Com’è invecchiato Demon’s Souls?

Nonna Astraea, raccontaci una storia!

Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica
9 min readNov 13, 2020

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Il Dragon God di Demon’s Souls in tutta la sua imponenza

Ogni volta che ci si avvicina a un gioco con qualche anno sul groppone, o al risultato di un’operazione di restauro videoludico limitata al lato tecnico ed estetico, ci si pone sempre la fatidica domanda: ma sarà divertente quanto allora? Beh, riguardo al titolo sotto i riflettori in questi giorni, ovvero Demon’s Souls e il suo remake, sono pronto a rassicurarvi: sì, vi intratterrà alla grande.

Il vecchio titolo From Software l’ho scoperto e vissuto da pochissimo, ispirato proprio dall’ondata di entusiasmo verso la sua attuale riedizione. Non essendo però interessato alla console next gen di Sony ho ripescato la versione originale per PlayStation 3, seppur potenziandola qua e là attraverso l’emulazione su PC. Ma insomma, la sostanza è sempre la stessa. Un tuffo in un passato non certo remoto, dato che il titolo non è poi così vecchio e nasce in una generazione già matura, ben distante dai primi approcci al 3D che oggi risultano un pugno in un occhio. Remake non necessario quindi? Non strettamente, ma di sicuro utile e gradito ai tanti che si sono persi non solo il capostipite di una saga di successo, non solo il punto d’inizio dell’adorazione su larga scala di From Software, ma anche il via a una moda che ha contaminato in maniera incredibile l’intero mercato videoludico — al punto che per molti souls-like è ormai un vero e proprio genere.

L’enigmatica maiden in black di Demon’s Souls

Tendenza alla follia collettiva

Oggi la “ricetta souls” è diffusissima, ma Demon’s Souls al contrario sboccia come un qualcosa di atipico e in aperta controtendenza al videogioco di massa. Si pone con ostilità nei confronti del giocatore, circondandolo di meccaniche brutali e astruse. L’iconico “you died” appare con frequenza, diventando un vero simbolo di tormento e solidarietà tra gli utenti. I progressi degli altri abitanti del Nexus, il loro spostarsi per il mondo in seguito a certi eventi, sono oscure sotto-missioni decifrabili solo attraverso tanti tentativi e il confronto con l’esperienza altrui. L’unicità di Demon’s Souls, in buona parte ereditata dai successivi giochi From Software, sta soprattutto nella capacità di unire, di forgiare legami e confronti fino a costruire una community unica, che collabora per sbrogliare il nodo che è il gioco (o trova gusto nel mettere i bastoni tra le ruote agli altri).

Uno dei meccanismi più singolari cui ricorre, non replicato da nessun altro, è la tendenza dei livelli di gioco. Il concetto è semplice: più volte si muore in forma umana in un’area, più questa tenderà verso il “nero”. Se si sconfigge un boss, o si compiono altre azioni considerate positive, tenderà verso il “bianco”. Come intuibile dai colori scelti, un livello bianco sarà più semplice, mentre uno nero presenterà nemici più coriacei (ma anche ricompense maggiori). Questo potrebbe essere interpretato come un interessante stratagemma di regolazione della difficoltà: per evitare che, forte delle conoscenze acquisite dopo qualche fallimento, un giocatore trovi una sfida ormai banale, l’ambiente si oppone a esso, così da conservare quella fatalità tipica del primo tentativo. Fare progressi significativi, come sconfiggere finalmente il guardiano della sezione, torna ad abbassare la sfida su livelli più miti e adatti alla prima visita dell’area successiva. La tendenza può anche essere manipolata volontariamente per agevolare la raccolta di risorse, premiando un approccio che associa maggior rischio a maggiori ricompense.

L’affascinante arena del Flamelurker di Demon’s Souls

È però singolare e in aperto contrasto con questa interpretazione il fatto che la tendenza locale non dipenda solo dalle nostre azioni, ma dalla media delle tendenze degli altri giocatori sul server. La community entra di nuovo prepotentemente nella nostra partita, stavolta non in modo plateale come invasore ma in maniera subdola e inconscia. La tendenza perde ogni velleità di bilanciamento: un giocatore che affronta un livello sconosciuto già vicino al nero a causa della tendenza globale avrà ben poche chance di vittoria, finendo per morire e aggravare la situazione sua e degli altri, o viceversa. Si percepisce più di che mai il ruolo narrativo di una simile caratteristica, rappresentazione della corruzione di Boletaria e dintorni, pronta a trascinarsi a fondo con sé in una spirale di disperazione.

A cosa serve quindi, nel concreto, questa schizofrenica tendenza? Forse solo a confondere, spiazzare, stupire. Una scheggia impazzita all’interno del design di gioco, che trasforma continuamente la partita modificando non solo la forza dei nemici ma anche le condizioni ambientali, ad esempio sbloccando passaggi prima inaccessibili. Con ben poche spiegazioni a riguardo e senza che l’impatto degli altri giocatori fosse noto in origine, Demon’s Souls è un gioco volubile e capriccioso, cosa che contribuisce alla sua unicità e lo rende tutt’oggi qualcosa che è bene sperimentare sulla propria pelle.

Il Penetrator è un boss dal grande carisma in Demon’s Souls

Ecco a voi Dark Souls 4

Dicevamo che Demon’s Souls non è certo un gioco così vecchio, ma dalla sua uscita ne è passata di acqua sotto i ponti. A causa dell’incredibile successo dell’erede spirituale Dark Souls e dei suoi seguiti, che ha prodotto tanti emuli della formula From Software, il concept d’origine ha visto in breve tempo un sacco di nuove declinazioni. Già solo i suoi autori, con ben tre giochi molto vicini più un Bloodborne — che se ne distacca ma non troppo — , hanno apportato numerose migliorie, accorgimenti, maturazioni. Per i tanti che hanno scoperto la saga in un secondo momento il remake sarà la prima esperienza con Demon’s, un gioco che rischia di essere considerato alla stregua di un quarto capitolo dei Dark. E in quest’ottica è meglio non eccedere nelle aspettative.

Demon’s Souls è ancora oggi molto soddisfacente nel suo combat system, nell’esplorazione della mappa, nell’atmosfera del suo ambiente… ma dal confronto diretto coi discendenti non ne esce così bene come spesso si legge in giro. Partiamo dalla struttura della mappa, uno dei fiori all’occhiello del brand: Demon’s non offre né la visione d’insieme globale di Dark Souls né l’interconnessione locale di Dark Souls 3. Il caratteristico level design ritorto, basato su scorciatoie e incroci ricorrenti, è vivo e presente solamente nel castello di Boletaria. Negli altri mondi troppo spesso si ricorre a una singola scorciatoia di comodo proprio sul finale del percorso, rendendo il tutto poco naturale e perdendo quel magnifico e progressivo senso di conquista. Spesso nemmeno ciò che c’è all’interno della mappa è così piacevole, a causa di un level design fin troppo infarcito di strette passerelle pronte a darci la morte al primo passo falso. Se ogni Souls ha la sua Città Infame, Demon’s ne ha almeno tre. Ho sempre sostenuto l’estrema onestà della serie, punitiva ma senza quasi mai appoggiarsi a difficoltà artificiose e frustranti… ma approcciare Demon’s con un personaggio che preferisce le schivate alle parate mi ha parzialmente fatto ricredere.

La imponenti mura di Boletaria in Demon’s Souls

Altro aspetto chiave dei giochi From Software sono i boss, che nel capostipite non solo risultano inferiori ai migliori di Dark Souls 3, ma addirittura sono più scontati dei già limitati presenti nel primo Dark Souls. Caratterizzati da un ritmo d’azione lento e compassato, e spesso da un punto debole fin troppo ovvio e immediato da sfruttare, pongono una sfida davvero bassa che nuoce al coinvolgimento e al climax che lo scontro dovrebbe rappresentare. Perfino il temutissimo Flamelurker a ben vedere sfodera poche mosse che lasciano ampio spazio per permetterci di reagire; in più quando colpito viene brevemente stordito anche dal più debole dei nostri attacchi, concedendoci una sicurezza preziosissima. Alcuni boss riescono a compensare questa loro banalità tecnica con un approccio particolare, magari coinvolgendo anche l’arena come fa il Tower Knight, ma in troppi altri casi il risultato è deludente.

I problemi sopracitati si risolvono parzialmente inquadrando correttamente il vero spirito del gioco. Demon’s infatti non ha ancora quell’anima action fatta e finita dei seguiti, né una libertà totale nella costruzione del personaggio. Le opzioni nell’equipaggiamento sono molto più ridotte, così come le situazioni molto più rigide nel favorire un determinato approccio. Il gioco non cerca di rendere ogni specializzazione attuabile, anzi sprona ad avere un avventuriero versatile e capace di adattarsi a vari contesti. Anche all’agile samurai conviene avere a portata di mano un martello per i nemici di roccia di Stonefang, così come si risparmierà molte noie se avrà con sé uno scudo per superare gli stretti sentieri attorno al Shrine of Storms. Su diversi boss si può chiudere un occhio giudicandoli secondo criteri action-adventure, seppur anche così alcuni lascino ancora a desiderare.

In Demon’s Souls ci sono decisamente troppe cure.

Ciò che invece difficilmente trova una giustificazione è la distribuzione delle risorse ottenibili. Oggetti di cura e materiali per potenziare l’equipaggiamento sono strettamente legati a certe zone del regno di Boletaria, ad esempio ci sono minerali in abbondanza nelle miniere di Stonefang e ricariche per il mana addosso agli incantatori di Latria. Una gradevole coerenza tematica che però comporta conseguenze fin troppo fastidiose. Passeremo infatti dalla totale mancanza di una risorsa all’averla in sovrabbondanza nel giro di un livello, senza l’ombra di misurata progessione e bilanciamento. E se per caso finissimo per esaurirla, saremmo costretti a fastidiose sessioni di farming forzato nella zona dedicata, una pratica non certo stimolante (specie in un gioco che già costringe a ripetere segmenti di mappa a ogni morte).

Allo stesso tempo, un giocatore capace o che ha speso troppo tempo nella raccolta può immagazzinare un numero esagerato di cure, abbassando di molto la difficoltà del titolo. La rivoluzione avvenuta in Dark Souls, con cure limitate in numero e auto-rigenerate e con ogni altra risorsa posizionata manualmente nei livelli per creare una progressione precisa e controllata, ci offre un prodotto decisamente più calibrato e piacevole. Non a caso, il peso delle erbe curative nell’inventario è una delle cose del remake di Demon’s Souls modificate rispetto all’originale, proprio per impedire scorte eccessive.

Una suggestiva sala del trono in Demon’s Souls

La forza del coraggio

Come al solito mi piace dilungarmi su quanto ho trovato di migliorabile nel gioco, ma l’affermazione a inizio articolo resta valida: al netto dei difetti, resi ancora più evidenti dal confronto coi successivi giochi From Software, Demon’s Souls resta assolutamente in grado di intrattenere e offrire momenti memorabili. Anzi, in più occasioni stupisce come risulti il più coraggioso, audace e ispirato del lotto, ad esempio grazie alla tendenza di cui abbiamo già parlato. Ma anche nel modo in cui rompe certi tabù videoludici non scritti, come evocando un altro giocatore nel ruolo di boss della nostra partita (idea poi ripresa in Dark Souls 3, ma senza la stessa carica innovativa) oppure permettendo a un avversario di toglierci un livello esperienza in modo permanente, rubandoci una conquista che abbiamo sempre considerato intoccabile.

La Torre di Latria, con la sua storia di disperazione ed effimera speranza, la sua struttura unica e intricata, quell’atmosfera da pelle d’oca e i tanti momenti iconici, è tutt’ora una delle sezioni migliori sfornate dalla casa di sviluppo giapponese. Se i boss falliscono in termini ludici, diversi sacrificano più o meno volontariamente quest’aspetto per trasmetterci in modo più efficace e coinvolgente la loro storia. Maiden Astraea in particolare colpisce al cuore, con quella musica tanto potente e diversa dal solito, vera protagonista del combattimento. Non stiamo affrontando un vero avversario né tantomeno un moveset, ma una lotta interiore contro il disagio provocato dalla consapevolezza di star per compiere un atto sacrilego e crudele.

Sensazioni riproposte in modo diverso anche nel climax finale, che ci pone di fronte a una situazione così straniante da lasciare titubanti e storditi. Disattende le aspettive videoludiche con forza tale da farci dubitare del nostro ruolo, o addirittura farci domandare se Demon’s abbia smesso di essere un gioco.

Design acerbo o meno, direi che ci sono ragioni più che buone per correre a provare questo remake, che sia la vostra prima avventura nelle lande di Boletaria o un ritorno nostalgico tra le nebbie. Dovete solo scendere a patti con la direzione artistica rimaneggiata, la possibilità di mettere in pausa il gioco abusando della modalità fotografia, l’interfaccia del tutto generica, asettica e slegata dal resto, il discutibile stravolgimento di certi modelli come quei grassoni malefici o Re Allant spogliati del loro carisma, il feedback delle animazioni così così… ehm, come non detto, meglio se ci pensate due volte prima di dare cieca fiducia all’opera di Bluepoint Games.

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Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica

Appassionato di sistemi, trova ristoro in esplorazione, funghi e polenta.