Ghost in the avatar

Fumito Ueda e un ripensamento del rapporto fra personaggio e giocatore.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
7 min readApr 20, 2020

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Uno degli aspetti che contribuiscono a formare la corolla degli elementi primi dell’estetica di un videogioco è il sistema di controllo. Elemento spesso sottostimato, o relegato a uno sbuffo in codice binario di qualche pigro e attempato frequentatore di forum di videogiochi. “I controlli fanno schifo, stavo per buttare il pad dalla finestra!” recita il nostro amico, dopo aver incagliato il proprio Bucefalo in qualche centimetro cubico fittizio dello spazio virtuale.

In realtà pochi scandagli “filologici” permettono una compenetrazione della grammatica di un videogioco quanto un discorso consapevole sul modo in cui l’autore ha inteso che noi agissimo. La ragione è presto detta: il fattore di interattività di un’esperienza videoludica è diretta promanazione delle “modalità di intervento” concesse. In altri termini, la relazione intercorrente fra la pressione di un tasto (o di una serie di tasti al contempo) e il fiore di azioni possibili dischiude l’abbecedario della comunicazione videoludica.

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Anche solo il padroneggiamento delle diverse “mosse” della cavalcatura in Red Dead Redemption 2 richiede una discreta dose di esperienza e memoria.

Prendiamo una sintassi quantitativamente ricca come quella di Red Dead Redemption 2. Nell’epopea di Rockstar, il protagonista Arthur Morgan ha un parco di azioni molto vasto, reso esperibile attraverso un proliferare di comandi e combinazioni di comandi, che solo dopo un cospicuo lasso di tempo viene quasi totalmente assimilato dal giocatore. La vision dietro l’opera dello studio americano esige che il giocatore compia una lunga serie di attività, anche materialmente complesse — si pensi ad esempio alla riparazione della ruota di una carovana, un’azione tipicamente non ludica; la soluzione, in realtà poco fine e iper-usata, è spesso quella di declinare l’interazione mediante la pressione di tasti specifici in un tempo preciso.

Per farla breve, vi sono esperienze ludiche che si caratterizzano per una proliferazione dei comandi utilizzabili, ovvero dei “tasti” che, singolarmente o in combo, originano un’azione su schermo. Esperienze che, a una densità “modale”, abbinano spesso e volentieri una densità “cosale”, ossia una cospicua pluralità di azioni su schermo, risultato delle intricate evoluzioni tracciate dalle dita sulla periferica di gioco.

Controllo sottratto

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Una delle narrazioni più raccontate sui lavori del director Fumito Ueda è quella del “design minimalista”. A una parchezza dell’impianto estetico — come HUD al minimo, se non assente — l’opera di Ueda abbina una sottrazione delle componenti ludiche, traducendosi in un’esperienza di gioco relativamente “semplificata”. Si pensi al videogioco in cui, sulla carta, le azioni del protagonista sono maggiormente variegate, Shadow of the Colossus. Affrontare esseri titanici implicherebbe, nella stragrande maggioranza delle esperienze ludiche, un moltiplicarsi di azioni e di strumenti atti a far fronte a nemici troppo fuori portata; anzi, proprio la varietà accordata da questi multiformi esseri sarebbe stata un pretesto perfetto per garantire una pluralità di attività ludiche finalizzate all’abbattimento degli stessi. Nell’opera nipponica del 2005, invece, Ueda mantiene saldo lo schema, pur nella diversità di approccio richiesto da ciascun colosso: spada, talvolta arco, talvolta Agro.

A ben vedere, gli ordini che possiamo impartire a wander sono basilari: spostamento fisico dell’avatar, sventolio della scure, lo scoccare un dardo. La riduzione uediana permane, legandosi perfettamente alla natura puzzle del titolo, in perfetta continuità, altresì ludica, con gli altri due esponenti della produzione del nostro.

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Tuttavia mio interesse, in questa sede, è affondare la lente in uno strato ancor più sotterraneo del linguaggio del designer nipponico, l’humus nel quale si ramificano le radici della flora uediana. In che modo il director utilizza la relazione fra giocatore e avatar, e quali sono i margini di controllo concessi?

La principale rimostranza dell’utenza verso i videogiochi dello studio di Ueda si annida intorno alle asperità nel controllare l’avatar o aiutanti dello stesso: movimenti imprecisi, input lag, poca responsività in taluni frangenti, farraginosità. Questo malessere avvertito trasversalmente si radica in una pretesa assenza di “filtro” nel rapporto fra giocatore e avatar. In altri termini, è avvertita come esigenza dovuta l’assoluta continuità fra ciò che impartisce il giocatore e ciò che l’avatar compie su schermo.

Il controller, dunque, alla stregua di odierno “strumento dello strumento” — parafrasando la lezione aristotelica — viene inteso come una propaggine artificiale della mano, totalmente rimesso alla nostra volizione. Non dubiteremmo che, se lo sforzo scientifico permettesse simili approdi, il giocatore gradirebbe una prossimità “quasi carnale” del catalizzatore fra realtà e finzione, un vascello consustanziale alla visceralità del nostro corpo. Non può che venire alla mente l’immaginario cronenberghiano di ExistenZ, laddove questa esigenza di travalicamento dei due piani di realtà viene simboleggiata da un “controller” che si fa carne e si impianta nel corpo.

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Nel discorso di David Cronenbergh il tramite per una realtà virtuale non poteva che consistere in un groviglio inestricabile di carne, collegato mediante un “cordone ombelicale” al corpo dell’utente.

Fumito Ueda non è dello stesso avviso. Il controller svolge, nella sua poetica, non il ruolo di vicario della volontà del giocatore, bensì quello di medium. Il controller non traduce necessariamente le fedeli volizioni dell’individuo, bensì le setaccia e le filtra, restituendone, in schermo, una sintassi che tiene conto anche di altro.

Questa “indipendenza” dell’avatar è trasversale nella produzione dell’autore giapponese, riverberandosi in modalità sempre nuove e sempre più efficaci nel corso della sua pur breve produzione. Se in ICO questa condizione autonoma veniva trasmessa soprattutto grazie a una certa “inefficacia” nel controllo dell’avatar — certamente non del tutto voluta — e alla diversificazione dell’output di comando, è con le due opere successive che questa visione trova compiuta espressione.

In Shadow of the Colossus, noi controlliamo wander; e wander controlla Agro. Se, allora, in Ueda il rapporto fra giocatore e avatar non è che una mediazione di istanze diverse, il legame fra wander e Agro non è che un riflesso sul fondo della platonica caverna del medesimo rapporto. Agro diviene, nelle sue riluttanze, il signum di un dominio costantemente messo in discussione, ma per questo più vero.

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Agro si comporta esattamente come un cavallo reale: i suoi movimenti sono direzionati dalle briglie. Dando un colpo con le stesse, il cavallo avanza, senza che il giocatore muova più un dito. Anche il destriero segue l’impostazione di pensiero del designer giapponese.

“Diversificazione dell’output” si diceva. In apertura, veniva citato Red Dead Redemption 2 e la sua fitta rete di comandi e controlli: nell’opera Rockstar, ogni azione di gioco ha un suo corrispettivo in tasti da premere o combinazione di essi. Fumito Ueda opera al contrario, esigendo la pressione di pochi, isolati, comandi, i quali possono produrre più azioni o sfumature delle stesse. Non si tratta, evidentemente, di una prerogativa della trilogia dell’autore nipponico, né una sua fondazione; ma è prezioso metterne a fuoco gli esiti nell’ottica del nostro discorso.

Ico chiama Yorda affinché si avvicini o superi un ostacolo; la sua voce, il suo tono, i suoi gesti variano, indipendentemente dal giocatore, in base alla distanza da cui chiama l’eterea fanciulla. Allo stesso modo il piccolo protagonista di The Last Guardian si rivolgerà a Trico in maniera diversa in base a distanza, situazione, necessità o condizione fisica, senza la necessaria modulazione da parte del giocatore — e quante software house avrebbero sfruttato queste sezioni, magari “riempiendole” di gameplay, ad esempio introducendo combinazioni ad hoc o QTE?

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I basilari comadi di The Last Guardian.

Ueda mira a fondare una condizione in cui il controllo dell’avatar deve risultare fluido, quasi istintivo; pertanto i comandi devono essere semplici e immediati, riverberandosi in una pluralità di azioni che prescindono dalla volizione isolata del giocatore. Il bambino di The Last Guardian incespica, urta facilmente contro gli ostacoli, ne avvertiamo costantemente la fragilità al cospetto di una bestia così possente e di una costruzione (il Nido) così imponente. Wander è sballottolato mentre percorre il crine dei titani, la sua arrampicata è continuamente interrotta con una fisica che poche volte è stata così presente su un corpo virtuale. Nel frattempo, l’utente non deve memorizzare combinazioni, non ha tentennamenti originati da dimenticanze, è immediato: aggrapparsi e infilzare il sigillo magico, estrarre una lancia dal corpo di Trico e poi accarezzarlo, chiamare o tirare dietro Yorda, tutto con il medesimo tasto.

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Trico è, forse, la massima espressione dell’indipendentismo uediano. Una fiera che solo con il tempo (e l’affetto verso il bambino) si renderà malleabile alle indicazioni impartitegli.

Il protagonista nella narrazione uediana è sempre e comunque un’entità distinta, di cui occupiamo clandestinamente il corpo, di cui imbracciamo le redini ma senza mai dominarle: un soggetto compiuto, perfettamente innestato in un’ambiente in cui aleggiamo. Non è un caso, infatti, che la camera nel videogioco di Ueda sia così sbrigliata dall’asse del protagonista. Essa rafforza, nella sua indipendenza funzionale, la stessa condizione a cui concorrono le peculiarità finora citate. Melliflua, l’inquadratura passa in rassegna un mondo vasto e avvolgente, alza lo sguardo quasi perpendicolare al suolo, osserva strutture antiche e mute, del quale trovare la chiave d’accesso (assolvendo, pertanto, in ICO e The Last Guardian, anche una funzione pragmaticamente ludica); nel frattempo, possiamo muovere il protagonista, il quale ha facoltà di agire anche al di fuori del nostro cono di visione.

Una poetica della sottrazione del controllo. Ueda, attraverso artifici tecnici e una rivisitazione autoriale del rapporto fra giocatore e avatar — e delle possibilità in esse contenute — allenta i fili che legano la marionetta. Il risultato è un rinnovato vitalismo, che alleggerisce il “carico” del giocatore, permettendogli di concentrare la propria lente focale sulle collisioni emotive che l’opera dell’artista nipponico pone al centro della propria comunicazione.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.