Cronache dal Backlog — We Happy Few

La città dove tutti sorridono.

Manuel "Odd" Berto
Frequenza Critica
7 min readJun 16, 2021

--

we-happy-few-copertina

We Happy Few è un progetto che parte dalle umili origini di un kickstarter, per poi evolvere sempre di più in ambizione fino a convincere Microsoft ad acquisire lo studio. Evidentemente deve aver visto anch’essa del potenziale in questo gioco, ma nell’osservarlo è meglio se ci togliamo subito un carico dal groppone: l’esperienza di gameplay è piuttosto blanda. Difficoltà sbilanciata, tanto loot inutile, scontri e sequenze stealth all’acqua di rose che diventano presto routine più che sfida.

Non nascondo che ho faticato a completare la campagna principale, ma proprio dopo quel momento, quando il palcoscenico passa ai 5 personaggi secondari, è proprio lì che tutto brilla di più. E non perché vi siano rivoluzioni, anzi, il gameplay viene per taluni aspetti ulteriormente semplificato, ma è proprio questo pensiero di sottrazione che rende le campagne di Sally, Ollie e del trio di personaggi finali più interessanti da giocare. Ma sul cast ci torniamo dopo. Per ora il punto che vorrei stabilire è che We Happy Few mi è risuonato come un’esperienza grezza, perfettibile in ogni aspetto. Ma nell’analizzare un gioco controverso mi chiedo sempre: c’è qualcosa che gli somiglia? Qualcosa che fa le stesse cose, ma meglio? Più la risposta tende al “no” e più sento di premiare, se non la realizzazione, almeno le intenzioni.

Facciamo 2 chiacchere sul contesto: la città in cui si ambienta la vicenda non è un semplice sfondo, ma per tanti versi è la vicenda stessa. Apprezzo sempre quando si riesce a creare una buona alchimia tra i personaggi e i luoghi dove vivono, ed è proprio nel raggiungimento di quell’armonia che le ambientazioni si cristallizzano nel tempo fino ad ispirare le top ten che ci portiamo nel cuore.

Io sono in difficoltà nel fare classifiche. Se mi chiedete quali sono le mie 10 città preferite nel mondo dei videogiochi probabilmente inizierei strambe acrobazie verbali per cambiare discorso. Ma nella mia lista composta da X voci, Wellington Wells c’è. Questa bucolica città inglese in stile anni ’60 alternativi ha usi e costumi, un’identità architettonica e tecnologica, un fatto storico molto brutto che poche persone ricordano e del quale ancora meno sono disposti a parlare. È quel tipo di città che esiste al di là dei suoi abitanti, e infatti nessuno dei protagonisti conosce l’intera sequenza di eventi che portò al trauma collettivo di cui l’intera popolazione è vittima. Infatti ogni residente è legalmente obbligato ad assumere regolarmente il Joy, un farmaco psicoattivo che induce euforia e felicità, mentre al tempo stesso compromette la memoria. Ricordare è doloroso ed essere tristi a Wellington Wells non è legale. Se terremo il muso lungo per troppo tempo i residenti ne saranno infastiditi, arrivando persino a picchiarci finché non torneremo a sorridere. Chi non ha intenzione di assumere il Joy o non può causa intolleranze è relegato nel Garden District, una zona della città bombardata diventata terra di nessuno dove non vi sono obblighi, ma nemmeno nessuna forma di società.

we-happy-few-Arthur-interno-nascosto-villa
I medici hanno la missione di farvi sorridere. A qualsiasi costo.

Un bel giorno, Arthur Hastings, timido revisore di bozze e censore di brutte notizie nelle pagine di uno dei quotidiani più importanti della città, legge qualcosa in uno dei tanti titoli che regolarmente cancella. Qualcosa che non avrebbe dovuto leggere, che è sfuggito alla nebbia mnemonica provocata dal Joy. Subentrano disagio, ansia, panico che non sfuggono ai ligi colleghi e avviene infine l’inevitabile pestaggio per il reato di non sorridere. Ma il mal di testa fisico è poca cosa rispetto ai frammenti emozionali che iniziano a prendere ordine nella testa di Arthur. Una guerra, un treno, una promessa caduta nel vuoto, tante cose che non tornano e poche persone con cui si riesce ad avere una sobria conversazione che vada oltre al “Lovely day for it!”.

Inizia così un’indagine volta a scoprire cos’è realmente successo in quel giorno che è illegale ricordare, un viaggio che incrocia la strada con altri eccentrici personaggi e che porta a scoprire la cultura che si è sviluppata in questa società i cui abitanti vivono costantemente con percezioni alterate. L’energia è fornita dal motilene, abbondante sostanza fuxia infiammabile dalle dubbie origini, le eminenze politiche della città ci confortano attraverso entusiastici proclami, le strade hanno colori arcobaleno, eppure basta scalfire la superficie e la mascherata inizia rapidamente a cadere. Distretti periferici abbandonati a loro stessi e regolarmente saccheggiati da bande, stazioni di controllo in cui non è rimasto nessuno a controllare, soldati con armi scariche. Cosa sta realmente succedendo?

we-happy-few-Sally-laser-corsa-corridoio-statua
Gli interni sono un misto di Art Deco e Pop, dove l’opulenza architettonica si alterna a colori penetranti.

Tutto diventerà chiaro a suo tempo. Il come ci si arriva, dicevamo, è la parte più fragile della composizione. Il gameplay si traduce in un immersive sim in prima persona con recupero risorse, occasionali combattimenti all’arma bianca o momenti stealth, parametri di fame e sonno da tenere d’occhio, negozi e crafting. Il problema è che è veramente tutto troppo semplice, e proseguendo lo diventa ancora di più. Arthur può interagire sia con i banchi di lavoro chimici che meccanici, non c’è mai una vera carestia di risorse e addirittura ci sono abilità dello skill tree che permettono di eludere regole che narrativamente sono consolidate nella roccia. A Wellington Wells c’è il coprifuoco da tarda serata all’alba, e non si capisce bene come faccia Arthur di punto in bianco a poter vagare a piacimento solo con l’acquisizione di una skill. Ma anche prima di quel punto, le sequenze in teoria più impegnative non mettono mai veramente alla prova, con il risultato che le sfide che ci bloccheranno di più saranno quelle che coinvolgono la ricerca di precisi ingredienti per un crafting necessario.

Le cose migliorano con Sally, che evita quando possibile i confronti diretti giocando invece con la sua esperienza in chimica: sonniferi da spruzzare con il suo elegante nebulizzatore, potenziatori momentanei, quando non addirittura pillole che simulano l’effetto esteriore del Joy senza inficiare l’autocontrollo e la memoria. Inoltre ha un inconfessabile segreto che obbliga il giocatore a una nuova routine da incastrare tra una quest e l’altra.

we-happy-few-bosco-falò-notte-banditi
Ollie è scampato al Joy, ma non per questo la sua mente è libera…

Ollie chiude il trio principale. Burbero personaggio escluso dalla società in quanto impossibilitato ad assumere il Joy, il suo malus è proprio dover bilanciare l’indice di glicemia, risultando in cibi in meno da poter assumere e all’obbligo di avere sempre in inventario i necessari stabilizzanti. In compenso è un bel marcantonio in grado di gestire tranquillamente una rissa, nonché un abile meccanico. Proprio il suo addestramento militare gli ha permesso di avere un ruolo di primo piano nella grande brutta cosa che nessuno vuole ricordare.

La rosa si schiude ulteriormente con i 3 DLC di una manciata di ore ciascuno, che si concentrano su personaggi secondari con cui incrociamo brevemente la strada nelle 3 campagne. Si tratta di esperienze più circoscritte che tolgono la libera esplorazione della città per concentrarsi su variazioni narrative e di gameplay focalizzate. La vicenda che coinvolge Roger e James li vede protagonisti di una classica invasione aliena stile anni ’50, che dovremo sventare armati di manganello e pistola laser. La giocabilità si plasma di conseguenza attorno a un immediato FPS con occasionali puzzle.

we-happy-few-pistola-laser-robot-invasione
Se avete pensato a Timesplitters vi capisco perfettamente.

La rockstar in declino Nick Lightbearer si ritrova ad affrontare i propri demoni, nonché fan troppo esuberanti, suonandogliele. Letteralmente. Proprio come in Brütal Legend, le strimpellate di chitarra possono avere effetti molto fisici. Infine, l’agile Victoria Byng ci porterà a saltare di tetto in tetto, muovendoci e combattendo con agilità grazie alla frusta in sequenze che mettono da parte i dilemmi introspettivi per sfogarsi nel rush finale, in cui gli ultimi tasselli del puzzle faranno click.

Nel parlarvi dell’atmosfera ho voluto restare vago per l’unico motivo che non vorrei semplificare tematiche difficili. Ma state sicuri che a We Happy Few l’esposizione piace. Vuole raccontarvi tutto. È una storia oscura piena di scheletri nell’armadio e i suoi fumettosi personaggi hanno molto da nascondere sotto le maschere che portano. Anche a loro stessi.

we-happy-few-frusta-salto-insegna-tetti
Siamo onesti: cosa mai vogliamo farci con la frusta in un videogioco?

E poi c’è la città. Wellington Wells merita di essere, se non vissuta per le circa 50 ore necessarie per completare ogni quest, almeno di essere visitata. Perché la sua combinazione di identità culturale, architettonica, sociale non ha eguali. L’incrocio tra Pop Art e campagna rurale inglese, mischiato alla paranoica distopia che vivono i suoi abitanti è un triangolo semplice quanto memorabile e vista la gioventù del team (in termini di quantità di giochi prodotti) credo che possiamo essere ottimisti che nei progetti futuri riuscirà a ottenere un miglior bilanciamento.

“Lovely day for it.”

--

--