Celeste VS The End Is Nigh

Scontro fra botoli salterini sull'orlo del baratro depressivo.

Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica
11 min readFeb 26, 2020

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Quando mi informai per la prima volta su Celeste cercandone un video, spinto dalla curiosità per la mole di pareri entusiasti, l’impressione a caldo fu “ah, ricorda Super Meat Boy”. Un po’ come quando, qualche tempo prima, aprii la pagina Steam di The End Is Nigh esclamando “cavoli, è proprio Super Meat Boy!”, dandomi subito dopo del Capitan Ovvio dato che l’autore è sempre McMillen e l’intento era proprio reinterpretare la formula del suo precedente gioco. Il sadico platform del cubetto insanguinato mi piacque davvero molto, per la sua sfida elevata ma ben calibrata, la fisica particolare dell’avatar, l’estetica accattivante tipica dello sviluppatore e i trucchetti, tutti ben riusciti, per evitare l’insorgere di frustrazione nonostante migliaia di game over, come un tempo irrisorio tra la morte del personaggio e l’inizio del tentativo successivo o l’esilarante replay di tutte le nostre prove sovrapposte una volta completato il livello, una trovata geniale che paradossalmente rende soddisfatti e quasi orgogliosi della pila di fallimenti accumulati. Vedendoci delle similitudini, ho immediatamente aggiunto i due titoli in questione alla lista dei desideri (anche se poi, ehm, me li ha regalati Epic), pronto a godermeli e pregustando un confronto diretto tra i due, per osservare come avrebbero declinato la stessa formula. E sono rimasto sorpreso dal vedere quanto nei fatti Celeste segua filosofie e regole ben diverse, rendendolo sì un’esperienza con punti in comune ma che va approcciata in tutt'altro modo.

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Ma partiamo dalla base condivisa, ciò che salta all'occhio a primo impatto. Entrambi sono titoli di rilievo della scena indipendente, dei platform 2D basati principalmente su schermate fisse e non a scorrimento, tratto che si sposa con un’altra loro caratteristica, ovvero una difficoltà superiore alla media: eliminando il movimento dello scenario si ottiene il doppio vantaggio di aiutare la precisione di salti & co e di mostrare il mini-livello nella sua interezza, così da permettere al giocatore di conoscere tutti gli ostacoli in anticipo e programmarsi un piano d’azione. La difficoltà porta comunque a innumerevoli fallimenti, accompagnati dalla già citata rapidità e snellezza dei retry e annotati in un deathcount di cui vantarsi con gli amici e che tocca tranquillamente numeri a quattro cifre.

La partita prosegue lungo una sequenza di stanze, divise in macro-aree distinte per tematiche, stilemi di level design e meccaniche, con un percorso principale spezzato da deviazioni più o meno nascoste che portano alle classiche sfide opzionali (tra cui console rétro con livelli in stile 8-bit) per raccogliere segreti e collezionabili, necessari per giungere al traguardo del 100% di completamento. E ovviamente, il nostro avatar è un pupazzetto tozzo che si schiaccia a terra e scivola sulle pareti (scusa Madeline, spero non ti offenda), pronto a morire per un solo sbaglio tra gli innumerevoli ostacoli, crepacci e superfici letali.

Celeste-VS-The-End-Is-Nigh-Tumori

L’origine delle divergenze tra i due titoli è nei comandi e moveset dell’avatar: Ash, nonostante la sua natura di poltiglia organica, è molto veloce e capace di grandi salti; sembra quasi un palloncino leggero, con le sue lunghe fluttuazioni. Madeline è invece goffa, lenta e i suoi salti non le permettono di raggiungere altezze elevate (ancora, scusami, sei comunque carinissima). Ottiene però grande mobilità attraverso la sua mossa distintiva, ovvero il dash, uno scatto che la proietta con forza nella direzione scelta, permettendole di estendere il salto o cambiandone repentinamente la traiettoria. È l’intuizione e scelta di design dietro questo dash ciò che detta l’intero Celeste, perché potente quanto limitante.

Il controllo di Ash è sempre saldo nelle mani del giocatore, in qualsiasi momento, con precisione millimetrica. Sia grazie alle discese a bassa accelerazione, che lasciano tutto il tempo per gli aggiustamenti del caso, sia per l’estesa gamma di gradazioni degli input rilevabili: a seconda di una pressione più o meno decisa del tasto A, i salti saranno regolati su varie altezze, così come saranno direzionabili verso qualsiasi indicazione della levetta analogica/d-pad. Il senso di padronanza è totale e fuori dal comune, impossibile da descrivere a parole. La perfetta fusione tra avatar e giocatore è uno dei punti di forza di The End Is Nigh.

Viceversa, il dash di Madeline toglie momentaneamente qualsiasi potere all'utente, dato che viene sempre eseguito con la medesima velocità e percorrendo lo stesso spazio, senza possibilità di modifica o annullamento (a meno di non consumare un secondo dash, ma è un lusso che potremo permetterci molto raramente). Inoltre, la traiettoria d’esecuzione è limitata alle 8 direzioni principali, le classiche su, giù, destra, sinistra e relative vie di mezzo. Un sistema quindi drasticamente più ingessato del precedente, ma non per questo intrinsecamente inferiore, anzi. Movimenti così inquadrati sono anche chiari, determinati, prevedibili. Gli autori Matt Thorson e Noel Berry stavano cercando proprio questo, un platform in cui fosse possibile visualizzare con precisione ogni passaggio in anticipo: la sfida e il divertimento vengono traslati dall'abituale richiesta di riflessi, coordinazione mano-occhio e capacità d’adattamento allo studio del percorso e la ricerca della perfetta sequenza d’azioni in grado di superarlo. Non che questi concetti siano nuovi al genere, tutt'altro, ma in Celeste lo sbilanciamento verso di essi è così marcato da essere rilevante e trasformare le schermate in dei semi-puzzle. Il level design è caratterizzato a tal punto attorno a questa visione da offrire soluzioni rigide e schematiche, tanto quanto il dash di Madeline, ma sempre di qualità elevata.

Fedeli a questi presupposti, i rispettivi giochi prendono strade diverse per valorizzare le loro peculiarità. The End Is Nigh abbonda di livelli relativamente ad ampio respiro, con diversi punti in cui sostare e tirare il fiato tra un salto millimetrico e il successivo, o con “circuiti” di ostacoli affrontabili a piacere, spesso quindi senza un tracciato obbligatorio ma lasciando liberi di crearsi la propria soluzione. Non disdegna nemmeno cambiamenti nello scenario nel mezzo dello svolgimento, per aggiungere l’imprevisto all'equazione. Celeste è invece molto più netto nel permettere un’unica strada tra gli ostacoli, con poco spazio alla nostra inventiva (almeno finché parliamo di comuni mortali, ho visto certi “pro” rompere ogni premessa piegando il gioco come meglio credono), solitamente individuabile fin da subito e senza sorprese. Un giocare più sui binari, ma, come in un puzzle game, la soddisfazione all'accendersi della lampadina arriva puntuale.

In effetti, avrei preferito Celeste si spingesse ancora di più verso l’estremo di quest’asse con “riflessi” e “pianificazione” alle due estremità. Il gioco infatti tenta di tenere i piedi in due staffe, unendo una natura di studio e programmazione a una difficoltà d’esecuzione e conseguente richiesta di manualità non banali. Le due cose non sono totalmente in contrasto, ma la loro compresenza innalza la complessità del tutto, e se si considerano i già citati limiti del sistema di controllo emerge qualche problema. A volte tutto fila come dovrebbe e guidare Madeline è un autentico piacere, ma basta una piccola imprecisione per eseguire un dash errato di 45°, con conseguente morte istantanea senza possibilità d’appello a causa della rigidità della mossa e dei livelli. In The End Is Nigh sapevo sempre cosa volevo fare, morivo comunque molto perché dovevo imparare a farlo bene e non è facile, ma restavo costantemente nella mentalità “errore mio, posso fare meglio”. E anche di fronte a qualche sbaglio minore, si ha margine di manovra per aggiustare le cose. In Celeste più volte sono invece scivolato nel pensiero “uff, questo passaggio è facile eppure non riesce”, dando con un po’ di frustrazione la colpa al gioco anziché a me stesso, cosa che non dovrebbe accadere. Mi è sembrato un po’ come fare una speedrun dei Tomb Raider anni ’90: considero i loro controlli molto funzionali e precisi, perfetti per quel level design a spazi quantizzati, fatto di poligoni e distanze standard, che crea un platforming calmo e ragionato. Ma provate a eseguire il tutto di fretta e la legnosità di Lara emergerà in maniera così prepotente da trasformare l’esperienza in una tortura.

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Avrei voluto un Celeste più semplice, quindi? No, solo diverso, ovvero un pelo più rilassato nell'esecuzione, per eliminare possibili fastidi dovuti ai controlli e potersi permettere una maggiore profondità nella componente puzzle. E in questo campo agli autori non manca affatto la competenza, siccome alcuni dei livelli segreti più avanzati sono qualcosa di stupendamente diabolico... ma evidentemente la pensano in modo diverso da me, dato che più si avanza nel gioco e nelle sfide aggiuntive, più emergono livelli dannatamente veloci e impegnativi, anche abbandonando la struttura a schermate fisse per livelli a scorrimento più estesi, imprevedibili e con un certo trial & error.

Ma non si può parlare di Celeste concentrandosi solo sul gameplay, per quanto, nonostante le mie riserve, presenti una solidità che lo rende in grado di reggere baracca e burattini. Il titolo rapisce con una cura visiva degna di nota, dolce e armoniosa, capace di donare immenso carattere ad ogni sua area. Accompagnata a braccetto dalla splendida colonna sonora, con vari pezzi memorabili e dannatamente evocativi. La timidezza di una ragazza kawaii, l’inquietudine di un hotel infestato, la disperazione di un fallimento inevitabile, la carica nell'avvicinarsi alla vetta… tutte cose che il titolo vi trasmetterà con efficacia su più livelli, fondendo giocato, grafica e sonoro.
A essere entrata nel cuore di molti è anche la tematica trattata (se volete evitare del tutto gli spoiler, saltate all'ultimo paragrafo).

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Celeste è la storia del dialogo interiore di Madeline, ragazza depressa che tenta di uscire da questa condizione, raccontata attraverso varie metafore. Il doppelganger della protagonista si palesa quasi subito per quel che è, ovvero una personificazione della sua parte più insicura, tossica, tendente all'autocommiserazione, e che si rassegna quindi allo status quo reagendo con violenza ai tentativi di cambiamento, terrorizzata com'è dalla possibilità di fallire e subire così l’ennesima ferita. La scalata alla montagna è ̶c̶o̶m̶e̶ ̶a̶n̶d̶a̶r̶e̶ ̶i̶n̶ ̶p̶a̶l̶e̶s̶t̶r̶a̶ quanto di più classico si possa pensare come simbolo di determinazione, costanza, crescita. È un racconto semplice e diretto, che tramite il fascino onirico delle sue situazioni tratta una problematica non banale in modo azzeccato e riuscito, senza avere la presunzione di indicare una soluzione facile ma fornendo buoni propositi e una speranza.

E quel che vuole comunicare The End Is Nigh? Non gliene frega niente a nessuno, eppure ce ne sarebbe da dire! Forse perché il suo stile caciarone, demenziale e cartoonesco lo fa apparire come un mattacchione che vuole solo far ridere in maniera superficiale, lo scemo del villaggio. Ma dietro questa facciata ci sono uno studio e un’alchimia per nulla scontate. L’aspetto estetico, se si apprezza il genere, è assolutamente di qualità. La colonna sonora è basata su pezzi di musica classica ri-arrangiati in ritmo e sonorità, sposandosi magnificamente alle particolarità delle aree e le loro meccaniche. È in grado di giocare con maestria con la cultura del medium, citando capisaldi del genere come Super Mario Bros, ma sempre andando oltre la becera nostalgia reinventandone le idee a modo suo.

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Inoltre, anche qui c’è la volontà di trasporre nel gioco un malessere interiore, pur se in un modo diverso. Se Celeste narra di un percorso, di un disagio e la ricerca di una via virtuosa per superarlo, The End Is Nigh si concentra invece sul rappresentare un precisa condizione emotiva. E lo fa in maniera meno diretta, insinuando dentro di noi quello stato d’animo per via indotta, per “osmosi”. In effetti, bisogna avere un QI molto alto per… no scherzo. Però di certo è qualcosa di meno immediato, che richiede di riflettere oltre lo strato superficiale e di porsi le giuste domande.

L’opera di McMillen può essere vista come una grande espressione dell’inevitabilità. Il mondo è già caduto in disgrazia, rimangono solo macerie e rifiuti, e lo stesso Ash è un conglomerato di carne e ossa per nulla attraente. Ormai solo, parte alla ricerca di un amico, di una qualche luce in fondo al tunnel. E non solo la sua missione è un fallimento, ma si ritrova in mezzo ad una seconda apocalisse, e quindi una terza. La fine, in ottica positiva, la salvezza, sembra ogni volta vicina, ma in realtà è effimera, irraggiungibile. Non ci si può ribellare al destino, al vero finale, perentorio e assoluto. E questa conclusione, narrata dal mondo che degrada sempre più e da enormi esplosioni, è nientemeno che la morte. L’idea viene instillata da tanti aspetti del gioco: ad esempio, si attraversano i livelli raccogliendo tumori, mentre la lista dei nomi delle sfide segrete compone le cinque fasi di elaborazione del lutto, e lo stesso stage conclusivo della partita s’intitola “Acceptance”.

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Altra chiave di lettura, di cui parlano gli stessi autori nelle interviste, è vedere il gioco come una trasposizione del processo di creazione di un videogioco, o di una professione che sottopone a forte stress in generale aggiungerei.

…we wanted mechanics that would induce panic or stress in the player. Hence all the things like jumping off of falling buildings or the toxic water and clouds that you could only stay in for a very short period of time.

McMillen racconta di non aver sempre vissuto bene il suo lavoro, lasciandosi sopraffare dalla pressione delle scadenze, il senso di responsabilità, la paura di fallire, finendo in un circolo di pensieri tossico e deleterio. E ha deciso di riversare questa sua esperienza nel gioco, che ci tortura e mette ansia con le sue meccaniche, che ci indirizza verso una fine, la liberazione, che sembra allontanarsi ogni volta che siamo convinti d’averla raggiunta. Senza che ci sia una vera via di fuga, se non il comprendere quanto ci stiamo auto-lesionando, accettare di lasciarci alle spalle questi comportamenti, mettere un po’ da parte il dovere, fosse anche quello dei nostri sogni, e riportare il nostro benessere al primo posto… pur se ormai di danni ce ne siamo fatti e ciò non cambierà. O almeno, questo è quanto ha trasmesso a me.

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“Hey Harle, parli troppo, l’articolo si chiama Celeste VS The End Is Nigh, io sono entrato solo per il sangue e sapere chi vince”. Ok: vince The End Is Nigh. In virtù delle profonde differenze tra i due giochi snocciolate finora, il confronto diretto in realtà ha senso solo fino a un certo punto, ma non c’è dubbio su quale sia il mio preferito. Il primo è davvero ottimo e si merita tutto il successo avuto, ma il titolo di McMillen e Tyler Glaiel risponde colpo su colpo ad ogni punto forte dell’avversario, col vantaggio di non scoprire il fianco nemmeno a qualche sbavatura minore. Ha anche una forte identità, restando sì più vicino al precedente Super Meat Boy ma proponendo così tanti aggiustamenti e nuove idee da stracciare l’iniziale etichetta di “more of the same”. E poi è l’underdog molto meno famoso, è ovvio mi stia più simpatico.

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Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica

Appassionato di sistemi, trova ristoro in esplorazione, funghi e polenta.