli impulsi elettronici letti su uno schermo luminoso portatile. Né spariranno le librerie. Coesisteranno invece con un vasto repertorio di testi digitali, assemblati da una molteplicità di fonti, eventualmente “marcati” per facilitarne la consultazione, e distribuiti elettronicamente. Da questo repertorio il lettore, sul computer di casa, potrà trasferire il materiale da lui scelto verso macchine capaci di stampare e rilegare singole copie a richiesta, macchine collocate in innumerevoli siti remoti e magari, a suo tempo, anche a casa sua. Uno di questi siti potrebbe essere un chiosco all’angolo della mia via di Manhattan, mentre il lettore che abita presso le sorgenti del Nilo o alle pendici dell’Himalaya avrà la mia stessa possibilità di accesso alla saggezza del mondo, dal chiosco a due passi da casa sua. La relativa tecnologia esiste già, in forma embrionale, e io l’ho vista. Il futuro che implica è ineludibile. Lo aspetto pieno di stupore e trepidazione.

Nell’ultimo capitolo, quello più “profetico”, Epstein — che definire editor è quanto meno riduttivo visto il ruolo che ha avuto in numerosi progetti editoriali statunitensi dal dopoguerra ad oggi — parla molto di web, e parla molto di Amazon, del suo modello di business a suo avviso suicida, perché se ai bassi margini di guadagno che hai su un libro aggiungi i costi logistici (magazzino, gestione ordine, confezionamento, spedizione), finisce che lavori in perdita.

Siamo però solo alla fine degli anni ’90 (il libro raccoglie e rielabora i testi di tre conferenze tenute nel 1999), e mancano almeno otto anni al concretizzarsi su larga scala dell’altra metà della sua profezia. Un processo che — oggi lo sappiamo — doveva passare proprio per Amazon, e che prende il nome di ebook e di Kindle, l’ebook reader per antonomasia. Non che all’epoca non esistessero già tanto i libri elettronici quanto i dispositivi per leggerli: quello che mancava era una progetto che mettesse assieme le due cose, che le integrasse, che creasse un “ecosistema”, e che si proponesse al maggior numero di persone possibili, preferibilmente lettori. E chi meglio di Amazon — la più grande piattaforma e-commerce di libri al mondo — poteva farlo?

Ebook all’italiana

Ebook del mio racconto “Voyeur in Barcellona” (Auteditori, 2004) visualizzato sul Kindle di Amazon.

Ma torniamo in Italia, dove la parola ebook viene ancora associata alla versione in pdf del libro cartaceo, e dove abbiamo lasciato Lulu.com e Ilmiolibro.it a contendersi il primato sul fronte del print-on-demand: una soluzione ottimale per gli autori intenzionati ad autopubblicarsi, anche se ancora abbastanza cara, sia per il lettore finale che per l’autore stesso nel caso in cui volesse acquistare una piccola tiratura per sé, e questo tanto per i costi di avviamento che per il margine che spetta ai gestori del portale. Ne è la prova il fatto che in quello stesso periodo io riuscivo ad avere dai miei fornitori tirature anche di 50 copie a prezzi drasticamente più bassi.

Quindi in Italia, ancora una volta, i tempi non sono ancora maturi, e per poter permettersi di mandare in pensione anche i costi di stampa, proponendo le proprie opere a costi più accessibili e con margini di guadagno maggiori (oppure, in via promozionale, gratuitamente, senza rimetterci nulla), i nostri patrii autori dovranno aspettare il 2011. Quel 2011 che per l’editoria italiana può essere definito “l’anno dell’ebook”.

Infatti, se è vero che è nel 2010 che Amazon inaugura Amazon.it ed Apple lancia l’iPad, presentandolo come un ebook reader all’ennesima potenza, bisogna aspettare l’autunno del 2011 perché da un lato l’iBooks Store (la piattaforma di distribuzione di ebook installata su tutti i dispositivi mobili di Apple) cominci a distribuire ebook in italiano, dall’altro Amazon lanci sul mercato un Kindle in italiano, aprendo inoltre le porte dell’Amazon Kindle Store anche ai singoli autori, con il progetto KDP (Kindle Direct Publishing).

Durate il 2012 si è assistito così al proliferare di piattaforme di creazione, promozione e distribuzione di ebook con il compito di smistare i libri digitali di editori e singoli autori verso i vari ebook store (anch’essi nel frattempo spuntati come funghi). Va da sé che i più ambìti rimangono quelli che possono contare su una connessione diretta tra ebook reader e piattaforma di vendita (il cosiddetto “ecosistema” digitale), dove è tutto a portata di mano, come è per Amazon ed Apple, e come ultimamente stanno tentando di fare altre realtà, tra cui l’italianissima Ibs.it con il suo reader Leggo, e la canadese Kobobooks, che grazie ad un proprio reader, ad un’applicazione per smartphone e tablet e ad un social network dedicato alla lettura (nonché ad un accordo chiuso di recente con Mondadori…), sembra destinata a guadagnarsi ben presto un posto di tutto rispetto anche qui da noi. Ma la rete è un proliferare anche di progetti più originali, come i due recentissimi — e italianissimi — 20lines.com e bookabook.it.

Questa ampia disponibilità di strumenti e mezzi, per di più gratuiti, ha dato anche in Italia una spinta ulteriore al self-publishing, con la conseguente inondazione della rete di opere che in altre epoche non sarebbero state non dico pubblicate, ma forse nemmeno concepite!

Il «lavoro editoriale»

Alcuni titoli della mia biblioteca “tecnica”.

Uno degli effetti — indesiderato quanto prevedibile e inevitabile — della sempre più ampia disponibilità di strumenti e mezzi per il self-publishing è stato l’abbassamento del livello di qualità del libro autoprodotto, sia esso cartaceo o elettronico: meno curato da un punto di vista redazionale (correttezza dei testi, adeguamento ai codici tipografici, anche a causa di un’eccessiva rapidità di produzione), meno curato anche da un punto di vista grafico (dalla scelta corretta della font, del corpo del carattere, dell’interlinea, alla corretta marginatura, fino ad una grafica di copertina degna di questo nome).

Succede così che tra le novità esposte sugli scaffali di una libreria Feltrinelli ci ritroviamo a sfogliare (a me è successo…) un volume autopubblicato tramite Ilmiolibro.it con testo composto in Arial, giustificazione piena ma senza sillabazione, numeri di pagina mal allineati, e chi più ne ha più ne metta. Un libro, insomma, palesemente impaginato con un programma di word processing, tipo Microsoft Word o OpenOffice, che se nelle mani di un buon grafico editoriale (al quale probabilmente è andato in crash InDesign…) può anche prestarsi all’impaginazione di un libro senza grandi pretese grafiche, nelle mani di uno scrittore privo di un’adeguata preparazione tipo-grafica e dei rudimenti di redazione rischia di contribuire alla realizzazione di un prodotto che invece di esaltare il contenuto lo mortifica.

Il “problema” è ben sintetizzato da Jeson Epstein nel suo libro:

Le nuove tecnologie muteranno radicalmente il modo in cui i libri sono distribuiti, ma non elimineranno la sostanza del lavoro editoriale.

Quel «lavoro editoriale» che — come scrive Dario Moretti nel suo saggio omonimo pubblicato da Laterza — «opera per passare inavvertito agli occhi dei lettori, pur essendo — anzi, proprio perché è — onnipresente».

L’auspicio è che questa “invisibilità” del lavoro editoriale non si trasformi in miopia degli autori…

Fine prima parte

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Mirko Visentin
Storie di libri

Book/Web/App designer fissato con la storia dell’editoria, della tipografia e della letteratura italiana. Mi occupo di UX e UI design per sputnikweb.it