Red Dead Redemption 2 - Un blockbuster autoriale?

Le due anime di Rockstar.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
11 min readOct 16, 2019

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Il titolo è volutamente provocatorio: come fa, mi direte, un vero e proprio colossal come Red Dead Redemption 2 (di cui approfitto per ricordarvi che è recentemente stata annunciata l’uscita PC), costato centinaia di milioni, sviluppato in otto anni da un team composto da più di 300 persone, a essere definito “autoriale”?
Eppure c’è qualcosa di diverso in RDR 2, qualcosa di estremamente atipico in un progetto di questa portata. Ma, per prima cosa, bisogna stabilire cosa si intenda con il termine autorialità.

Autore è colui che imprime in una determinata opera la sua specifica visione, risultante in una serie di scelte stilistiche ed espressive che rendono la suddetta opera “unica” e riconoscibile.
Spesso la cifra stilistica dell’autore emerge dall’insieme dei suoi lavori, che ne certifica la ricorrenza, ma in certi casi una singola opera può presentare elementi tanto distintivi da risultare già di per sé come inequivocabilmente autoriale (si pensi a Undertale di Toby Fox).
Tendenzialmente si è maggiormente portati a riconoscere un fine autoriale ed espressivo in opere più contenute, in cui è lasciato maggior spazio alla libertà artistica degli sviluppatori, pur restando palese l’intento commerciale.
Al contrario, in progetti dal budget elevato spesso questa libertà è sacrificata per garantire un maggior appeal (con alcune importanti eccezioni, si pensi alla ludografia di Hideo Kojima), risultando in titoli che sembrano costruiti a tavolino più che frutto di una visione.

Questo perché spesso quanto più un’opera è “autoriale”, tanto più è probabile che questa sia anche molto divisiva, e ciò è ancora più vero in quei casi in cui opere dalla forte impronta autoriale si trovano a raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo (emblematico in questo senso il caso di Death Stranding, capace sin dai trailer di scatenare interminabili diatribe).
Rimandando a una riflessione specifica il problema dell’individuazione dell’autore in opere collettive, oltre che la possibilità stessa dell’esistenza di una “autorialità diffusa”, passiamo a parlare dello specifico caso di Rockstar Games e Red Dead Redemption 2.

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Se si pensa a Rockstar Games, è inevitabile pensare agli open world.
Del resto la loro serie più famosa, ovvero Grand Theft Auto, seppur non inventandolo ha influenzato pesantemente il modo in cui il “genere” si è sviluppato ed è arrivato ai tempi moderni.

Grand Theft Auto III in particolare ha rappresentato un punto di non ritorno, fissando un vero e proprio standard per il design di giochi ambientati in mondi 3D liberamente esplorabili. Da allora la serie è diventata sinonimo di open world e ha cementato la formula con numerosi capitoli di elevatissimo successo commerciale, rendendo Rockstar una delle software house più conosciute al mondo.
I fratelli Sam e Dan Houser, fondatori della compagnia, hanno sempre preferito evitare le luci della ribalta, ponendo il focus sul brand Rockstar piuttosto che sulla figura di un creativo, il che chiaramente rende difficile identificare un “autore” individuale. Al di là di questo, la cifra stilistica dell’azienda statunitense è facilmente identificabile: alla riproduzione minuziosa di contesti urbani, teatro di una versione caricaturale e satirica della società americana in tutte le sue contraddizioni, si affianca la libertà totale data al giocatore, con un gameplay immediato e, passatemi il termine, “arcade”.

Nonostante il parziale punto di svolta rappresentato da GTA IV, in cui Rockstar da un lato aumentò il focus sulla narrativa e dall’altro modificò il gameplay in nome di un maggior “realismo”, la serie ad ambientazione urbana ha mantenuto una certa immediatezza e una certa propensione al “giocazzeggio”.
Red Dead Redemption sin dal primo capitolo se ne è distanziato, forte di un setting molto diverso, che presentava sfide e approcci altrettanto diversi: alla caoticità dei contesti urbani moderni, densi di persone e attività, si contrappone il selvaggio West, da sempre caratterizzato dalla natura incontaminata che ancora tenta di sopravvivere all’avvento della civiltà, dagli ampi spazi vuoti e dalle lunghe cavalcate. Ritmi più lenti, paesaggi naturalistici incantevoli, un ecosistema vivo e dinamico, un feeling quasi contemplativo, RDR era questo e molto altro. Ma è con Red Dead Redemption 2 che Rockstar ha davvero fatto all-in.

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In un’epoca in cui molti open world ancora si rifanno al “paradigma Ubisoft”
- fatto di torri da scalare e mappe ricolme di attività sterili e ripetitive appositamente indicate da un marasma di segnalini facilmente raggiungibili grazie al comodo viaggio rapido - Rockstar ha scelto di fare qualcosa di diverso.
Laddove l’anno prima Nintendo, con The Legend of Zelda: Breath of the Wild, aveva innovato proponendo un mondo reattivo come non mai alle azioni del giocatore, Red Dead Redemption 2 ha alzato l’asticella nella ricostruzione di un mondo credibile, vivo e immersivo, recuperando a mio parere la lezione di un grande capolavoro del passato, spesso dimenticato: Shenmue.

L’opera visionaria di Yu Suzuki nel lontano 1999 mostrò le potenzialità del medium videoludico, capace di “creare mondi” verosimili e offrire ai giocatori una vera e propria finestra sul passato, consentendogli di immergersi in un contesto lontano, vivendo in qualche modo un’altra vita.
Come Shenmue ai tempi, Red Dead Redemption 2 rivoluziona il concetto stesso di “verosimiglianza” in un videogioco, realizzando una simulazione del Vecchio West al tramonto del XIX secolo con una cura dei dettagli impressionante.

Non è semplicemente una questione di qualità grafica, che comunque ha un suo peso (non è un caso che Shenmue fosse anche tecnicamente avanguardistico), ma di un insieme di cose che contribuiscono a illudere il giocatore di essere . C’è chi si è messo a seguire gli npc e ha potuto constatare come questi non siano dei pupazzi vuoti che scompaiono appena giriamo l’angolo, ma abbiano delle routine complesse e personalizzate. Allo stesso modo nelle sessioni di caccia, o anche di semplice contemplazione della natura incontaminata, ci si può rendere conto della cura con cui è stato ricreato l’ecosistema, i comportamenti degli animali e le loro interazioni.
Può così capitare di assistere a un branco di lupi che accerchiano le loro prede, a opossum che fingono la morte percependo un pericolo, ad avvoltoi che si avventano su carcasse lasciate a putrefarsi.
Il punto fondamentale è che nel complesso il mondo di RDR2 riesce a illudere il giocatore di esistere al di là della sua presenza, di essere vivo.

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Questa sensazione si fa forte come non mai nel “luogo” che funge da vero e proprio nucleo del titolo: il campo della gang Van der Linde, in cui i numerosi membri della banda interagiscono tra loro e con il giocatore. Hosea legge un libro, John è in disparte pensieroso, Dutch discute con Molly, mentre Pearson, Bill e Javier giocano a Texas Hold’em, magari invitando Arthur a unirsi a loro.

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Sono ovviamente tutti comportamenti scriptati, eppure è talmente elevata la quantità di questi script e talmente curato il modo in cui si intrecciano, che è molto facile dimenticarsene. Ben presto il campo diventa una vera e propria casa, in cui il giocatore desidera tornare per poter interagire un altro po’ con quella che è la sua famiglia, per scoprire qualcosa in più di loro, magari semplicemente per sedersi attorno al fuoco ad ascoltare una vecchia storia di vita di Hosea, una canzone di Javier o un ridicolo e sconclusionato discorso di Bill.

Il campo rappresenta la “base sicura” da cui il giocatore può partire per esplorare il mondo, ma a cui sa di poter sempre tornare dopo un lungo viaggio. Il viaggio è fondamentale nell’economia del gioco, non è un semplice intermezzo prima della destinazione, ma vera e propria parte integrante dell’esperienza, a tratti la più importante. Si stabilisce una destinazione, magari delle tappe intermedie, e si parte all’avventura, perdendosi nel meraviglioso mondo di gioco, trovando un posto dove accamparsi quando fa buio per mangiare la selvaggina cacciata durante il giorno. È per questo che Rockstar ha preso la coraggiosa, ma impopolare scelta di limitare l’utilizzo del viaggio rapido, che esiste principalmente in forma contestualizzata (carrozze, treni) o, sbloccabile dopo diverse ore di gioco, come solo viaggio di andata dal campo a una destinazione qualsiasi.
Io personalmente tendo a ignorarlo anche quando c’è, ma mai come in questo gioco sarebbe davvero delittuoso utilizzarlo e perdersi lo straordinario lavoro fatto nel rendere l’esplorazione immersiva e imprevedibile.

Come dicevo RDR2 fa a meno di torri da scalare e segnalini ovunque, e lascia principalmente alla curiosità del giocatore l’esplorazione del mondo di gioco e la scoperta dei suoi segreti. Segreti disseminati nella sterminata mappa, alcuni risultanti in piccole storie la cui cura è tranquillamente equiparabile a quella delle missioni secondarie canoniche (e quindi marcate, ma solo se si passa nelle vicinanze), senza che ci sia nulla che li segnali al giocatore.
A questo si aggiunga l’ampia varietà di eventi casuali sparsi nel mondo di gioco contestualmente a ogni area, come già visto nel primo RDR ma qui con ancora più quantità e cura, che donano ai viaggi la suddetta imprevedibilità.

Le lunghe cavalcate lente e contemplative sono intervallate da imboscate, persone in pericolo e incontri particolari, tanto che dopo oltre 200 ore di gioco non sono affatto sicuro di aver visto tutto quello che il gioco ha da offrire. E Rockstar non ha paura che il giocatore si perda dei contenuti, se serve a rendere la finzione più credibile.

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Non c’è da girarci troppo intorno: Red Dead Redemption 2 è un gioco lento, in tutti i sensi. Lo è perché la narrativa si prende parecchio tempo per introdurre i personaggi e presenta una lunga prima parte in cui la trama in senso stretto resta in secondo piano, per lasciare al giocatore la libertà di esplorare e immergersi nel mondo senza urgenze narrative. Lo è perché la verosimiglianza di cui ho parlato non si limita agli NPC, all’ecosistema o al campo, ma a tutta una serie di scelte come le lunghe animazioni, la voluta lentezza nei movimenti, la necessità di pulire le armi, strigliare il cavallo, cibarsi, vestirsi in modo appropriato rispetto al clima in cui ci si trova, e così via. Ancora una volta come Shenmue, è più di tutto un titolo che richiede al giocatore di abbandonarsi ai suoi tempi.

Chiaramente, per tutti questi motivi, RDR2 non è un gioco per tutti. Le scelte fatte da Rockstar seguono una precisa visione, ed è in questo senso che va inquadrata la mia “provocazione” sull’autorialità del titolo, ma è una visione che rischia di alienare una larga fetta di pubblico, e lo ha fatto.
Al di là che si apprezzino determinate scelte o meno, credo che questo coraggio, da parte di una casa che avrebbe potuto tranquillamente adagiarsi e riproporre in tutto e per tutto una formula vincente, vada elogiato.

Eppure, non si può negare che questo coraggio non sia stato portato fino in fondo, e da certi punti di vista l’ultima fatica di Rockstar può risultare quasi spezzata a metà. In alcune cose l’impressione è che si sia un po’ tirato il freno per non appesantire ulteriormente l’esperienza, si pensi alla seppur minima concessione del viaggio rapido dal campo, o alla presenza di conseguenze davvero blande nel caso si trascurino gli aspetti più “simulativi” del titolo, che fa sì che li si rispetti più per volontà di immedesimazione che non per necessità.
Ciò che più stona però è il contrasto evidente tra l’open world prima descritto e una main quest rigida, scriptata e strutturata in un modo che sa di vecchio. È evidente che l’obiettivo era quello di rendere le missioni altamente cinematografiche, cercando di riprodurre il feeling e la qualità di giochi lineari come un The Last of Us. Il risultato può dirsi riuscito, ma è inevitabile l’impressione di entrare in delle missioni sostanzialmente scollegate dall’open world, non organiche, in cui uscire dalla linea tracciata dagli sviluppatori può causare un fallimento ingiustificato, con conseguente dissonanza e perdita dell’immersione.

Al tempo stesso queste missioni, al di là dell’altissima qualità scenica e narrativa, presentano un design spesso incentrato eccessivamente sulle sparatorie, con quantità inverosimili di nemici, legate a una concezione del videogioco basata sul concetto di sfida da superare che, inevitabilmente, cozza con il modo in cui è costruito il resto del titolo.

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Tuttavia, la critica più comune che si è letta da quando il titolo è uscito e ha fatto (molto) discutere è: non è divertente, dopotutto resta un videogioco.
Mi vorrei soffermare su questo punto perché è una spaccatura che si presenta sempre più spesso negli ultimi anni, quanto più si presentano sul mercato esperienze distanti dalla concezione di “divertimento” e di videogioco in senso classico (si pensi ai “walking simulator”).
Senza entrare in quello che è l’immenso dibattito nei Game Studies tra approccio ludologico e narratologico, si pensi per un attimo alla parola gioco. Troppo spesso si tende a concepire il gioco solo in senso agonistico, come competizione o sfida da superare, perché del resto il videogioco in senso commerciale nasce così, tra punteggi e sfide. In realtà il “gioco” ha uno strettissimo legame, oltre che con l’apprendimento di regole, con l’attività simbolica, con la finzione e con l’interpretazione di ruoli (si pensi al verbo play in inglese, che mantiene la pluralità di significati).

Moltissimi studiosi, a partire da Johan Huizinga nel 1938 con il celebre “Homo Ludens”, hanno indagato le tipologie di gioco e le svariate motivazioni che ci spingono a giocare.
Il sociologo Roger Caillois ad esempio, ovviamente non riferendosi ai videogiochi, propose una categorizzazione in quattro tipologie di gioco, a loro volta raggruppate in due coppie: Alea-Agon (caso-competizione) e Mimicry-Ilinx (maschera/simulazione-vertigine). Applicando questa categorizzazione ai videogiochi, la prima coppia è facilmente inquadrabile nella tipologia citata prima, basata su sfide da affrontare e superare, mentre la seconda tipologia si rifà più ai concetti di finzione, interpretazione, perdita di sé nel mondo virtuale e immersione.

Red Dead Redemption 2 è proprio questo, un’opera che richiede al giocatore di immedesimarsi in Arthur Morgan e di vivere per un po’ una seconda vita, quella di un cowboy nel 1899, in un mondo che sta cambiando.
E per chi ama i videogiochi anche per la loro capacità di trasportarci in altri mondi, è davvero difficile trovare di meglio.

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Ma si badi bene, Red Dead Redemption 2 non può e non deve essere considerato un punto di arrivo, bensì un punto di partenza a cui altri possano ispirarsi e che Rockstar stessa possa perfezionare in futuro, lavorando sulle criticità sottolineate.
Così come Arthur si trova a vivere a cavallo tra il tramonto di un secolo e l’alba di un mondo nuovo, la speranza è che questa possa essere l’alba di un nuovo giorno anche per gli open world.

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