DOOM (2016): un ritorno inaspettato

Gli sparatutto in prima persona moderni sono diventati troppo mosci?

Marco "Thresher3253" Accogli
Frequenza Critica
7 min readMar 4, 2020

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Sebbene l’originale DOOM non sia stato uno dei primi giochi che ho avuto modo di giocare nella mia giovinezza, è senza dubbio uno di quelli che mi rimase più impresso. Al di là ovviamente della violenza esagerata che mi permetteva di mandare in pezzi i mostri che mi si ponevano davanti, rimasi colpito dal ritmo di gioco sempre elevato e dalla esplorazione dei claustrofobici corridoi della base marziana, uniti alla visuale in prima persona che permetteva di osservare il gioco da un punto di vista differente a quello che il NES e i suoi giochi in 2D mi avevano concesso fino ad allora. Abbiamo fatto molta strada da allora, passando per sparatutto cinematografici e altri che facevano leva sull’esplorazione e sulla narrazione emergente, ma il panorama degli FPS di fine anni ’90 era costellato da quelli che venivano definiti come “DOOM clones”, in onore di un titolo che aveva saputo lasciare una forte identità nel settore videoludico. Dopo il triste revival del brand nel 2004 sotto una veste più horror e meno d’azione, il genere degli sparatutto casinisti sembrava essersi ormai ridotto ad alcuni titoli più o meno settoriali come Serious Sam, oppure realizzati dietro il concetto di “retro-inspired”, con grafica volutamente ispirata a quegli anni (quando non direttamente sviluppati con gli stessi motori di allora, vedasi Ion Fury) che cercano disperatamente di fare leva sull’effetto nostalgia invece di acquisire una identità propria.

DOOM 2016 inizia con una presentazione ritmata alla perfezione: il protagonista si sveglia steso su un sarcofago aperto circondato da zombie. Raccolta velocemente una pistola — non prima di avere spappolato la testa di uno di loro a mani nude — si spara subito e freneticamente, nel tentativo di apprendere i controlli che subito si rivelano morbidi e intuitivi. Davanti a quello che sembra un monitor preposto a far partire il solito spiegone sulla trama, il Doom Slayer compie un’azione davvero distintiva dello stile del gioco: interrompe la voce dal monitor a metà discorso allontanandolo da sé e imbracciando il fucile si dirige immediatamente verso i prossimi bersagli. DOOM 2016 narra le gesta del protagonista non a parole, ma con i freddi fatti e le azioni compiute dal personaggio che non spiccica mai una parola, pur riuscendo perfettamente a risultare empatico per il giocatore che lo controlla.

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Arancione = buono. Meglio metterselo in testa il prima possibile.

Lo stile di gioco è strettamente imparentato con il DOOM originale: si spara letteralmente a tutto ciò che si muove in una base marziana facendo a pezzi orde di demoni incazzati. I movimenti laterali consentono di schivare i prevedibili attacchi dei nemici, si raccolgono armi sempre più potenti, si fanno esplodere cose. Insomma è tutto ciò che ci si può aspettare in uno sparatutto di questo tipo, impreziosito da una veste grafica al passo coi tempi e da tutta una serie di implementazioni che lo rendono adatto anche ai palati meno attempati. Piccole modifiche e rivisitazioni, come per esempio il fatto che saltando verso un appiglio il Doom Slayer si arrampica automaticamente e il sistema di progressione legato alla ricerca dei collezionabili, che rendono il gioco più flessibile dell’originale e lo ammorbidiscono nei punti giusti senza snaturare l’essenza di uno sparatutto dei pieni anni ’90.

L’aggiunta più rilevante è l’implementazione delle Glory Kills, una idea ripresa dalla mod Brutal Doom che consente di eliminare i demoni indeboliti con le armi da fuoco con una animazione predeterminata, durante la quale il giocatore non subisce danni, viene riposizionato e ricevere punti vita per ogni uccisione effettuata in questo modo. Le Glory Kills, insieme al ritmo elevato e alle situazioni caotiche degli scontri più impegnativi, rendono il costante restare in movimento un imperativo per la sopravvivenza, in quanto restando fermi si viene massacrati davvero rapidamente. Il Doom Slayer è capace di dispensare rapidamente enormi danni, specie quando si ottengono le armi più potenti e i loro rispettivi upgrade, ma bastano sorprendentemente pochi colpi per morire già al terzo livello di difficoltà dei cinque proposti.

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Dare un nuovo significato all’offesa “vai all’inferno”

La ricetta fa sì che la maggior parte degli scontri sia strutturata in maniera dinamica grazie anche alla verticalità di molte arene: sia il protagonista che i demoni possono arrampicarsi su punti più elevati per attaccare da una posizione vantaggiosa e per salire rapidamente al piano superiore di un livello. Il level design piacevolmente vecchia scuola fa sì che, pur restando un gioco lineare, le arene sono strutturate in modo tale da avvantaggiare il giocatore che sa muoversi sul campo e sfruttare ogni pickup presente in giro. È così che ogni scontro di DOOM 2016 diventa una mattanza in cui il giocatore corre in continuazione tirando pugni a chiunque gli si pari davanti per recuperare i punti vita in costante diminuzione, mentre si spara con un ventaglio di armi bilanciato allo stesso modo dell’originale. C’è il pratico shotgun versatile per gran parte degli scontri, il fucile d’assalto rapido e hitscan contrapposto al fucile al plasma, più potente per colpo, ma più impegnativo da sfruttare bene, la doppietta devastante a corta distanza, il lanciarazzi che non ha bisogno di presentazioni e naturalmente non possono mancare motosega e BFG a ricoprire il ruolo di armi d’emergenza: il BFG mantiene pressoché le stesse caratteristiche da “spazza-stanza” dell’originale, mentre la motosega permette di eliminare un singolo nemico in un solo colpo consumando benzina e ottenendo una cascata di munizioni per riempire le altre armi. In aggiunta, quasi tutte le armi possono montare uno fra due moduli che aggiungono una modalità di fuoco secondaria: micro-missili per il fucile d’assalto o un mirino di precisione, raffiche di razzi autoguidati o razzi da detonare a comando, vampate di plasma dal fucile d’assalto o una bomba stordente. Saper utilizzare le giuste modalità di fuoco secondario al momento più appropriato è fondamentale ai livelli di difficoltà più elevati, anche se col tempo ovviamente ogni giocatore avrà il suo stile preferito.

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Anche i nemici possono infliggere una glory kill al Doom Slayer.

Naturalmente, come ogni FPS vecchia scuola che si rispetti, è possibile completare l’intero gioco senza mai farsi colpire (se possedete l’abilità per farlo) per via dei pattern dei nemici, che si dimostrano davvero impegnativi e agguerriti grazie anche una IA capace di tenere sempre in movimenti i nemici per rendere le battaglie sempre diverse. Si, DOOM 2016 è uno di quei giochi in cui il livello di abilità del giocatore è in costante crescita perché legato puramente alla capacità di padroneggiare i controlli e le meccaniche nel dettaglio, invece di bloccarlo dietro a sistemi simil-GDR e statistiche varie da aumentare a suon di punti esperienza. Il sistema di crescita del Doom Slayer è diviso in tre aree specifiche: potenziamenti per le modalità secondarie delle armi, rune che hanno effetto sulle meccaniche di gioco e chip da installare per potenziare l’armatura Praetor. I tre rami permettono di aumentare progressivamente le capacità del giocatore pur restando perfettamente opzionali, in quanto è possibile ignorare bellamente Glory Kills e potenziamenti e proseguire spediti ad armi spianate e caro vecchio strafing.

Ho giocato a DOOM 2016 per un totale di oltre 100 ore su tre diverse piattaforme (PC, Xbox One e PS4) e l’aspetto tecnico è stabile e granitico su tutte e tre le piattaforme, con un dettaglio grafico davvero molto pulito e sessanta frame al secondo stabili in praticamente qualunque situazione, con in più il supporto a framerate e risoluzioni superiori su un buon PC. Ma se l’aspetto visivo è puramente funzionale, è il lato sonoro che lascia l’impressione maggiore: la colonna sonora realizzata da Mick Gordon mischia elementi di elettronica industrial e (manco a dirlo) doom metal per un mix dinamico che varia durante le sezioni più intense, accompagnando il massacro con maestria.

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La motosega stavolta non è stata mandata su Marte per errore.

Direte: cosa c’entra questa recensione nella settimana a tema dedicata a remake e remaster? Ecco, in una generazione abbondante di remake e remaster trovo che DOOM 2016 sia l’esempio migliore di come sia possibile realizzare un titolo fondamentalmente nuovo pur rispettando gli elementi che hanno sancito il successo dell’originale: un concetto di remake che funziona a mio avviso molto meglio del tentare di replicare il gioco di partenza senza preoccuparsi di chiedersi cosa li rende così speciali. Vedasi Medievil Remastered che si dimostra sì fedele in qualità di lavoro di rievocazione, ma ha mantenuto anche i difetti originariamente presenti, rendendolo un titolo meno attraente da giocare al di fuori dell’effetto “wow” causato dalla nuova veste grafica. Nel caso di DOOM 2016, lo status semi-canonico nei confronti dei capitoli precedenti e lo spirito così simile all’omonimo del 1993 lo rende ai miei occhi molto più meritevole del concetto di remake di quanto un nuovo motore grafico potrà mai fare. Sono in grande attesa per DOOM Eternal, ormai in dirittura d’arrivo dopo il rinvio di qualche mese fa, nella speranza che il sequel riuscirà a espandere ulteriormente la formula introdotta da questo capitolo.

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