Final Fantasy IX: la città e la guerra

Vedere un angolo di mondo andare in frantumi.

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica
6 min readNov 12, 2021

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Se mi guardo alle spalle, il videogioco che ha segnato l’inizio della mia passione per i videogiochi vissuti in modo, per così dire, consapevole è stato Final Fantasy IX. I miei gusti, il tempo a disposizione e le ore di gioco accumulate hanno poi fatto sì che, nel corso degli anni, tra me e il genere JRPG si creasse una distanza che ormai fatico a colmare. Nonostante ciò, il nono capitolo di una delle saghe videoludiche più celebri di sempre continua a sembrarmi un’opera di altissimo livello e, nonostante sia stato pubblicato ormai ventun’anni fa, adeguata al tempo presente; questo non tanto per l’aspetto grafico o le meccaniche, ma piuttosto per alcune delle tematiche affrontate e, soprattutto, per il modo in cui vengono messe in scena.

Le città, in particolare, sono sempre state colonne portanti della saga di giochi di ruolo Square (prima -soft, poi Enix), pur nel loro allestimento frammentato o, per certi versi, grazie a esso. In questo Final Fantasy IX non è affatto un’eccezione, ma piuttosto segue accuratamente la regola presentando una serie di insediamenti studiati e collocati ad arte per fare in modo che il mondo fantastico di turno (Gaia, solo occasionalmente scalzata da altri luoghi alieni) appaia popolato, in qualche modo vivo, vagamente plausibile — con ampio margine di approssimazione.

Un luogo da chiamare casa

Per capire cosa intendo quando scrivo che l’allestimento frammentato è, in un certo senso, uno dei tasselli più importanti del mosaico dei Final Fantasy, credo sia importante soffermarsi un attimo sul senso e il valore delle città in cui abitiamo, sul modo in cui le abitiamo e sulle differenze, reali o percepite, tra piccoli centri urbani e megalopoli soffocanti.

Un castello di una città di Final Fantasy IX, al quale si avvicina una nave volante.
Alexandria, Final Fantasy IX.

“Che cosa è oggi la città, per noi?”

Chiedeva Italo Calvino, nel corso di una conferenza tenuta a New York, nel 1983, riferendosi al suo “Le città invisibili”. In quell’ultimo “poema d’amore alle città”, scritto “nel momento in cui diventa sempre più difficile per noi viverle come città”, lo scrittore italiano trasformava in immagini alcune delle infinite ragioni che hanno spinto (o che avrebbero potuto farlo) gli esseri umani a raccogliersi nelle città, proprio quando su questi luoghi veniva proiettata l’ombra de “la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo”.

Sono città, quelle di oggi, impossibili da possedere. Non si fa propria una città, ma si ricava da essa un frammento da chiamare casa; all’interno di questo costruiamo la nostra città, fatta di routine, di facce, di scorci e di discorsi. Per continuare a citare lo stesso Calvino:

“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

Nel loro essere così limitate dalla rappresentazione a quadri, le città di Final Fantasy riescono a essere non simili a quelle reali, ma simili a quella che è la nostra percezione di esse. L’estetica fiabesca che domina il nono capitolo della saga si sposa perfettamente con l’opera di Calvino prima citata, tanto che diversi luoghi incontrati nel corso dell’avventura avrebbero potuto trovare spazio, senza eccessivo sforzo, tra i racconti di Marco Polo a Kublai Khan. Città create intorno a una singola immagine forte: la città dell’eterna pioggia (Burmesia), la città nata su un enorme albero circondato da tempeste di sabbia (Cleyra), la città-biblioteca sospesa su un piccolo specchio d’acqua (Daguerreo).

L’idea di creare, di trovare un luogo familiare è l’epicentro di Final Fantasy IX, tanto da essere presente anche nel titolo del tema principale, “A Place to Call Home” — adattamento del titolo in lingua giapponese, che letteralmente si traduce in “The Place I’ll Return to Someday”. Nella mia esperienza da giocatore, il luogo fantastico che è riuscito a ricreare nella maniera migliore quel senso di possesso che si ha di un angolo “proprio” di una città è Lindblum, la città più industrializzata di Gaia, il regno dove prendevano vita le migliori aereonavi del continente. Divisa in quartieri, uniti tra loro dalle linee di mezzi pubblici, questo agglomerato di vite alternava, nei suoi riquadri, intimità e pubblico esercizio, assieme a quel misto di fermento e praticità che è tipico di quei posti in cui vedi sempre passare molta gente impegnata, ma nei quali ritrovi poi sempre le stesse facce. Sapere che strade fare, dove andare per trovare una data persona o comprare un dato oggetto, ha fatto sì che io mi sentissi un cittadino di Gaia, un cittadino di Lindblum.

La caduta

A sconvolgere l’equilibrio della città in Final Fantasy IX ci pensa un’altra forza che smuove in maniera dirompente la trama del gioco: la guerra. Certo, non era la prima volta che in un Final Fantasy si vedeva una città trasformata al passaggio di soldati, bombe e disgrazie (erano scenari presenti, senza andare troppo indietro nel tempo, nel terzetto di capitoli immediatamente precedente al nono), ma l’attenzione dedicata all’elemento di base — la città — fa sì che il contraccolpo per il giocatore sia molto più chiaro, più vivido. Ma non solo.

Una città in rovina, flagellata dalla pioggia.
Burmesia, Final Fantasy IX.

Come riassume correttamente questo pezzo apparso sul sito CNN nel 2018, la rappresentazione artistica della guerra ha avuto e continua ad avere moltissime facce. La battaglia come gesto eroico, come massima espressione della virtù divina — quindi umana, quando le divinità erano ancora fatte a immagine e somiglianza di Adamo — nel combattere il nemico o la natura; la battaglia come celebrazione della vittoria più importante del singolo alla guida di moltitudini, contro altre moltitudini. La rappresentazione artistica della guerra è stata anche propaganda, anche in anni abbastanza recenti, mettendo in mezzo il ruolo politico dell’artista solo quando le circostanze lo ritenevano opportuno.

Ma non serve spingersi indietro nei secoli per ritrovare tutte queste sfaccettature: basta pensare alla stessa industria videoludica, che molto di frequente hanno portato sullo schermo conflitti bellici storici o di fantasia, passando spesso dall’esaltazione alla condanna, dal divertimento privo di conseguenze alla messa in scena dei lati più cupi e più crudi di queste lotte.

L’articolo prima citato offre una definizione grezza e, in questo contesto, interessante della guerra:

“[The purpose of war is] to use violence to compel opponents to submit and surrender.”

“[Lo scopo della guerra è] utilizzare la violenza per costringere i nemici a sottomettersi e arrendersi”

Final Fantasy IX riesce bene a sfruttare l’interattività dei videogiochi per creare un senso palpabile delle conseguenze di questa violenza, del prezzo della sottomissione — che va ben oltre alla sottomissione stessa. Succede con Cleyra, succede con Alexandria, ma succede in maniera particolarmente efficace proprio con Lindblum. L’effetto è straniante proprio grazie al tempo passato all’interno della città (e alla cura dei riquadri che la compongono) prima dell’avvento della guerra; si crea artificialmente la sensazione di aver perso qualcosa mandando in frantumi la routine, incenerendo le certezze. È un assaggio infinitesimale della realtà, perché pur sempre in un videogioco ci troviamo (per giunta popolato di personaggi grotteschi e situazioni buffe), ma il meccanismo è vicino a quello che scatta nella realtà.

Una creatura mostruosa minaccia una città, in Final Fantasy IX.
La caduta di Lindblum, Final Fantasy IX.

In questo capitolo della saga si incontra il volto di chi fa ritorno alla città dopo il conflitto, dopo l’assedio. Perché c’è qualcosa che può spingere a tornare, anche nelle situazioni più difficili; per portare un esempio dei giorni nostri (e purtroppo ce n’è a bizzeffe), basta riprendere in mano questo pezzo al riguardo, pubblicato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), che parla del ritorno in uno dei luoghi simbolo della guerra in Siria. C’è, in questo, tutta la forza e la fragilità indotta dalla necessità e dal desiderio. La città, come diceva Calvino, è al di là di tutto un insieme di memorie e, appunto, desideri, un luogo da chiamare casa e dove fare ritorno, anche quando le bombe e i proiettili hanno fatto sparire tutto il resto. Molte di quelle in Final Fantasy IX riescono a creare, nel loro piccolo, quel senso di comunità e di familiarità che si trasforma in sgomento, quando la sacralità di quel nido viene violata — e a noi giocatori dà modo di confrontarci con un aspetto cupo, e a volte messo da parte, della guerra: il dopo, la lenta ripartenza, la voglia di rinascere e il lutto per ciò che non è più.

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Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica

Chiacchieratore seriale, passa buona parte del suo tempo a parlare ad altri della sua passione per i videogiochi.