Crash Bandicoot ha preso a calci il mio perfezionismo infantile

Naughty Dog mi ha insegnato qualche dura lezione, anni fa.

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica
5 min readJun 13, 2020

--

Il protagonista Crash Bandicoot, in un’immagine catturata dal remake.

C’è stata una prima console, nella mia vita. Poi c’è stata la mia prima console. Quando ero piccolo piccolo, nella stanza dei giochi c’era una Amiga, coi suoi floppy non proprio originali, i Joystick con due o più pulsanti, e quel misto di rumori durante i caricamenti che, a oggi, ho ritrovato solo quando mi sono dovuto infilare in un apparecchio per la risonanza magnetica. Era una macchina fantastica, per me: Another World, Speedball 2, Battle Squadron, Wolfchild e, naturalmente, Street Fighter II (non era un caso se il secondo controller aveva dei tasti in più rispetto al primo)… ma non l’avevo voluta io. Non ero stato tartassato da miriadi di pubblicità, non avevo visto i miei compagni di classe esultare perché i loro genitori, per il compleannatalepasquonomastico, gli avevano regalato una Amiga. No: quello, o parte di quello, era successo a mio fratello maggiore. Il mio turno di affogare nella spirale del desiderio tecnologico arrivò con la prima, magica, PlayStation, e Naughty Dog creò il lucchetto che mi avrebbe piantato davanti allo schermo per innumerevoli pomeriggi.

Mio cugino, che abitava a pochi passi da casa mia, mi aveva preceduto di qualche mese. Passai diverse giornate da lui, giocando ore e ore a un preciso gioco: Crash Bandicoot. Quando misi le mani sulla mia PlayStation, ho praticamente preteso la mia copia. I miei, non a torto, insistevano sul fatto che avrei potuto farmi prestare il gioco, e che potevo scegliere qualcosa di diverso. Ma no, io volevo che fosse mio, senza dovermi preoccuparmi di “me lo rendi?” o “l’hai finito?”. Fu l’inizio del rapporto con la mia prima, vera serie videoludica, che rimase per qualche tempo pure l’unica (finché, un giorno, entrò in casa sfondando la porta d’ingresso Final Fantasy). Per rinfrescarvi la memoria sulla storia dietro a questo pretendente al titolo di mascotte Sony, potete dare un’occhiata all’articolo del nostro Luca “Jonsy Duke” Polletta, che trovate qui.

Il primo Crash Bandicoot e l’ultima cassa di legno

Avevo già avuto esperienza con dei platform, in precedenza. Su Amiga avevo persino una copia del celeberrimo The Great Giana Sisters, quella versione al femminile di Mario che, non a caso, aveva attirato spiacevoli attenzioni da parte di Nintendo. Il mio modesto curriculum non mi aveva preparato alla magia delle tre dimensioni: la libertà di movimento — del personaggio come della telecamera — mi catturò in un attimo. È difficile oggi, anche per chi c’è passato (no, non mi serve ancora il bastone da passeggio, grazie), ricordare con precisione la forza di quel cambiamento, avvenuto lungo una terza, inesplorata direzione.

Ma sulla cima del monte di ore che ho trascorso in compagnia del primo Crash Bandicoot c’è una nota amara. Al tempo ero affetto da un morbo che, negli anni, mi avrebbe poi abbandonato (e il primo distacco avvenne proprio grazie a questo episodio), ovvero la sindrome acuta da completista. Portare a termine tutti i livelli non mi bastava, volevo spremerli fino all’ultima goccia. Questo, nel capitolo d’esordio della serie di Naughty Dog, voleva dire una cosa sola: collezionare le gemme. Per chi non lo sapesse, si trattava di trofei che venivano consegnati al giocatore quando completava un dato livello senza mai perdere una vita e mandando in frantumi tutte le casse.

Ci sono trentadue livelli nel gioco, sparsi lungo tre diverse isole. Riuscii a ottenere la gemma in trentuno di questi; la mia nemesi si chiamava Sunset Vista e si trovava a due passi dal secondo boss della seconda isola. Era lo schema più lungo del gioco, nei miei ricordi davvero interminabile. Pieno zeppo di trappole infami e di casse nascoste in punti a rischio caduta. Non posso sapere quante volte ho provato ad agguantare quella dannatissima gemma, ma ricordo con precisione quella che mi fece dire che ne avevo abbastanza. Credo che sia superfluo dire che vidi Crash cadere nel vuoto, con la faccia inebetita, a due passi dalla fine — anzi, per essere precisi, a una scatola dalla fine. Quella fine ingloriosa mi fece rinchiudere per sempre il disco di gioco all’interno della custodia, con la promessa di non riaprirlo mai più.

Ma non ho mai avuto il coraggio di cancellare il salvataggio dalla memory card.

Crash Bandicoot, in una delle stanze per la selezione dei livelli del terzo capitolo della serie.
La moto è stata una delle caratteristiche più pubblicizzate del terzo capitolo della serie. Bandicoot of Anarchy: la resa dei conti.

Il perfezionismo sfrenato colpisce ancora

È difficile liberarsi completamente di una mania, delle volte fanno ritorno quando meno te lo aspetti. Se Crash Bandicoot 2 era passato tra le mie mani con leggerezza, senza farmi desiderare alcuna gemma, le prove a tempo del terzo capitolo seppero smuovere la brama sepolta di trofei. La mia caccia alle reliquie — i premi ottenuti per aver completato un livello entro un tempo massimo — cominciò in maniera spensierata, ma ben presto cominciai a prenderla molto seriamente.

Il gioco mostrava un tempo limite per guadagnare la reliquia di zaffiro, in ogni livello… almeno all’inizio. Già dopo i primi trofei cominciai a notare gli obiettivi successivi: le reliquie dorate. Sembrava un traguardo interessante, quindi raccolsi tutti i trofei azzurri per poi concentrarmi su quelli d’oro. Ci misi un po’ di tempo a collezionare il tutto; all’inizio era divertente, poi cominciò a diventare un tantinello ripetitivo. Quando Crash Bandicoot 3 mi fece delicatamente notare che avrei dovuto ripetere tutti i livelli un’altra volta per battere dei tempi ancora più bassi e guadagnare le reliquie di platino, ho avuto un tracollo. Ricordo di aver pensato, in questo ordine:

“Ma che è il platino? L’oro non era la cosa più preziosa?”, perché ero piccolo e ingenuo.

Poi, subito dopo:

“Col cavolo che li rifaccio tutti”, e decisi che avevo visto e giocato abbastanza.

Quella volta ho creduto davvero di aver smesso davvero con i trofei, ma la serie di Crash Bandicoot (la parte gestita da Naughty Dog, si intende) aveva ancora un asso nella manica. Mi innamorai in un batter d’occhio di Crash Team Racing e finì per diventare una specie di mania; ricordo che in un giorno di provvidenziale influenza cominciai e finii una nuova partita, mentre i miei genitori cercavano in tutti i modi di farmi allontanare dallo schermo. Anche in quel caso furono le prove a tempo a portarmi di nuovo verso il lato oscuro del completismo, ma la prospettiva di sconfiggere il fantasma di Oxide in tutte le piste mi sembrò molto più interessante rispetto alla corsa contro il tempo di Crash 3: Warped.

Ho corso per giorni e giorni dietro alla sagoma traslucida di quell’alieno, senza stancarmi mai. Quando sono riuscito a sconfiggere il suo giro veloce sulla pista a lui intitolata la soddisfazione è stata immensa. CTR mi ha fatto capire che i trofei potevano ancora riservarmi piacevoli sorprese, senza necessariamente costringermi a ripetere alla nausea attività poco stimolanti. Mi porto dietro ancora oggi il frutto dell’esperienza con questi videogiochi firmati Naughty Dog: le liste dei trofei sono spazi che non frequento mai, se non per caso. Non mi impongo mai obiettivi assurdi per il gusto di raggiungere il platino (devo aver sviluppato, dopo Crash Bandicoot 3, una sorta di repulsione verso quel materiale), e solitamente se ne raggiungo uno è perché frutto di un’attività in gioco davvero in grado di divertirmi. Devo riconoscere che la terapia d’urto del marsupiale di Naughty Dog è stata molto formativa, nonostante i momenti di assoluta, indimenticabile frustrazione.

--

--

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica

Chiacchieratore seriale, passa buona parte del suo tempo a parlare ad altri della sua passione per i videogiochi.