Breaking Bad

Fabrizio Rinaldi
Feelmaking
Published in
44 min readMay 22, 2014

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La Chimica Della Serialità Contemporanea

di Fabrizio Rinaldi

Quella che segue è la versione intergrale della tesi di laurea scritta da Fabrizio Rinaldi nel 2013, con la supervisione del relatore Guglielmo Pescatore, per il DAMS Cinema di Bologna. Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione — Non commerciale — Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Si segnala inoltre che la scrittura è avvenuta prima della messa in onda degli ultimi 8 episodi della serie. Il testo contiene spoiler, ed è stato leggermente modificato dall’autore per la sua pubblicazione online.

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1. Introduzione

Quando, diversi anni fa, ho cominciato a guardare Dexter su consiglio di alcuni amici, bastarono pochi episodi per far sì che tra me, spettatore ancora ingenuo e inesperto, e la serie di James Manos si creasse un legame molto forte, qualcosa che andava al di là della semplice fidelizzazione. È bastata una stagione, infatti, a far diventare tale show un rituale quotidiano (dovevo recuperare le vecchie stagioni quindi avevo molto materiale da guardare). Mi resi conto del fatto che l’esperienza di spettatore che stavo vivendo andava al di là della mera fruizione.

In passato avevo già scoperto la serialità — ad esempio con Scrubs, Smallville e Family Guy — ma dovevo ancora conoscere la Quality Television. In seguito a questa scoperta, il mio amore per le serie non ha fatto che crescere, ed un fenomeno complementare ha accelerato il processo: gli studi condotti all’Università di Bologna hanno contribuito a fare di me uno spettatore critico. Le serie che ho avuto modo di scoprire e apprezzare in seguito — come Lost, The Good Wife, The Sopranos, The Wire e Mad Men, per citarne alcune — hanno reso il mio legame con la serialità sempre più saldo e fertile, e questa tesi è in un certo senso l’esito, o quanto meno una tappa, di tale percorso di scoperta.

Da appassionato dello storytelling in tutte le sue forme, ho appreso con grande piacere che la serialità americana contemporanea costituisce uno dei più sofisticati e complessi modi di raccontare storie al pubblico di oggi. Quello che ho capito — prima seguendo le vicende di un poliziotto/serial-killer (Dexter, appunto) e poi affezionandomi ad altri sociopatici più o meno violenti, da Tony Soprano a Don Draper fino a Walter White — è che la serialità estende la narrazione, dà respiro ai personaggi e permette agli autori di esplorare tutte le sfumature e tutte le possibilità, se vogliono e se ne son capaci, si intende.

Infine, la serialità entra nei salotti delle case, nella vita di tutti i giorni, come il cinema non riesce a fare se non attraverso prodotti collaterali e contestuali, portando sui nostri schermi personaggi e temi che sembrano non trovare più spazio sul grande schermo. La terza Golden Age della televisione — in cui stiamo vivendo e alla quale talvolta ci si riferisce con ‘TVIII’ (MCCABE & AKASS 2007, p. 38) — ha comportato un cambiamento fondamentale: se cerchiamo uno show maturo, un drama per adulti, non andiamo al cinema ma ci sediamo sul divano di casa (SEPINWALL 2012, pp. 4-5). Parliamo di terza Golden Age e non seconda per distinguere i suoi prodotti da quelli a cui si riferiva Robert J. Thompson nel suo Television’s Second Golden Age.

Personale esperienza di visione e studio mi hanno accompagnato attraverso la serialità, ma c’è un terzo elemento che mi ha agganciato ad essa: la dimensione sociale della fruizione televisiva contemporanea. Mi riferisco all’esperienza di visione collettiva che avviene nel ‘salotto virtuale’ che si viene a costituire nei social network. Su questo argomento si potrebbe scrivere un capitolo intero, se non un libro, ma non è possibile dire nulla di definitivo visto che grandi cambiamenti sono tutt’ora in atto: basti pensare a Netflix e al suo House Of Cards, le cui stagioni vengono pubblicate online come blocchi di episodi. Un fatto del genere comporta significativi cambiamenti nella percezione che la comunità online ha del prodotto.

Se il cinema è attrazione ed evento — non è un caso se tutt’ora i media utilizzano l’espressione cinematic event — la serialità televisiva è prima di tutto continuità e quotidianità. Proprio questa espansione fa sì che, paradossalmente, finiamo per conoscere i personaggi delle serie che seguiamo persino meglio delle persone che conosciamo nella ‘vita reale’. La serie elabora — e ci fa elaborare — le conseguenze di ogni azione e avvenimento laddove il cinema è costretto a farne una sintesi. Breaking Bad, oggetto di questa tesi, porta il fenomeno alle estreme conseguenze trasformando la serie in un laboratorio/esperimento in cui ad ogni azione corrisponde una reazione, in cui ogni personaggio si muove come una formica in un labirinto, in cui ogni puntata è il tassello imprescindibile di un puzzle.

Se ho scelto, dunque, di soffermarmi proprio su questa serie è perché ritengo che in essa sia possibile individuare la maggior parte degli elementi ai quali abbiamo accennato; a differenza di molti suoi predecessori, lo show di Vince Gilligan, arrivato alla quinta e ultima stagione, ha dimostrato di saper elaborare il rapporto con lo spettatore in modo nuovo e coraggioso. È una serie, questa, che inizialmente fu descritta dal suo stesso creatore come «the goddamn stupidest idea I’ve ever heard» e da altre personalità di spicco dell’industria televisiva statunitense come «the single worst idea for a television series I’ve ever heard in my life» (SEPINWALL 2012, 340).

Di Breaking Bad si possono dire molte cose, ma gli aspetti su cui ho deciso di soffermarmi sono, come accennavo prima, la sua natura di laboratorio/esperimento e il modo in cui si rapporta con lo spettatore. Nell’elaborazione di queste tematiche ho trovato necessario allargare il discorso a molti altri aspetti che caratterizzano questa e altre serie televisive, e inevitabilmente il percorso di studio e approfondimento si è ‘scontrato’ con l’esperienza di fruitore e fan (e non poteva essere altrimenti).

2. La serie

Breaking Bad has been a devastating character portrait of a brilliant but deeply flawed man placed in chaotic circumstances. — Alan Sepinwall

Cosa fa un professore di chimica cinquantenne che vive in una cittadina del New Mexico, con un figlio adolescente affetto da paralisi cerebrale, costretto ad umiliarsi lavando le macchine dei suoi studenti come secondo lavoro, quando gli viene diagnosticato un cancro ai polmoni inoperabile? Nella serie ideata da Vince Gilligan questa persona decide di sfruttare le sue competenze scientifiche per ‘cucinare’ metanfetamina — l’ormai celebre Blue Sky Meth — con un suo ex studente e distribuire questo prodotto fino a diventare un vero e proprio signore della droga. E’ proprio questa, infatti, la bizzarra idea alla base di Breaking Bad, la serie televisiva attualmente in onda sul canale via cavo statunitense AMC. Si tratta di un prodotto per certi versi tipico della serialità americana contemporanea, e per altri decisamente peculiare.

Come ha rivelato lo stesso Gillian, la serie è ispirata parzialmente ad un fatto di cronaca letto sul New York Times dall’amico e co-autore Thomas Schnauz («maybe we should do that» ). Fortuna ha voluto che al canale AMC servisse uno show che accompagnasse Mad Men ma che fosse ambientato ai giorni nostri e avesse dunque caratteristiche opposte alla serie di Matthew Weiner; è sembrata giusta, per quanto bizzarra, l’idea di una serie incentrata sulle vicende di un professore di chimica affetto dal cancro che decide di produrre e distribuire cristalli di metanfetamina. Ancora più inaspettatamente, fu proposto allo stesso Gilligan di dirigere l’episodio pilota.

Il coraggio di questa serie, vogliamo ricordarlo, è anche quello di affrontare alcuni tabù mettendo continuamente in crisi lo spettatore, che è “costretto” a fare valutazioni ed esprimere giudizi di carattere etico. I bambini, per esempio, normalmente costituiscono un argomento delicato e restano fuori dalle vicende più losche di film e serie TV, mentre in BB un bambino viene avvelenato proprio dal protagonista e ad un altro sparano a sangue freddo. BB propone un tipo di intrattenimento potente e immediato, ma al contempo complesso e sofisticato.

2.1 Una serie iperserializzata

Abbiamo accennato al fatto che BB e Mad Men sono due serie molto diverse, ma non abbiamo approfondito in che modo. Prima di farlo, torniamo su un passaggio della nostra introduzione: abbiamo fatto riferimento alla terza Golden Age della televisione serializzata, e non v’è dubbio che viviamo tutt’ora in tale fase. Qualcuno ha pensato di porre la questione in altri termini, ipotizzando che stiamo raccogliendo i frutti di questa Golden Age, attraversando una fase in cui gli show insistono maggiormente sulla trama narrativa, sulla serializzazione, sui plot twist; mi riferisco a Andrew Romano, che in un suo articolo esagera questa distinzione, offrendo alcuni spunti di riflessione:

Today’s Hyperserials resemble their Golden Age predecessors in some ways: the adult themes, the infatuation with antiheroes, the cinematic art direction. But the Golden Age shows were concerned, above all else, with the intersections of character and society; plot twists always came second. That’s why, in retrospect, it’s very hard to recall what actually “happened” from season to season. As a result, the key dramas of the Golden Age often didn’t grip viewers until the third or fourth episode; it took a while to get to know and care about their protagonists. — Andrew Romano

Riteniamo che sia più ragionevole pensare alle serie iperserializzate come una modalità seriale possibile, e non come ai campioni di una vera e propria “fase” della serialità. Questa nostra cautela è spiegata dalla convivenza, sullo stesso canale, di show diversi come BB e, appunto, Mad Men.

È anche vero che lo stesso Vince Gillian ha definito il suo come un «very serialized show» (SEPINWALL 2012, p. 370), e in seguito si è spinto oltre affermando quanto segue:

I’ve always said that I don’t see my show as serialized so much as hyperserialized, that is something that, honestly, I wouldn’t have been allowed to do 10 or 15 years ago.

Quasi ogni episodio, infatti, è un tassello di una storia che non cessa mai di avanzare, ma nonostante questo l’autoconclusività degli stessi non è compromessa: i loro titoli sottolineano la forte identità di ognuno di essi, rivelandone cripticamente i contenuti — come nel caso di alcuni episodi della seconda stagione i cui titoli, insieme, formano la frase 737 down over ABQ, ovvero uno spoiler del finale di stagione. Ecco che torniamo su uno degli aspetti che hanno destato maggiormente il mio interesse: questa serie non riesce a fare a meno di ‘giocare’ con lo spettatore, persino ancora prima che la fruizione vera e propria abbia inizio. Le diverse concatenazioni di eventi che tessono la trama della serie rendono quest’ultima sempre più fitta, producendo un risultato a cui molti autori ambiscono, ma che raramente si ottiene con successo: il ritmo dell’azione aumenta gradualmente e costantemente, di stagione in stagione. Ipotizziamo quindi che gli ultimi 8 episodi della serie, in onda a partire dall’estate del 2013, saranno per forza di cose i più frenetici della serie.

Questo ‘trionfo’ del running plot non deve, come dicevamo, farci pensare che le cosiddette serie iperserializzate — se vogliamo concederci di usare questa espressione — abbiano soppiantato i loro predecessori. Basti pensare, lo ricordiamo nuovamente, a Mad Men, una serie in cui il running plot è di secondo piano mentre, come accadeva in serie come The Wire o The Sopranos, sono i personaggi e le loro relazioni ad incollarci allo schermo.

Le serie Mad Men e Breaking Bad, insomma, non rappresentano esempi di diverse fasi della serialità televisiva, bensì diverse modalità di narrazione e dunque di fruizione della stessa, e non sono certo prive di punti di tangenza.

2.2 Quality television

La serie che abbiamo preso in esame appartiene senza dubbio al macro-gruppo di show «caratterizzati da cast importanti, ibridazione di generi, autoriflessività e da una spiccata tendenza verso il realismo» (INNOCENTI & PESCATORE 2008, p. 30). Stiamo parlando della cosiddetta quality television.

Non è ancora stata pronunciata una parola definitiva su cosa sia esattamente la televisione di qualità — se, per esempio, sia o meno diversa da quella che il senso comune percepisce come ‘buona televisione’ — ma stando alla definizione di Thompson (THOMPSON 1996) e alle riflessioni che questa ha prodotto da quando è stata formulata (MCCABE & AKASS, 2007, p. 1) la serie presa da noi in esame appartiene senza dubbio al cosiddetto genere dei quality drama. Se già negli anni 50 esisteva un’idea di quality drama (MCCABE & AKASS, p. 146), è ai giorni nostri che questa si è consolidata in un vero e proprio genere televisivo.

La peculiarità di questa televisione di qualità è anche meramente produttiva: un episodio di BB non è dissimile da un lungometraggio indipendente, eppure normalmente viene girato in soli 8 giorni; «if you added 20 minutes to this, it’s the best indipendent film of the year» disse Ed Carrol dell’Indipendent Film Channel in riferimento all’episodio pilota (SEPINWALL 2012, p. 348).

2.2.1 Buoni o cattivi, vivi o morti

Uno show maturo come questo, per temi trattati e modalità di rappresentazione degli stessi, prevede che non tutte le domande trovino risposta, e che certe porte restino aperte. Il protagonista Walter White funziona come personaggio finché si muove nello ‘scarto’ che si crea tra l’uomo di famiglia e il gangster. Personaggi monodimensionali, ‘buoni’ o ‘cattivi’ al 100%, rischiano di dare vita ad un tipo di intrattenimento pigro e piatto. Vale anche il principio contrario: se i punti interrogativi si moltiplicano senza sosta e potenzialmente all’infinito, una parte degli spettatori potrebbe alienarsi dalla serie e non perdonare questo approccio. Abbiamo l’impressione, per riassumere, che una caratteristica della quality television sia proprio questo suo non finire; conseguenza estrema ed emblematica di questo fatto è costituita dai personaggi che muoiono fisicamente, ma non muoiono affatto narrativamente: i loro gesti rieccheggiano all’infinito, la loro presenza si avverte anche a distanza di intere stagioni, veicolata da flashback e altri espedienti narrativi.

Sonny in Mosche Cieche inseguono la TV del futuro:

Ci piace il “gesto infinito” alla fine dei Sopranos, perché rinvia al suo inizio rendendo rivedibile e rivivibile tutta la storia, facendola diventare una filastrocca a forma di otto come C’era una volta un re. Ed è lo stesso motivo per cui siamo rimasti ipnotizzati da Lost (…) lo abbiamo guardato sperando che non finisse mai, che potesse intrattenerci fino al giorno della morte, e poi i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri pronipoti (…).

Abbiamo l’impressione che questo non finire sia diventato una cifra stilistica della televisione di qualità, pensiamo ad esempio al finale della quarta stagione di The Good Wife, in cui immagine e suono ‘collassano’ e lasciano le ultime battute della stagione in sospensione (rendendo l’attesa per la prossima estremamente dolorosa per i fan).

2.3 Sperimentazione e trasformazione

Al cuore del prodotto televisivo di Vince Gilligan è operativo il trinomio azione/reazione/trasformazione — concetto che affronterò più dettagliatamente parlando del protagonista Walter White (§ 3.1), motore delle reazioni chimiche che avvengono nella serie. Bisogna riflettere su questo meccanismo, vero e proprio principio guida della narrazione, se si vuole guardare la serie con occhio critico e persino vigile.

Un avvenimento puntuale all’interno di un episodio può avere conseguenze determinanti sull’intero arco narrativo della/e stagione/i, come testimonia lo schianto aereo che chiude la seconda stagione.

Tre citazioni di Vince Gilligan esprimono chiaramente questa idea:

The in-between moments really are the story in Breaking Bad — the moments of metamorphosis, of a guy transforming from a good, law-abiding citizen to a drug kingpin. It is the story of metamorphosis, and metamorphosis in real life is slow. (SEPINWALL 2012, p. 351)

Breaking Bad” was very much intended as an experiment in change, and in fact the opposite of the marching order of most TV shows. I wanted the characters to change week in and week out, primarily the main character, Walter White. (Vince Gilligan a Erik Nelson in I’ve never Googled “Breaking Bad”)

To my way of thinking, Breaking Bad is an experiment in television. Historically, television is about stasis. It’s about mantaining a character at a certain place in time, sometimes for years or decades on end. None of us are standing still, we’re getting older by the second, and there’s something comforting about being able to revisit these favorite characters still being how we remembered them. But time does not stand still, and I thought it’d be interesting as an experiment to create a television show where a major point of the show was change — to see a good man transform into a bad man. (SEPINWALL 2012, p. 359)

In BB, distinguere meccanicamente tra antology plot (arco narrativo di un episodio) e running plot (arco narrativo di due o più episodi), come si potrebbe fare per la già citata The Good Wife, rischia di diventare un’operazione complicata e sterile, proprio a causa del mondo in cui i percorsi narrativi si intrecciano, moltiplicano e contaminano vicendevolmente.

3. I personaggi

Chemistry is… Well, technically it’s the study of matter, but I prefer to see it as the study of change. — Walter White

3.1 Personaggi ‘a nostra portata’

Nella storia recente della televisione, le serie che hanno riscosso il maggiore successo di pubblico e critica, ed hanno lasciato un segno profondo nella memoria del pubblico, sono quelle che hanno saputo articolare in modo intelligente e complesso il nostro rapporto con i loro personaggi. Riteniamo necessario, quindi, tracciare una panoramica del rapporto che gli spettatori di BB intrattengono con i suoi personaggi, e in particolare con il personaggio le cui azioni sono talvolta moralmente discutibili, quando non assolutamente deplorevoli. Ci riferiamo chiaramente al protagonista Walter Hartwell White (WW), figura complessa all’interno della quale si delineano e concretizzano gli aspetti di BB che hanno sollecitato maggiormente la nostra curiosità.

WW è presentato inizialmente come un «recession era’s everyman» (SEPINWALL 2012, p. 357). Il contributo dell’interprete Bryan Cranston alla costruzione del personaggio è significativo. Dal suo profilo a cura di Nicole Laporte per Fast Company:

[…] he should have a silly mustache. His clothes should all be beige and sand colored and taupe. He should blend into the scenery because he’s invisible to society […] I think he should be overweight. I think this man is depressed and he missed opportunities in his life. […] This is what I want: sand, taupe, beige, everything that makes him blend into the walls. I want him invisible.

WW è costretto (dal suo punto di vista) a compiere azioni orribili allo scopo di produrre e vendere metanfetamina e quindi a garantire un’eredità economica alla sua famiglia dopo la sua morte; sappiamo che presto le vere motivazioni cambieranno — o meglio, emergeranno — ma a quel punto dovremo far convivere i nostri ragionamenti sull’operato di Mr. White con il ‘legame’ che avremo stretto con esso.

E’ proprio questo, infatti, il nocciolo della questione: la serie inizialmente descrive al pubblico un protagonista che ha debolezze, paure e frustrazioni universalmente comprensibili, e in questo modo accorcia la distanza che ci separa da esso. Il protagonista è ‘a nostra portata’ e continuerà ad esserlo fino alla fine, o quasi.

Se ci fosse uno spettatore della quinta stagione che non abbia visto le quattro che l’hanno preceduta, probabilmente si chiederebbe come sia possibile empatizzare con un personaggio così detestabile, i cui danni sulla comunità di cui fa parte sono letteralmente catastrofici (rappresentati in modo piuttosto palese dalla pioggia di detriti e cadaveri che segue lo schianto aereo su Albuquerque, la cittadina in cui è ambientata la serie).

Tale legame viene creato sapientemente quando i fili della narrazione devono ancora cominciare a intrecciarsi e le esplosive reazioni chimiche (narrativamente parlando) devono ancora verificarsi.

Una controprova del meccanismo a cui ho accennato, la troviamo nell’episodio Box Cutter, il primo della quarta stagione, in cui Gustavo Fring (il big bad della serie, almeno fino alla quarta stagione) taglia la gola al personaggio secondario Victor: questo fatto è spiegabile (Victor è stato visto su una scena del crimine, ovvero l’abitazione di Gale Boetticher, ucciso dal co-protagonista Jesse Pinkman), ma non comprensibile. È molto difficile relazionarsi con Gus non perché sia più violento o malvagio di Walt, ma perché non è facile immedesimarsi in un personaggio del genere, guardare le cose dal suo punto di vista; nella suddetta scena, ricordata dall’attore Giancarlo Esposito come il momento coronante della sua carriera, le uniche parole pronunciate dal suo memorabile personaggio sono «Well? Get back to work.» (SEPINWALL 2012, p. 365)

Notiamo, infine, che non c’è una ‘distanza di sicurezza’ tra lo spettatore e i personaggi della serie. Nelle parole di Maureen Ryan in ‘Full Measure’: Thoughts on the ‘Breaking Bad’ finale:

There’s a coolness to this show; even as it depicts their suffering, the show keeps these people at arms’ length. We’re observing them; they are like ants in an ant farm. How much pressure can they take? What level of intensity will bring out their murderous sides? What will break them and make them go bad? Perhaps it’s appropriate that a show about a former chemistry teacher is like a giant experiment measuring pain and pressure.

3.2 Fatal Flaw

The Sopranos, Breaking Bad, Mad Men: queste serie ci suggeriscono che il lato peggiore dei protagonisti abbia un’origine. Nel caso di The Sopranos, quasi ogni comportamento aberrante è spiegabile facendo riferimento al contesto storico-sociale in cui sono inseriti i personaggi oppure, ad esempio, in base al rapporto conflittuale di Tony con i genitori, in particolare la madre. Anche in BB è possibile far risalire la deriva sociopatica e criminale di WW al suo personale fatal flaw — una vecchia ferita che brucia ancora.

Il protagonista della serie ha fondato tempo addietro l’azienda Grey Matter con i due colleghi Elliott e Gretchen Schwartz; come indica una targa appesa a una parete mostrata nel pilota, la loro ricerca è stata premiata col Nobel nel 1985. A causa di un affaire con Elliott, Walt ha abbandonato il progetto. In seguito l’azienda è cresciuta e ed è diventata estremamente fruttuosa e, come emerge nel quarto episodio della quinta stagione Fifty-One, l’attività criminale di Walt si configura come rivincita. Ma in che misura è il fatal flaw a portare Walter White a compiere le sue discutibili scelte? In realtà più che come causa, potremmo vedere questo fatal flaw come un pretesto: WW a un certo punto potrebbe infatti accettare i soldi dei suoi ex-partner e abbandonare la sua attività criminale, ma non lo fa per principio e per orgoglio. Ergo, prima il cancro, poi la riscoperta della vecchia ferita diventano la valvola di sfogo di una personalità fondamentalmente negativa e distruttiva nei confronti di chi la circonda.

Non ho usato la parola pretesto a caso: in un certo senso, lo diciamo senza esprimere giudizio, fatal flaw e altri espedienti non sono altro che, appunto, espedienti attraverso i quali gli sceneggiatori possono elaborare a posteriori le ragioni e le cause che hanno portato a certe conseguenze. Pensando a Lost, potremmo dire che finché la botola è chiusa, non contiene nulla, o meglio contiene uno spazio potenziale, un vuoto narrativo che gli sceneggiatori riempiranno quando lo riterranno necessario e funzionale alla narrazione. Alcuni di questi vuoti vengono colmati completamente (in Mad Men, il passato di Don Draper) mentre altri restano completamente o parzialmente ‘scoperti’ (ancora in Mad Men, il passato di Joan).

Il cinema, ma anche la stessa narratologia, ci fanno pensare al fatal flaw come momento unico della backstory che produce come conseguenza parte (quando non la totalità) del plot. BB, e altri prodotti della quality television, sembrano volerci suggerire che nella serialità anche il fatal flaw acquista una dimensione seriale, diventando uno strumento da usare all’occorrenza per giustificare (comodamente) comportamenti e scelte altrimenti incomprensibili.

3.3 Manipolando lo spettatore

All’inizio della serie lo spettatore è naturalmente portato ad entrare in sintonia con WW per i motivi che abbiamo illustrato; già nell’episodio pilota il protagonista mostra tutte le sue debolezze. Il pubblico, però, diventa gradualmente testimone della trasformazione da vittima del cancro nel cancro stesso. Se quindi, da un lato, continuiamo ad assistere alla storia dell’uomo comune che cerca il riscatto, presto è il WW sociopatico con manie di potere, disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole, a soppiantare la vittima, il paziente. WW è un eccellente manipolatore, non solo di chi lo circonda nella diegesi: siamo noi spettatori ad essere manipolati quando empatizziamo con il personaggio fondamentalmente negativo in virtù della sua radice (ormai ricordo lontano) di «everyman», uomo qualunque.

Bisogna, però, ricordare come il contesto mediatico odierno privilegi la figura del sociopatico: al successo delle reti sociali si accompagna oggi, inevitabilmente, un desiderio parallelo ma opposto di fuga dalle norme sociali; una conseguenza di questo fatto è proprio la forza con cui questi sociopatici hanno conquistato la maggior parte dei drama televisivi, almeno da The Sopranos in poi.

Questi personaggi, se vogliamo trovare un filo conduttore, rappresentano insieme un grande What if…? come sintetizzato, forse un po’ semplicisticamente, in questo paragrafo:

My hypothesis is that the sociopaths we watch on TV allow us to indulge in a kind of thought experiment, based on the question: “What if I really and truly did not give a fuck about anyone?” And the answer they provide? “Then I would be powerful and free.” — Adam Kotsko, Why We Love Sociopaths

3.4 L’autore nel testo

Soffermiamoci un momento sulle pulsioni e i sentimenti degli sceneggiatori, i quali permeano questi prodotti e arrivano filtrati ed elaborati a noi spettatori, contaminando e plasmando il nostro rapporto con ciò che va in onda.

Le motivazioni alla base delle azioni dei personaggi, e quindi i sentimenti, le aspirazioni, i conflitti di coloro che danno vita ad essi, vengono percepiti inconsciamente dal pubblico, e più consciamente dagli spettatori critici, diventando legami molto forti tra prodotto mediale e spettatore. «In fondo, — scrive Aldo Grasso (GRASSO 2007) — anche il telefilm seriale si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario.» Bisogna considerare le ‘pulsioni nascoste’ degli autori, in primis lo showrunner («It seems to me that you write the things that excite you or horrify you» dice Gilligan), come il motivo ultimo che li spinge a raccontare certe storie.

Queste parole di Vince Gilligan, per Most Creative People 2013. TV’s Head of The Class, lasciano poco spazio all’interpretazione — la sovrapposizione tra interiorità dell’autore e il protagonista della narrazione è un dato di fatto:

On the Venn diagram of Walter White and Vince Gilligan, there was a fair bit of overlap. Frustrations, hopes and dreams, anxieties, free-form fears and middle-age crises. The darker he got, we still shared a lot. Because we all have darkness within us. When he got really, really dark, the more I felt like he was taking me along with him. So many, many months on end—years—of living with this mendacious son of a bitch in my head, what’s the worst of it? Is it all the killing? The disregard for other people’s feelings? The lying? Some combination of all of it? It’s been hard, year after year, to live with this guy. There were times about a year ago where I was thinking, It’s gonna be a relief when this ends because I can free myself of this guy.

3.5 Il protagonista (e lo spettatore) sociopatico

Walter White manipola la dimensione sociale della sua vita mentendo anche a se stesso pur di vivere in tale dimensione distorta.

The fantasy of the sociopath, then, represents an attempt to escape from the inescapably social nature of human experience. The sociopath is an individual who transcends the social, who is not bound by it in any gut-level way and who can therefore use it purely as a tool.
— Adam Kotsko, Why We Love Sociopaths

Viene spontaneo chiedersi se c’è limite all’amoralità, se questi personaggi sono destinati a farla franca. Non proprio: i Walter White, i Tony Soprano e i Don Draper, in un modo o nell’altro, vengono puniti. «In un certo senso — spiega Kotsko ad Anna Momigliano di Rivista Studio — essere un sociopatico è presentata come una sorta di punizione in sé.» Per concludere questo discorso sul Walter White sociopatico ci affidiamo un’ultima volta alle parole di Kotsko che ci illuminano su uno dei possibili motivi per i quali il legame tra lo spettatore di BB e WW è così forte:

Le serie TV di cui scrivo permettono alle persone frustrate una sorta di valvola di sfogo. Possono immaginare che avrebbero potuto andare avanti se solo avessero messo da parte la morale, si possono identificare con un personaggio di successo e carismatico, ma poi anche pensare a se stessi come moralmente superiori di colui che ammirano. La fantasia è questa: “Potrei essere uno di quegli stronzi di successo, ma sto scegliendo liberamente di non esserlo perché ho una coscienza.” (MOMIGLIANO 2012)

La natura di sociopatico di WW è ciò che lo rende diverso da noi e che, allo stesso tempo, lo lega indissolubilmente proprio agli spettatori. Noi siamo dei WW potenziali, e riusciamo a comprendere le sue scelte perché alla base del suo comportamento ci sono gli stessi meccanismi che, talvolta, articolano la nostra vita quotidiana: invidia per il successo altrui, frustrazione per lo stato di malattia, voglia di riscatto.

There’s a scene in Breaking Bad’s first season in which Walter White’s hoodrat lab assistant Jesse Pinkman (Aaron Paul) tells Walter he just can’t “break bad” (…) What he was arguing was that someone can’t “decide” to morph from a good person into a bad person, because there’s a firewall within our personalities that makes this impossible. He was arguing that Walter’s nature would stop him from being bad, and that Walter would fail if tried to complete this conversion. But Jesse was wrong. He was wrong, because goodness and badness are simply complicated choices, no different than anything else. — Chuck Klosterman, Bad Decisions: Why AMC’s Breaking Bad beats Mad Men, The Sopranos, and The Wire

Una conseguenza paradossale del nostro attaccamento a WW e agli altri ‘personaggi sociopatici’ ai quali ho accennato, è che percepiamo la presenza delle loro mogli (Skyler in BB, parzialmente Carmela in The Sopranos, decisamente Lori in The Walking Dead, Betty in Mad Men) come un ostacolo, un fastidio. Questo peculiare fenomeno preoccupa persino lo stesso Vince Gilligan, che ha detto «I want as many people as I can to watch the show, but wow, I hope I’m not living next door to any of them», come riportato da Meredith Blake in Fans join in wife-bashing on ‘Walking Dead,’ other AMC series.

3.6 Breaking Bad e The Sopranos

This is a story about a man who transforms himself from Mr Chips into Scarface. — Vince Gilligan

3.6.1 Reazioni collaterali

Addentrandoci nella diegesi di BB, riconosciamo un elemento che accomuna la serie ad altre già menzionate come Mad Men e The Sopranos, ovvero la presenza, all’interno della figura del protagonista, di un doppio: in questo caso si tratta di Heisenberg, soprannome con cui WW si fa chiamare nel business della produzione e spaccio di metanfetamina.

In una prima fase, Heisenberg sembra costituire una maschera che l’uomo di famiglia, professore di chimica e ammalato di cancro, nel momento in cui la situazione lo richiede, può indossare per assumere all’occorrenza il ruolo del criminale senza pietà, e affrontare così le regole del Mondo Straordinario in cui viene a trovarsi, quel Mondo popolato da personaggi come lo spietato e imprevedibile spacciatore Tuco Salamanca. Di conseguenza, in questa fase embrionale dell’altra faccia di WW, le due ‘figure’ riescono a convivere.

Il momento in cui WW indossa ‘la maschera Heisenberg’ è messo in scena esplicitamente in alcuni episodi, ma è soprattutto in “Over”, il decimo della seconda stagione, che il processo viene mostrato con enfasi: Mr. White sta camminando in un parcheggio verso dei criminali e gradualmente diventa Heisenberg (fondamentale in questo caso il talento attoriale di Bryan Cranston), il quale pronuncia la celebre battuta «Stay out of my territory».

Chiaramente la distinzione WW/Heisenberg è destinata a sfumare e generare ambiguità: forse Heisenberg è troppo ingombrante e non può convivere con le debolezze di WW, oppure è WW la ‘maschera’ e non il contrario. Sarebbe lecito in ogni caso chiedersi (come hanno fatto abbondamente gli utenti su Reddit) se il protagonista subisca trasformazioni che ne alterano lo stato facendolo diventare ‘malvagio’, o se gli eventi messi in scena non facciamo altro che sviluppare le sue caratteristiche latenti, ma le riflessioni scaturite da questo dubbio sarebbero a nostro avviso sterili, al contrario di quanto si può dire osservando come avviene tale processo.

Possiamo aiutarci in questa analisi attraverso un doveroso parallelismo, quello con The Sopranos. Nella serie di David Chase, il protagonista Tony Soprano è il luogo in cui Bene e Male si mescolano continuamente dando vita ad una complessità nella quale si finisce per restare impigliati, e la distinzione tra, per esempio. Tony padre-di-famiglia e Tony gangster è virtualmente inesistente. Tony Soprano è sempre Tony Soprano, sono le sue azioni che determinano, a seconda delle situazioni, quale suo lato emerga e si attivi. Inoltre, la presenza di un proprio codice fa sì che fino ad un certo punto si riescano a ‘digerire’ le sue malefatte (ci viene in mente Dexter e il suo ‘codice’, quello impartito da un padre non esattamente esperto di pedagogia infantile).

Quite simply, without Tony Soprano there is no Walter White.
Bryan Cranston

Al contrario, in BB, dove pure Walter White è un contenitore di conflittualità di questo tipo, sembra esserci una distinzione più marcata tra Walter padre-di-famiglia (buono) e Heisenberg signore-della-droga (cattivo), ma questa distinzione sfuma nel momento in cui una delle due parti (quella negativa) rivela inconfutabilmente di essere sempre stata presente anche se inespressa. Walter White e Heisenberg sono due espressioni opposte ed estreme di una stessa personalità, due derive potenziali di uno stesso percorso esistenziale. Il fatto che entrambe le derive vengano veicolate dallo stesso personaggio rende il suo carattere e il suo percorso stimolanti e appassionanti, nonché occasione per elaborare riflessioni, per esempio, di natura etica o narratologica.

Ecco, quindi, che ci troviamo nuovamente di fronte alla complessità di questa serie che, nonostante la strutturata e quasi ingombrante presenza di un solido running plot, mostra un convincente approfondimento psicologico del personaggio principale (nonché di alcuni comprimari), sviluppando le diverse polarità del suo carattere.

3.6.2 Il confine tra Giusto e Sbagliato

Nella quarta puntata della terza stagione de The Sopranos “Employee of the Month”, ha luogo un dialogo decisivo tra la dottoressa Jennifer Melfi e Tony Soprano. In questa scena la dottoressa potrebbe rivelare che è stata aggredita e stuprata, e soprattutto potrebbe indicare con precisione l’identità dell’uomo che ha compiuto il terribile fatto.

Jennifer, in un’altra scena, ha rivelato al suo analista che prova una certa soddisfazione nel pensare che avrebbe la possibilità di far punire, per usare un eufemismo, lo stupratore, sottintendendo in tale dialogo che basterebbero poche parole sussurrate all’orecchio giusto, ovvero quello di Tony Soprano, per fare giustizia.

Tornando al dialogo tra Tony e Jennifer, il climax non è la “rivelazione” del fatto a Tony, che avrebbe probabilmente punito il malfattore senza alcuna esitazione, ma l’esatto opposto: alla domanda pronunciata dalla riconoscibile voce nasale di Tony «You want to say something?», la sofferta ma decisa risposta è «No.» È proprio quel “No” a tracciare la linea che separa i due interlocutori, ovvero in un certo senso quella tra ‘giusto’ e ‘sbagliato’. Ma The Sopranos, proprio come Breaking Bad, rende le cose più complesse articolando un insieme di motivazioni e contingenze che non permette affatto di tracciare chiaramente questa linea, trasformandola piuttosto in un inestricabile groviglio di linee. Nella serie di HBO c’è almeno un personaggio che rappresenta emblematicamente questa caratteristica: Carmela Soprano. Almeno fino a quando non spiega esplicitamente il suo conflitto nell’amare un uomo di cui conosce e accetta il lato oscuro, è difficile valutare in modo univoco la moralità e la psicologia di tale personaggio.

Breaking Bad eredita questa inafferrabilità dei personaggi e fa sì che, nella domanda “Cosa è giusto?”, al cosa si sostituisca il quando. I personaggi non possono infatti essere disposti in un ideale piano cartesiano che abbia come ascissa la linea Giusto — Sbagliato e come ordinata quella Buono — Cattivo: la maggior parte di essi si troverebbe posizionata in una ambigua e indefinita zona centrale. Ogni situazione determina differentemente l’orientamento delle diverse figure all’interno di questo immaginario grafico.

La comunità dei fan se n’è accorta, come testimonia un simpatico video che trasforma la serie in un videogioco in cui esiste l’unica categoria di personaggi selezionabili è quella dei “morally ambiguous”.

3.6.3 Good guy e bad guy

Wouldn’t it be interesting to have a show that takes the protagonist and transforms him into the antagonist? — Vince Gilligan

Potremmo dire, per concludere questo discorso, che dove The Sopranos si chiede come fa un criminale/bad guy ad essere allo stesso tempo un padre-di-famiglia/good guy, Breaking Bad si chiede, almeno fino ad un certo punto, il contrario: cosa succede quando un brav’uomo compie delle scelte sbagliate e quali conseguenze possono esserci. Il pubblico della serie, a causa dell’investimento emotivo e dell’empatia per l’uomo in difficoltà, finisce per legarsi in modo atipico e curioso ad un signore della droga sociopatico ed egocentrico, con manie di potere e, più volte, senza scrupoli.

Breaking Bad, tramite la figura di Walter White, elabora in modo nuovo la transizione tra le due polarità opposte ma complementari della personalità del protagonista del quality drama odierno: meccanismi inconsci di autodifesa portano WW a giustificare le sue azioni in modi decisamente creativi e contorti, a trovare sempre una ‘via di fuga morale’ dalle sue malefatte.

Sulle modalità in cui si articola la moralità dei personaggi di un prodotto televisivo come questo e sul modo in cui noi spettatori ci rapportiamo con tale articolazione, è difficile pronunciarsi in modo definitivo visto che le prospettive possono essere diverse: trasformazione di buono in cattivo; mostrare ciò che c’è di positivo nel mostro; mostrare ciò che c’è di mostruoso nell’uomo comune; transizione che porta il male latente a venir fuori dal bene che lo intrappolava.

3.7 Il confronto valoriale

Non ci dilungheremo né su Jesse Pinkman — the good guy of two bad guys come ha detto lo stesso Gilligan — né sulla moglie del protagonista Skyler o su altri personaggi, ma se ci interessa il rapporto di BB con lo spettatore non possiamo non spendere qualche parola almeno sul primo. L’ex-studente di Mr. White crea un confronto valoriale e culturale complesso con quest’ultimo; Gilligan lo chiama infatti «the moral center of this partnership», e «the moral center of this duo». Ma se questo è quello che prevedono molte narrazioni convenzionali, in BB sembra non esistere un vero e proprio piano valoriale semplice in quanto il bene e il male scaturiscono sempre l’uno dall’altro, come abbiamo argomentato più sopra. Il big bad Gustavo Fring, per esempio, non muore perché il Bene trionfi, ma al massimo affinché il Male, in una forma nuova, trovi ‘il suo spazio’. Allo stesso tempo, i flashback che ci portano nel passato di Gus creano un’empatia con lui che non riusciamo a rifuggire (e che fa pensare a quella che si crea tra Alicia Florrick e l’uxoricida Colin Sweeney in The Good Wife).

Jesse è soggetto a una grande e profonda trasformazione che cambia il suo ruolo all’interno della serie. Nella prima stagione, infatti, questo personaggio non è molto più che un junkie non particolarmente furbo, e funge più che altro da ponte verso un mondo di criminalità e droga fino ad allora estraneo al protagonista, mentre in seguito dimostra di essere un personaggio maturo e complesso, anche se non abbastanza da riconoscere in tempo il modo brutale e spietato in cui la sua mente è stata plagiata da WW. In molti casi Jesse ci ha permesso di misurare i danni fatti da Walter White, concretamente quando ne è stato vittima, virtualmente attraverso le sue reazioni.

Di Gustavo Fring — personaggio che ha avuto molta fortuna ed eco nel Fandom, in parte grazie alla straordinaria interpretazione di Giancarlo Esposito — non si può non sottolineare l’importanza in quanto drug lord per antonomasia nella serie. La potenza di questo personaggio è tale che, a un certo punto, è andata al di là del controllo degli sceneggiatori: «then suddenly we’re realizing Gus is playing this whole game on a much higher level than we writers even thought in the first place» (SEPINWALL 2012, p. 363). Ma sotto certi aspetti Gus è un personaggio più convenzionale, e questo è un motivo per il quale non lo descriveremo approfonditamente: nonostante la fitta coltre di nebbia che copre il suo passato in Cile, il suo fatal flaw (mostrato tramite un flash-back nell’ottavo episodio della quarta stagione “Hermanos”) sembra in effetti la causa scatenante del comportamento freddo, razionale, violento, nonché del suo rapporto conflittuale con il cartello della droga.

3.8 Mondo Ordinario e Mondo Straordinario

È facile rilevare in BB alcuni elementi del viaggio dell’eroe, ed è probabile che questi contribuiscano non poco all’immedesimazione del pubblico nel protagonista. Al di là della moralità delle scelte compiute da WW, abbiamo di fronte un uomo che vuole vincere perché la vita, fino ad un preciso momento (l’inizio della serie) non gliel’ha consentito; se, fidandoci di Vogler, diamo per assodato che tutto ciò che viene prima dell’inizio della storyline costituisce il Mondo Ordinario, possiamo sostenere che il primo incontro con Jesse Pinkman costituisce per il nostro una Chiamata all’Avventura, e quindi una porta verso il Mondo Straordinario. È altresì evidente che l’intervista ad Hank che va in onda nell’episodio pilota (fig. 1) e che attira l’attenzione di Walter («Hank, how much money is that?») funge anch’essa da Chiamata all’Avventura (fig. 2).

Fig. 1
Breaking Bad S01E01 (Vince Gilligan, 2008)
Fig. 2
Breaking Bad S01E01 (Vince Gilligan, 2008)

L’avanzare della trama di BB è caratterizzato dal costante movimento dei personaggi principali tra Mondo Ordinario e Mondo Straordinario. Come suggerisce Vogler, il Mondo Ordinario non è altro che il mondo precedente, quello dal quale proviene l’Eroe. Gli eroi di BB, in un certo senso, vivono in un mondo che è sempre ‘straordinario’, in cui le regole del gioco cambiano costantemente.

Quella seguita dal protagonista è una parabola ascendente che non si ferma mai — escludendo la fase in cui diventa a tutti gli effetti un impiegato di Fring — al contrario del percorso degli altri personaggi che sembrano arrivare, in un modo o nell’altro, ad un punto d’arresto: Jesse non vuole più aver a che fare con il business, Saul decide (invano) di abbandonare gli affari di WW, Mike Ehrmantraut non vuole essere dalle parti della ‘bomba Walter White’ quando esploderà («You are a timebomb, tick-tick-ticking, and I have no intention of being around for the boom»). Anche un personaggio come Skyler si trova più volte in situazioni in cui deve improvvisare e adattarsi ad un ‘nuovo territorio’.

4. Lo spettatore e lo sguardo sul Mondo

4.1 Giocando con lo spettatore

Come dicevamo, questa serie ‘gioca’ con le aspettative dello spettatore, e lo fa su più livelli — spaziale, temporale, etico — mentre la regia e la fotografia degli episodi mostrano una certa audacia che distingue in modo netto questo prodotto dai suoi concorrenti. Se per qualcuno le ‘bravate’ registiche a volte risultano ingombranti e allontanano lo spettatore dalla storia (cfr. le riflessioni di Maureen Ryan sulle prime due stagioni), a mio avviso questo stile un po’ estremo cammina su un binario del tutto parallelo alla storia.

4.2 Teaser

Uno dei punti di convergenza dello stile audace e della narrazione intelligente è l’uso che viene fatto in BB del teaser: questa breve sequenza infatti, che precede la breve e iconica sigla, mostra molto spesso qualcosa che verrà rivelato del tutto o acquisterà significato solamente dopo numerosi episodi; altre volte mostra quello che succederà alla fine dell’episodio stesso, ma in modo illeggibile ed enigmatico; infine in alcuni casi serve a provocare certe specifiche reazioni nello spettatore, in modo da condizionare il modo in cui questo guarderà la puntata. In ogni caso il teaser contribuisce a produrre quell’opacità che caratterizza, a nostro avviso, tutta la serie.

Quindi, se già serie come Alias e West Wing mostravano nel teaser il culmine dell’episodio per poi riavvolgere la pellicola, in BB rileviamo una maggiore libertà in questi primi secondi o minuti che permette agli autori di “configurare” lo spettatore: a seconda di cosa si decide di mostrare (e soprattutto di non mostrare) lo spettatore, in particolare quello affezionato alla serie, reagirà in un certo modo e guarderà l’episodio con un certo atteggiamento.

Questo escamotage mi fa pensare all’uso dei recap in serie come Lost e Dexter, dove più che ricordare allo spettatore dei dati, ne guidano l’esperienza di fruizione. Nel nostro caso ci sono alcuni momenti in cui i teaser ingannano letteralmente gli spettatori, mostrando ad esempio due corpi coperti da teli stesi davanti alla casa della famiglia White (stagione 2, episodio 10 “Over”), corpi che poco più avanti si scoprirà essere letteralmente piovuti dal cielo, quindi non legati ai personaggi principali.

Possiamo dare maggiore respiro al discorso ricordando che:

Nelle serie contemporanee queste variazioni nelle strategie narrative sono più comuni e indicate con maggiore sottigliezza o ritardo; questi programmi sono costruiti senza timore di indurre una confusione temporale nel telespettatore. Le sequenze di fantasia abbondano senza bisogno di particolari segnali di demarcazione. (Queste serie) contengono visioni di eventi che oscillano tra soggettività del personaggio e realtà diegetica, giocando sul filo dell’ambiguità a vantaggio dell’introspezione del personaggio, della suspense e dell’effetto comico. — Jason Mittel (MITTEL 2006)

4.3 La fotografia

Senza dubbio un dispositivo attraverso il quale lo sguardo sul mondo di BB si fa particolarmente elaborato (e, lo ripetiamo, opaco) è costituito dalle numerose soggettive senza soggetto (DI CHIO 2011) che portano lo sguardo nei luoghi più improbabili (fig. 3); la titolarità dello sguardo stesso è, in questo modo, sempre in gioco. Ma più in generale possiamo dire che la fotografia della serie tende a valorizzare la percezione, l’impatto emotivo: lo stile di riprese a spalla dà alla serie un look genuino e realistico, mentre luci e colori tendono più volte a creare atmosfere surreali, e talvolta sembra che quello che succede intorno a WW sia una specie di riflesso distorto e amplificato di quello che avviene dentro di lui. Ci sembra doveroso soffermarci anche su un lato tecnico della serie come questo, per non cadere nel tranello di attribuire ogni merito della riuscita della serie e della sua importanza alla scrittura (su questo ‘tranello’ elabora una interessante discussione Craig Fehrman per New Republic).

Fig. 3
Breaking Bad S04E06 (Vince Gilligan, 2011)

Il direttore della fotografia Michael Slovis — che ha curato la fotografia di ben 35 episodi di Breaking Bad, e ne ha diretti 3 — ha preferito utilizzare la fotografia come uno strumento per raccontare il mondo interiore dei personaggi. La sovrabbondanza di soggettive, la fotografia che racconta i personaggi e la storia spesso in modo surreale, i numerosi timelapse, la tecnica di ripresa a spalla diventano dispositivi che fanno convivere nella serie un surplus di realtà — il lato scientifico della serie, la sua ‘impronta chimica’ — e un surplus di immaginazione — la dimensione più astratta e stilisticamente coraggiosa dello show — e questo rende BB un prodotto emblematico dell’Illusione contemporanea (DI CHIO 2011).

In realtà la scelta di usare la fotografia non tanto per far vedere, quanto per raccontare la storia nel modo più consono alla stessa, è stata fatta prima che le riprese iniziassero. Gilligan ha detto:

I knew that once we knew our characters, we didn’t have to have them perfectly lit, I wanted light that was sculptured and textured. We didn’t need to see the faces of everyone we were watching and listening to. (SEPINWALL 2012, p. 344)

Nella serie convivono quindi un certo esibizionismo stilistico (che ha contribuito a fissare indelebilmente BB nel nostro immaginario) ma anche l’idea di fondo che lo stile deve servire il contenuto.

Personally, I think that each shot should earn its place in the show and that every frame should advance the story. It should not be in there because it’s cool; it should be in there because it elicits an emotion. — Michael Slovis

L’equilibrio tra immaginazione e realtà è precario, eppure noi crediamo a tutto ciò che vediamo in quanto la serie ci abitua agli eccessi che diventano per noi familiari, ergo la coerenza interna che deve governare il piccolo mondo di Albuquerque è salva. In BB riconosciamo quello sguardo intermedio che è tipico dell’Illusione contemporanea: si tratta di un prodotto che si inserisce in quella tendenza della serialità contemporanea a produrre racconti non come ‘esperienze guidate di senso’, bensì come ‘occasioni di smarrimento’ (DI CHIO 2011).

Stilisticamente, tornando alla fotografia, l’accento è posto sul processo di trasformazione del protagonista, e di conseguenza di tutto il mondo che lo circonda. «Vince and I — racconta Slovis — have an overall plan for progressive darkness as the seasons progress.» Basta dare un’occhiata alla prima (fig.2) e alla quinta stagione (fig. 6) per accorgersi di questa strategia stilistica accuratamente pianificata. Inoltre va segnalato che la fotografia e la color sono diventate più audaci via via che la serie è stata sviluppata: la scena che chiude la prima stagione (fig. 4) è ripresa all’inizio della seconda (fig. 5); guardandole consecutivamente è possibile notare come il look della serie sia diventato più deciso ed estremo.

Fig. 2
Breaking Bad S01E01 (Vince Gilligan, 2008)
Fig. 4
Breaking Bad S01E07 (Vince Gilligan, 2008)
Fig. 5
Breaking Bad S02E01 (Vince Gilligan, 2009)
Fig. 6
Breaking Bad S05E08 (Vince Gilligan, 2012)

Possiamo concludere che c’è un doppio processo di evoluzione visiva: il look si trasforma seguendo il viaggio del personaggio e parallelamente si trasforma quando la serie acquista (o forse si accorge di avere) una personalità più decisa e originale rispetto ad altri drama. In questo processo si inseriscono frammenti stilisticamente autonomi — come le sequenze in bianco e nero (fig. 7) — ma che proprio per questa loro caratteristica e per la loro distribuzione più o meno omogenea all’interno della serie, finiscono per costituirne un altro tratto distintivo.

Fig. 7
Breaking Bad S02E01 (Vince Gilligan, 2009)

4.4 Padronanza del Piccolo Mondo

In questa Golden Age della televisione in cui anche semplicemente seguire tutti gli show di maggiore successo diventa un’impresa per veri appassionati, la fruizione delle serie rischia di diventare frettolosa e superficiale. La prima stagione di BB, in particolare i primi episodi, a una prima visione rischia di non catturare ogni spettatore con eguale intensità. Ma questo fatto non è soltanto legato alla ovvia questione del gusto personale: persino i fan più accaniti e i critici più affermati (come Mo Ryan, Ryan McGee e Alan Sepinwall) ammettono di essere riusciti ad apprezzare davvero la prima stagione solo rivedendola, accorgendosi così di come contenesse già tutti gli elementi che hanno poi caratterizzato l’intera serie.

Perché, dunque, non riusciamo ad apprezzare immediatamente la serie? Cosa manca all’esperienza di visione? Ciò di cui, dopo aver guardato diverse diverse stagioni, abbiamo davvero padronanza è proprio il Piccolo Mondo costruito ed esplorato nella serie; si tratta di un mondo che dobbiamo imparare a conoscere ed esplorare, ed è proprio grazie al rapporto che instauriamo con il mondo (o meglio, i mondi) della serie che possiamo poi, retroattivamente, coglierne tutte le sfumature.

Grazie a questa conoscenza, quindi, impariamo a ‘leggere tra le righe’, comprendendo le implicazioni e le conseguenze delle azioni dei personaggi. Cogliamo, inoltre, e questo è un passo decisivo, il valore del rapporto del prodotto mediatico con la cultura in cui viviamo.

Da Talking TV With Ryan And Ryan, Episode 27: Alan Sepinwall discusses his book “The Revolution Was Televised”:

Mo Ryan: In the great shows two things happen in tandem: you’re figuring out how to watch them and they’re figuring out what they want to be.

Alan Sepinwall: Even Breaking Bad, if you go to my old blog and you read my reviews of Breaking Bad season 1, I was not crazy about that at all. I just thought Bryan Cranston he’s awesome! What the hell is this? (…) One of the great things about doing this book, it gave me license to put other stuff on hold and say ‘Ok, alright, I’m working on the Breaking Bad chapter; all I’m going to do today is watch old episodes of Breaking Bad’ (…) The show was the show even back then, I just wasn’t ready for the show yet.

Mo Ryan: I think it’s partly the familiarity you have with that world at that point. Sometimes you go back and watch something and go ‘Yeah, this is absolutely what it was going to become, the seed were really there, I wasn’t primed for that’.

Capita persino che gli stessi autori della serie non siano perfettamente in grado, durante la realizzazione della stessa, di capire tutto ciò che la loro creatura comporta nel contesto socio-culturale in cui agiscono. In questo caso il motivo è intrinseco all’epoca in cui questi prodotti sono stati creati: serie come Lost e The Sopranos hanno tracciato un percorso nuovo nella serialità e allo stesso tempo hanno camminato su di esso; solamente a posteriori è stato possibile capire davvero quale posto abbiano occupato queste serie nella nostra cultura, anche se parte di questa consapevolezza sicuramente aveva avuto già modo di maturare negli autori.

Potremmo fare anche l’esempio di una serie come Louie, atipico prodotto televisivo attraverso il quale l’autore e interprete Louis C.K. ha modo di riflettere su se stesso, sulla serialità, sul suo rapporto con gli altri, sulla sua fama (specialmente nella terza stagione); questa complessità fa sì che solamente dopo Louie potremo davvero capire in che modo esso ha cambiato le cose, e questo non vale solo per noi ma anche e soprattutto per Louis C.K.

Howard Gordon from 24 is a good exemple of this. During the run of 24 Howard Gordon had to be the *guardian* of 24 and he sort of had to defend everything that they did, even the dumb things, even sort of the politically incorrect things. There was definitely a sense, when I talked to him, of sort of like «Alright, we were just sort of building road and trying to drive on the road as we were building it; that was crazy and we made mistakes. We didn’t know then what we know now in terms of both making a show but also in terms of what we know politically.» He was aknowledging the context in a way that it wouldn’t at the time. — Alan Sepinwall

Per tornare a BB, sono molto significative a tal proposito queste parole di Vince Gilligan:

Halfway through this season, the writers and I — the best cliche I can find is very often we can’t see the forest for the trees. We want to get a global view of what we’re doing, but it’s hard because we’re often in the dense forest of the plot. So we can’t see exactly where we’re headed.

4.5 Il narratore

Ci si potrebbe chiedere, assumendo una prospettiva letteraria, che tipo di narratore sia quello di BB: potremmo chiamarlo semplicemente narratore onnisciente, ma essendo questo un narratore che non solo sa tutto, ma in un certo senso si diverte a giocare con le aspettative del pubblico (omettendo certi dettagli e insistendo morbosamente su altri), forse dovremmo spingerci oltre la definizione classica. Mi torna in mente, e non potrebbe essere altrimenti, una serie come Lost in cui il narratore compie esattamente questa operazione di frammentazione per far sì che al guadagno simbolico dello spettatore si sovrapponga sempre una grande abbondanza di interrogativi che in alcuni casi non troveranno mai risposta. Questa diventa una tecnica efficacissima di fidelizzazione degli spettatori, per i quali la serie diventa una ‘droga’ di cui non possono fare a meno.

4.6 L’opacità nei personaggi

L’opacità del mondo di BB si realizza in modo particolarmente evidente in alcuni personaggi, come ‘i Cugini’, oppure in alcuni specifici tratti di altri, penso a Hector Salamanca che non è in grado di parlare ma ha un ruolo chiave nella serie in quanto dialoga con i personaggi in altri modi (il campanellino sulla sua sedia a rotelle, per esempio, ma anche e soprattutto la mimica facciale). Si potrebbe dire quindi che come la regia gioca non solo con l’eterogeneità dei registri linguistici ma anche con le diversità e i punti di tangenza dei generi, la narrazione vera e propria gioca a far dialogare i personaggi nei modi più disparati, comunicando anche l’incomunicabilità tra gli stessi: fraintendimenti, intenzioni e motivazioni inespresse, telefonate, schermi televisivi, biglietti, campanellini, spot televisivi intra-diegetici: in BB la comunicazione è frammentata e complessa. Lo schermo televisivo diventa in questo modo un buco della serratura che ci invita a spiare in Mondi che siamo invitati ad esplorare e interpretare.

5. Perché guardiamo Breaking Bad?

Prima di provare a formulare una risposta a questa domanda, dobbiamo esplorare la cultura fan-made generata intorno alla serie: si tratta di una quantità enorme di materiale, ma non è stato il dato quantitativo a sorprenderci, bensì quello qualitativo: ci siamo trovati innumerevoli volte a guardare video creati rimontando scene dalla serie in modo magistrale, magliette che riprendendo personaggi e battute che sono delle piccole opere d’arte, sfondi per computer realizzati disegnando personaggi e scene con grande maestria (non semplici ritocchi di fotogrammi, ma vere e proprie opere originali). La quantità e qualità del materiale generato dagli utenti attingendo dall’universo di BB è stupefacente, e in alcuni lavori in particolare si riconosce la grande nostalgia che segue la fine delle stagioni e la voglia di riviverne i momenti migliori.

Agli autori, però, interessano soprattutto le reazioni in tempo reale allo show, quelle reazioni che fanno sì che si crei un vero e proprio salotto virtuale in cui guardare e commentare la serie. Per quanto riguarda tutto quello che viene prodotto dopo la visione, Gilligan ne prende le distanze:

I hope I get through my whole life and am able to honestly say this: “I have never Googled myself. And I’ve never Googled Breaking Bad.” I don’t do it, not because I’m not interested, but because the opposite is true. I am desperately interested, but I know that I will disappear down some rabbit hole if I were to do that. And so while we have this amazing opportunity to listen in to these Twitter feeds and get this instant reaction, it would become a very dangerous sort of an echo chamber.

Rivedere, dicevamo; una parola che non può mancare in un testo come il nostro: parlando di serie TV non si può non menzionare la voglia che abbiamo di rivedere le stesse cose e al contempo di vederle maturare, crescere, esplodere, implodere, disintegrarsi e reintegrarsi.

Dentro di noi si sviluppano grandi conflitti nel momento in cui l’idea di vedere un personaggio evolversi ci eccita (da Don Draper a Tony Soprano, da Walter White a Dexter Morgan) e, al contempo, basta una riga di troppo nella sceneggiatura di una puntata a portare il personaggio al di là della linea che non deve superare.

Perché Hugo “Hurley” Reyes non dimagrisce mai in Lost? Certamente ci potrebbero essere limiti ‘tecnici’ e fisiologici nel dimagrimento di un attore, ma la verità è che Hurley non sarebbe stato più Hurley se nella seconda stagione l’avessimo ritrovato magro e in forma. Noi vogliamo rivedere Hurley e vederlo cambiare senza cambiare; in questo caso va detto che il personaggio rappresenta diegeticamente — con i suoi commenti e le sue azioni — il pubblico e talvolta gli sceneggiatori, motivo in più per farlo restare fedele a se stesso.

In generale, cambiamenti radicali nei personaggi destabilizzano e non vengono quasi mai graditi, salvo rari casi. Walter White in un momento rimasto impresso nelle menti e nei cuori dei fan dice, con la sua solita voce profonda e seducente, «I am not in danger, I’m the danger» e anche, nella stessa scena, «I am the one who knocks» (questa frase, in particolare, si è trasformata in uno slogan per la serie e la clip su YouTube che la contiene conta circa tre milioni di visualizzazioni).

Se è vero che Walter è cambiato tanto in BB, fin dal primo episodio è stato un uomo intenzionato a diventare padrone del suo destino, a lasciare un segno, ad ottenere il potere, e quindi, in definitiva a diventare “the one who knocks”; finché la serie fa muovere il personaggio e tutto il suo universo in questa direzione, ai fan e al resto del pubblico probabilmente andrà bene. È necessario che gli spettatori siano in grado di riconoscere certi tratti nel personaggio, altrimenti questo si trasformerebbe in un altro e deluderebbe le aspettative del pubblico; proprio giocando con queste aspettative uno show può avere grande successo oppure rivelarsi un disastro.

Nelle serie l’utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi… La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di trovarsi consolati dal ritorno dell’identico, superficialmente mascherato. — Umberto Eco (ECO 1985)

Insomma i personaggi possono e devono cambiare, ma dev’essere riconoscibile un pattern, a meno che il pattern non sia l’assenza di pattern. Al contempo, però, è necessario per la serie di successo fare in modo che essa venga percepita come novità tramite i più disparati espedienti narrativi: infatti nel momento in cui la visione della serie provoca la terribile sensazione del già visto, lo sbadiglio è dietro l’angolo. Quando va in onda il pilota di una serie, gli spettatori osservano la novità con eccitazione e stupore; durante tutta la messa in onda della serie, il pubblico vorrà ritrovare quelle sensazioni primordiali, ma la serie non riuscirà a provocarle se riproporrà ossessivamente i contenuti e i temi del primo nucleo narrativo, che possono perdere rapidamente la loro forza iniziale e il loro mordente.

Cambiare per non cambiare: la novità nella serie può funzionare come un trigger per configurare una matrice con la quale tutto il resto della narrazione instaurerà un rapporto duplice di identità e variazione. Lo showrunner, gli sceneggiatori, ma anche i registi (che hanno certi margini di libertà creativa ma devono muoversi all’interno di linee guida consolidate) sono gli equilibristi della serialità. Come la pratica del remake, anche la serialità in generale deve:

[…] collocarsi così nello scarto tra identico e diverso, tra vecchio e nuovo, tra il piacere di raccontare (o di sentirsi raccontare) di nuovo una storia amata e quello di raccontarla (o si sentirsela raccontare) in maniera nuova. (GUAGNELINI & RE 2007)

Dunque come suggeriscono, proseguendo, i due autori di quest’ultima citazione — e come ho anticipato riferendomi ai registi di serie TV — la dialettica tra identità e variazione deve necessariamente articolarsi sul piano del che cosa viene raccontato e allo stesso tempo sul piano del come si racconta. Una serie che gioca in modo libero con questa dialettica, destreggiandosi tra l’identità e la variazione, deve farlo con attenzione e riconoscere questo suo stilema; un esempio è la già citata Louie, prodotto per sua natura non convenzionale e che proprio per il suo spirito sperimentale e libero può permettersi di fare questo tipo di operazione.

Penso anche a Lost e in particolare alla botola della prima stagione: tale espediente narrativo — che ebbe grande successo tra il pubblico che si chiedeva ossessivamente cosa ci fosse in fondo ad essa — non poteva certo essere riciclato nelle stagioni successive, ma non v’è dubbio che altre ‘botole’ hanno popolato la serie: aerei precipitati dal contenuto misterioso, relitti di navi da esplorare, grotte, bare vuote o con all’interno corpi non identificabili. Tutte ‘botole da aprire’ e decodificare. Tutti elementi di variazione, almeno in superficiale, che costituiscono in realtà l’identità della serie, e riproducono una matrice iniziale.

È vero che, come suggerisce Eco, cerchiamo e pretendiamo di udire «sempre la stessa storia», ma vogliamo che si manifesti in modi nuovi e sorprendenti. Il camper di BB, la Crystal Ship come ama chiamarla Jesse, non può durare per sempre ed è destinato ad essere sostituito dal laboratorio di Gus e poi dai laboratori temporanei gentilmente offerti da Vamonos Pest. Ma l’identità di quei luoghi cerca il più possibile di rimanere la stessa, e alla base ci sono le stesse dinamiche.

Aldo Grasso, parlando di «quelle strategie discorsive e comunicative che accendono le passioni non solo dei protagonisti ma anche degli spettatori di fiction» (GRASSO 2007), suggerisce che i telefilm meritino maggiore attenzione di critica. «Il telefilm traccia infatti dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento e lo spettatore viene inconsciamente preso per mano e trasferito d’incanto nella dimensione emotiva che lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana.»

Ancora a proposito di questo stretto legame tra serie e spettatore:

I film e le serie tv (…) costituiscono una traccia sempre più importante: un ricco repertorio di strutture narrative, ruoli e modelli con cui confrontarci e a cui ispirare la nostra lettura delle cose; e anche una grammatica, un insieme di regole, figure e valori da utilizzare nella vita quotidiana. — Federico di Chio (DI CHIO 2011, p. 32)

I prodotti seriali ormai contaminano le nostre giornate, le azioni dei loro personaggi influiscono in qualche modo sulle nostre, le sensazioni provocate dagli show si riflettono in molti altri momenti della nostra vita. La grande potenza di BB sta anche in questo: al di là della forza sensuale delle immagini c’è la forza penetrante dell’incessante lotta tra il bene e il male, dei conflitti psicologici, delle dinamiche di potere, della voglia di riscatto, del potere dei soldi e del desiderio.

In conclusione, possiamo affermare che guardiamo BB per tutti questi motivi, e ci auguriamo che questo tipo di intrattenimento faccia da modello di riferimento per la televisione del futuro, una televisione che ci auspichiamo sappia cogliere e rielaborare ciò che la ‘TVIII’ sta producendo con così grande abbondanza e ricchezza.

Bibliografia

Siti consultati durante la scrittura

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Fabrizio Rinaldi
Feelmaking

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