Il cosmo di Genesis Noir

C’è margine di libertà “sub specie aeternitatis”?

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
11 min readApr 16, 2021

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Nel 2011, il cineasta statunitense Terrence Malick diede i natali a una delle sue pellicole più discusse e famose, The Tree of Life. Risultato dell’affinamento di uno stile che sarebbe andato sempre più definendosi con i film successivi, l’opera del regista americano legava in maniera ardita i destini individuali di una famiglia della middle class texana a una cosmogonia mostrata attraverso immagini di galassie in formazione, nebulose e rivoluzioni planetarie, passando per una Terra in evoluzione, dalle prime forme di vita ai grandi rettili che hanno calcato il terreno dal Triassico al Cretaceo fino agli ominidi, nostri antichi progenitori. Il cinema malickiano ha sempre cercato di intercettare un senso diffuso, che comprendesse ma altresì superasse le vicende individuali narrate. Una sorta di ordine superiore, radicato in qualche modo alla natura — a sua volta una manifestazione immanente del divino — viene tratteggiato da Malick, e i personaggi descritti vivono come in una stasi di contemplazione e confronto con il creato. Si potrebbe dire che The Tree of Life scopre le carte: se nei film precedenti questo rapporto fra l’uomo e il mondo era la cornice di senso, nella pellicola del 2011 si fa il soggetto cardine della rappresentazione.

Oltre l’esplicitata deferenza all’opera calviniana Le Cosmicomiche, una simile idea di narrazione deve essere balenata nelle menti di quei madmen newyorkesi di Feral Cat Den, dal momento in cui hanno deciso di raccontare la storia di un ignoto gentleman con un inseparabile fedora, alle prese con la disperata impresa di salvare la vita della propria femme fatale attraverso la creazione di un buco nero con cui porre fine alle conseguenze del Big Bang. Un intreccio “cosmico”, attraverso il quale gli snodi dell’esistenza di No Man si intersecano con le fasi che hanno scandito la genesi e lo sviluppo dell’universo, in un susseguirsi continuo di rimandi e metafore, di micro e macro, di accidentale ed universale.

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Luci che bucano le maglie oscure della notte, le note del sax che risuonano in una sciarada improvvisata, una storia di un uomo solo fagocitato dalle grandi torri di cemento di Brooklyn: il canovaccio sembra integrare tutte le regole non codificate del genere; eppure Genesis Noir matura solo un debito di immagini e temi dalla narrativa noir americana, la scarna vicenda di No Man funge da pretesto. Miss Mass sta per morire per mano del Golden Boy, il proiettile della sua pistola, Big Bang, è partito e No Man, il viaggiatore del tempo, prende in mano uno degli orologi che vende per sopravvivere: qual è l’origine di quel colpo sparato? C’è una ragione? C’è un modo per fermarlo? L’unico modo per saperlo è risalire al primo motore immobile, l’origine di tutto, l’inizio del mondo.

“380.000 anni dopo il Big Bang, l’Universo era simile a una sala piena di fumo da cui la luce non riusciva a fuggire.”

Il tempo in Genesis Noir è uno spazio percorribile, nel quale il passato di No Man si presenta come parcellizzato in una riproposizione infinita dei medesimi istanti. Il protagonista (e il videogiocatore) non ha spazio di manovra: con un contributo interattivo minimo, la pressione di un tasto, No Man è destinato a innescare di nuovo quell’azione, una delle tante che hanno portato, in una successione infinita di attimi, in una cascata di causalità, al proiettile fuoriuscito dalla pistola di Golden Boy. La riconsiderazione delle ragioni di quel gesto è l’espediente con cui Feral Cat Den lega, in maniera allegorica, il destino individuale di No Man con quello dell’universo tutto: fra i due, non vi è reale separazione.

L’inizio di ogni viaggio di No Man è preceduto da una piccola descrizione di uno stato di sviluppo dello spazio e del tempo, dal Big Bang a oggi, basata sulle attuali conoscenze scientifiche dell’eziologia dell’universo. Uno dei primi capitoli del videogame è intitolato “Seeding”: così come diamo un contributo a “seminare” gli iniziali momenti di “discontinuità” nello spazio-tempo (da uno dei quali dovrebbe essere originato il nostro universo), parallelamente viviamo la gemmazione dell’infatuazione di No Man per Miss Mass. Questo tipo di sovrapposizione di layer caratterizza il tessuto narrativo di Genesis Noir.

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Il basilare gameplay di Genesis Noir non sempre si adegua al ritmo che la narrazione necessiterebbe. Talvolta si ha la sensazione che l’interazione sia “di troppo”.

Questa legatura costante fra corso individuale e storia universale getta luce su uno degli assunti teorici più fecondi del titolo, ovvero una certa compresenza del singolare nell’innumerevole, del accidentale nel necessario, del piccolo nell’infinito; e viceversa. Il viaggio nei recessi del cosmo porta in dote l’annullamento di una qualsiasi supposta distanza ontologica fra le “ragioni” del mondo e quelle dei viventi, e tutto sembra essere ricompreso in un’unità superiore, scevra di qualsiasi margine di incertezza e… libertà.

Non si tratta di predeterminazione, quanto appunto di vero determinismo. In una raccolta di scritti e poesie di William Blake citata nel videogioco, un passo sulla determinazione dell’agire umano è riportato, a testimonianza della consapevolezza del punto da parte degli autori. Se, dunque, il viaggio alle origini dell’universo di No Man è principiato dalla necessità di scongiurare la morte di Miss Mass, ben presto, in realtà, lo stesso si rivela essere un viaggio della comprensione delle ragioni della sua morte.

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Se il determinismo ci dice che, in fondo, “tutto va come deve andare”, allora l’unico scoglio per l’uomo è un ostacolo di tipo epistemologico: è un deficit di conoscenza quello che ci permette di struggerci per l’inesplicabilità di un evento luttuoso. Ecco, dunque, che il percorso di No Man è assimilabile a una catarsi positivistica, con la quale, partendo dall’inizio, dallo sparo, dal Big Bang, lo stesso può rendersi edotto della necessità di quanto avvenuto.

“Per il 99,998983% dell’età dell’Universo, le uniche storie scritte furono racchiuse in solitari strati geologici. Questa quiete, però, non durò.”

E’ una felice intuizione quella di legare lo scoppio di un proiettile all’esplosione che diede inizio al mondo — sebbene sia risaputo che il Big Bang non fu un’esplosione come comunemente intesa. Ancor prima su un lato visivo Feral Cat Den riesce a trasmettere la prossimità dell’individuale e dell’universale, dell’assoluto e del determinato. Il proiettile è scagliato dal Golden Boy, un enfant prodige del sassofono, apparentemente sedotto e abbandonato da Miss Mass, verso la quale cova ora odio e gelosia. Sia per una precisa scelta artistica, sia per una certa pregnanza concettuale, Genesis Noir si caratterizza per l’onnipresente alternarsi di bianco e nero, altri colori non esistono: luce e oscurità si battibeccano sin dal principio del tutto, scandendo le tappe dell’evoluzione cosmica. C’è, però, un’eccezione rappresentata proprio dal Golden Boy, colui che “ha dato inizio a tutto”: il suo dorato rappresenta per No Man una traccia da seguire nel suo viaggio.

Che il Golden Boy in un certo senso rappresenti l’idea di divino è qualcosa che è confermato del videogioco stesso: in uno dei capitoli finali, cliccando sulla figura del ragazzo viene riferito come lo stesso sia ritenuto “un’antica divinità”. Del resto, il collegamento è ancor prima induttivo: come altro può essere definito colui che con il proprio gesto innesca l’avvio dell’universo? Tuttavia ritengo fuorviante considerare un Dio-persona quello propugnato da Feral Cat Den. Lungi dal proporre una qualsiasi determinazione religiosa, lo studio newyorkese ha preferito rappresentare, in un videogioco dal sostrato scientifico così voluminoso, una concezione di divino come costante. Non è difficile identificare il Golden Boy come una personificazione della celebre Sezione Aurea. Al di là del facile accostamento derivante dalla colorazione dorata, in realtà è un altro elemento, ricorrente in tutto il gioco, che lega le due figure: la spirale.

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Il Golden Boy.

La spirale ha sempre occupato un ruolo di primo piano nello studio accademico e nella fascinazione di artisti e pensatori. Difficile non rintracciare in quelle linee che si assottigliano e convergono in un unico punto una sorta di chiave di accesso per una verità superiore. Intuizione che sicuramente coinvolse uno dei maestri del manga odierno, quel Junji Ito che nel suo Uzumaki (appunto, Spirale) immagina una cittadina i cui abitanti subiscono una perversa malia verso il simbolo spiraliforme, il quale prende a manifestarsi (fisicamente) in maniera sempre più pervasiva. In Ito la spirale è una finestra sull’ineffabile, una porta sul mistero insondabile (e terribile, nella poetica del maestro) dell’universo.

In ambito scientifico, invece, la spirale si lega alla Sezione Aurea (anche detta proporzione divina), la quale, in una delle sue innumerevoli implicazioni, produce appunto una spirale aurea. Questa proporzione costante, conosciuta sin dall’epoca della civiltà babilonese e considerata per millenni come, appunto, sacra, viene spesso ritrovata in natura, tanto negli esseri viventi quanto negli enti inanimati, tanto nel microcosmo quanto nel macro.

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Da Uzumaki, di Junji Ito.

In Genesis Noir, scopo di No Man è proprio procacciarsi delle spirali auree, con le quali lo stesso potrà innescare un buco nero capace di fermare il proiettile, e, si potrebbe dire, interrompere il corso dell’universo. In altri termini, per il nostro protagonista sembra profilarsi un’unica soluzione all’impasse, una negazione dell’universo stesso. Del resto, se l’universo non ha che un unico binario da seguire (seguendo le implicazione del pensiero deterministico), la sola possibilità è interrompere il binario. È tutto qui quello a cui può aspirare No Man?

“L’immaginazione rappresenta l’oscuro ignoto nel mito, ed è tutto quello che sei”

(da questo punto, SPOILER sulla parte finale di gioco)

Nel suo percorso nel tempo e nello spazio, il nostro uomo con il fedora ha modo di essere testimone delle tappe cruciali dell’evoluzione della vita sulla Terra: dalle prime forme di vita subacquee fino al futuro remoto, in cui l’uomo progetta acceleratori di particelle sul suolo marziano. Durante questo tragitto, il viaggiatore del tempo incontra quattro individui, ciascuno dei quali vede in lui una diversa rappresentazione: se per la donna delle caverne No Man è un ibrido divino uomo-cervo, o per il ronin un demone, per il suonatore di Brooklyn e la scienziata su Marte, il nostro protagonista è, rispettivamente, uno sparring partner o un viaggiatore spaziale. In questo viaggio destinato all’oblio (del buco nero), No Man riesce a intessere legami oltre lo spazio e il tempo.

Nel momento in cui sta per innescare, a partire dalla Terra, il buco nero che ingloberebbe lo spazio-tempo intero, No Man viene interrotto da un essere albino, proveniente da una dimensione ignota. La figura glauca ha sembianze androgine — non dissimili da quelle del Lucifero di Go Nagai in Devilman — e ben presto la sua identità si rivela essere una compresenza di quei quattro individui incontrati da No Man: per la prima volta dei colori diversi dal bianco e dal nero appaiono in Genesis Noir, rappresentativi di ciascuno di loro. Cosa rappresentano quegli esseri per No Man? Qual è il significato dell’essere bianco (e divino?) che sembra avere a cuore l’operato del protagonista? Cosa hanno significato le storie vissute e influenzate dall’uomo in fedora?

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Sarebbe fuorviante ritenere Genesis Noir una storia di un triangolo amoroso finito in tragedia, di luci sfavillanti e calici ripieni di spirito, di musicisti maledetti e soprabiti sfrondati dalle correnti di vicoli poco illuminati. Piuttosto l’opera Feral Cat Den è un piccolo trattato sull’accettazione, da parte dell’uomo, della propria condizione di finitudine. Una limitatezza che attanaglia le azioni dell’uomo, spingendolo a uno scacco che è tragico. La ricomprensione delle vicende individuali in seno a una cornice omnicomprensiva svolge la funzione di “mettere fra parentesi” le stesse; vicende che, inoltre, riannodate nel grande disegno imperscrutabile dell‘ordito cosmico, appaiono nella loro necessità, nella loro inalterabilità.

“La nostra immaginazione rappresenta l’oscuro ignoto nel mito. Da questa imperscrutabile foschia emerge un mondo di forme familiari. La nostra mente trasforma i fili di fumo preternaturale in corpi, acciaio, pietra. La nostra esperienza rimodella il mondo e rende eterna questa forma.”

Gli autori statunitensi sembrano suggerire una soluzione alternativa all’impasse in cui è bloccato No Man, si dimostrano consapevoli di una delle grandi alterità dello spirito umano: l’infinita potenza poietica dell’immaginazione. La “preternaturalità” di cui si parla fa diretto riferimento a ciò che appunto vige al di là delle regole (scientifiche) del mondo. Se il “destino” di No Man è in ogni caso segnato, e l’evento (la morte di Miss Mass) è inevitabile, forse l’unica reale chance di evasione è nel reame del fantastico — e uno dei testi esplicitamente citati è l’Alice di Lewis Carroll.

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L’essere bianco.

Accettazione della propria condizione vuol dire raggiungimento di un’armonia dell’animo con il reale: un’adaequatio rei et intellectus convertita in chiave spirituale. Gli echi di questa consapevolezza si riverberano in una delle sezioni finali più “aliene” del titolo, quando influenze induiste si fondono con un’estetica lisergica. In un grande cerchio celeste — che ricorda l’illustrazione del Mandala — No Man danza con l’essere bianco (e con ciascuno dei 4 personaggi di cui è riflesso), spargendo colore sulla sfera. Il riferimento è sicuramente la Rāsa-līlā — anch’essa citata nel titoloconosciuta come la “Danza del Divino Amore”, secondo la teologia induista e il mito di Krishna.

Ecco che allora, tanto quegli individui incontrati quanto quell’essere che di loro è una riunificazione allegorica, diventano la personificazione di una possibilità sempre disponibile, la rassicurante presenza di una dimensione costantemente attingibile: quella del pensiero. La stessa immaginazione che permette di contemplare i possibili destini che, magari in altri universi — come secondo la “Teoria delle bolle” — hanno scandito le esistenze dei quattro personaggi. Se dunque la realtà è una (ed è immutabile), allora tocca all’immaginazione moltiplicarne le possibilità, e l’accettazione della vita di No Man passa dalla presa di coscienza dell’infinità racchiusa nel suo pensiero.

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Quel proiettile è destinato a colpire Miss Mass, e sebbene No Man ne abbia ripercorso la traiettoria sin dai primordi del creato, una ragione imperscrutabile (come imperscrutabile è l’intima natura del suo trigger, il divino Golden Boy) conduce, ineluttabile, il proiettile, come attratto da una forza di gravità irresistibile (il nome Miss Mass non è casuale). “Non devi salvarla” ci dice l’essere androgino di fronte alla porta davanti alla quale No Man sosta prima di decidere di entrare e incontrare Miss Mass.

E in effetti, sebbene il videogame ci dia un’apparente libertà nel finale — decidere se accettare o meno l’invito di quel giorno ed entrare nella casa della bella cantante — il risultato è immutabile: Miss Mass è destinata alla morte. Ancora una volta, l’unico discrimine è rappresentato dalla consapevolezza, e accettare di entrare nell’appartamento comporterà per No Man la presa di coscienza della possibilità, sempre presente, di un’alternativa: quella dell’universo inesauribile dell’immaginazione, capace di sondare “le forme oscure nel mito”.

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La “Costante”, così è chiamata in Genesis Noir, altro non è che la confluenza dei possibili nel reame dell’impossibile (in quanto totalità di tutto ciò che non è avvenuto); e l’essere androgino può essere visto come la manifestazione tangibile della Costante. Solo qualora No Man accettasse di entrare nell’appartamento, la Costante rimarrebbe al suo fianco — scandendo la differenza con l’altro finale di gioco, quello “solitario” — come simbolo della rinnovata coscienza di No Man, della finitudine dell’essere ma della potenza infinita del pensiero.

Mentre i titoli di coda scorrono e il sassofono sfiata nostalgico, come a riecheggiare la radiazione cosmica di fondo che permea l’universo intero, si ha la sensazione che, in un certo senso, il cerchio sia finalmente chiuso. Proprio l’inesauribilità della creatività del pensiero ha reso possibile l’opera e il racconto di Feral Cat Den. Se è vero che il tempo è, in fondo, una dimensione dell’animo, allora il tempo è stato ritrovato: inizio e fine si sono toccati.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.