Il mio rapporto complicato con i salvataggi

Quattro storie, tra gioie e dolori.

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica
6 min readApr 22, 2020

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Senua, protagonista di Hellblade: Senua’s Sacrifice, davanti a un albero in fiamme.

In principio era la password. Foglietti sparsi su una scrivania disordinata, tra cavi grigiastri e floppy disk abbandonati a loro stessi, in ordine sparso — carcasse un tempo funzionanti, con un nome ormai sbiadito scritto a pennarello sull’etichetta. Una Amiga 500 troneggiava su quel ripiano di legno, in camera di mio fratello. La mia prima esperienza da giocatore con i salvataggi risale a quel tempo; ero piccolo, mi muovevo tra i livelli dei vari videogiochi senza preoccuparmi troppo di capire tutto quello che mi circondava.

Mi ricordo di Another World, del suo filmato iniziale impresso a caldo in una parte ormai irraggiungibile del cervello (sospetto che nessuno lo toglierà di lì), del suo mondo inquietante e dei versi strani dei personaggi che lo abitavano. Mi ricordo anche delle password che servivano per ricominciare da un dato livello: le scoprii dopo un bel po’ (no, davvero, un bel po’) di tentativi andati a vuoto e fu il mio primo incontro con qualcosa che permetteva di mettere in salvo i miei progressi. Da allora le cose sono cambiate più volte e in modi molto diversi: ognuna delle varie forme, assunte nel tempo, dai salvataggi, sono state in grado di farmi incontrare molte gioie e altrettanti dolori.

Il protagonista di Another World, assieme al suo compagno alieno, ritratti nella copertina del videogioco.
Another World (1991)

Il salvataggio perfetto

Era il 2002. Dopo decine e decine di ore di gioco, la mia prima vera partita a Final Fantasy VII stava per arrivare alla conclusione. Dico “vera”, perché la prima si era interrotta precocemente: quando il gioco di ruolo Squaresoft arrivò, in prestito, a casa mia (forse un paio d’anni prima) il mio inglese era talmente acerbo che non capii minimamente come funzionavano le Materie. The book is on the table, the materia is not in the weapon. Arrivai fino al duello tra Barret e Dyne, prima di gettare la spugna.

Ma torniamo al passato più recente. Lasciate alle spalle le barriere linguistiche, ero ormai al termine del periodo di allenamento in vista dei grandi scontri con le Weapon. La traccia di quel periodo, se ancora funzionasse, si troverebbe immacolata nella mia memory card; ho sempre tenuto tre slot di salvataggio occupati, in ogni Final Fantasy — succede anche in questi giorni di Remake — e quella volta non era diversa dalle altre. Nel primo slot, c’era un punto da cui ripartire per correre in braccio a Sephiroth. Nel secondo, l’Highwind era parcheggiato lungo la costa, a pochi passi dal sottomarino: in squadra, Cloud, Vincent e Red XIII, tutti con Limit Break a portata di mano e una combinazione di equipaggiamenti e materie ormai cementata, dopo innumerevoli tentativi. Nel terzo, Cloud era l’unico in piedi, pronto a scatenare Omnislash contro l’avversario color rubino. La creazione di quei checkpoint perfetti mi lasciò incredibilmente soddisfatto, e rimane a oggi la mia esperienza più bella con i salvataggi manuali “tradizionali”: fu grazie a quei dati che creai la storia che desideravo.

Cloud, protagonista di Final Fantasy VII, al binario di una delle stazioni di Midgar.
Final Fantasy VII (1997)

Il blocco di Metal Gear Solid V

Ma la mia storia con i salvataggi manuali non è tutta rose e fiori. Siamo arrivati ai ferri corti con il quinto capitolo di una serie che ho amato molto, in passato: Metal Gear Solid. Ero da poco entrato in possesso di una PlayStation 4 e misi immediatamente le mani sul gioco in questione, mosso dall’entusiasmo per il nuovo incontro con un genere che non vedevo da tempo. Il primo impatto fu bellissimo, poi cominciarono i litigi.

La colpa è mia, lo ammetto. Sono un perfezionista e ho trascinato Snake con me in un loop infinito. Il motivo per cui non ho mai finito Metal Gear Solid V è perché voglio che ogni livello scorra alla perfezione come io me lo sono immaginato, liscio come l’olio, senza mai incontrare una pallottola vagante. I salvataggi manuali me l’hanno permesso: i checkpoint che avevo hanno fatto sì che potessi continuare a ignorare i miei errori, ritentando fino alla nausea, fino a non averne più voglia, fino ad abbandonare del tutto il gioco e passare ad altro.

Minacce di morte e finali spezzati

Attenzione! Nei paragrafi che seguono ci sono spoiler sul finale di Hellblade: Senua’s Sacrifice. Se ancora non l’avete giocato, scorrete fino alla prossima storia.

A tirarmi fuori da questo baratro ci hanno pensato i salvataggi automatici, che mi hanno costretto a fare i conti con i miei errori e ad andare avanti. Alcune volte è stato facile, quasi liberatorio, mentre in altri casi mi è costato molto. Con Hellblade: Senua’s Sacrifice, i salvataggi automatici hanno contribuito a plasmare la mia esperienza di gioco, sia mettendomi sotto pressione con una minaccia di una possibile morte permanente del personaggio, sia privandomi (almeno in parte) della libertà d’azione.

Come mi era già capitato di scrivere, qualche tempo fa, su altri lidi, una delle scelte più coraggiose e interessanti del gioco di Ninja Theory si trova nel finale, troncato dopo la sconfitta (si fa per dire) dell’eroina del gioco, sopraffatta da un’orda interminabile di nemici. Non c’è modo — se non recuperando per vie traverse dei file di salvataggio — di tentare di nuovo, di fare meglio. La possibilità di piegare la realtà del videogioco e della sua storia al mio perfezionismo mi veniva negata nel più brutale dei modi… ed è stato bellissimo.

Senua, protagonista di Hellblade: Senua’s Sacrifice, stringe tra le mani un teschio bagnato di sangue.
Hellblade: Senua’s Sacrifice (2017)

Il giorno in cui Andre di Astora mi dichiarò guerra

Ci è capitato, qui su Frequenza Critica, di parlare di Dark Souls. Per concludere questo breve racconto personale, vi farò partecipi di uno degli eventi più sfortunati che mi siano mai accaduti durante la mia partita al primo Dark Souls. I salvataggi automatici sono parte integrante della serie creata da Hidetaka Miyazaki, perché obbligano il giocatore a fare i conti con le conseguenze delle innumerevoli morti che separano il filmato iniziale dai titoli di coda.

Ero alla fine della storia — della mia prima, grande corsa attraverso Lordran. Armato della mia Zweinhander a un passo dalla perfezione e dei materiali necessari a farla arrivare alla sua forma finale, andai a fare un saluto al buon vecchio Andre, il grande e barbuto fabbro. Quello che non sapevo era quanto potesse essere permaloso. Arrivato davanti a lui, il mio controller cadde a terra. Come una fetta di pane con la marmellata, decise di cadere dal lato peggiore, premendo con decisione il tasto R2 (ovvero, uno di quelli che attivano gli attacchi): il mio non-morto si lanciò a tutta forza contro il fabbro che, da quel giorno, prese ad attaccarmi a vista per vendicare il torto subito… e non ci fu modo di fargli cambiare idea. Addio, Zweinhander perfetta, resterai per sempre nei miei sogni.

Il non-morto prescelto di Dark Souls ravviva la fiamma di un falò.
Dark Souls (2011)

I salvataggi automatici non si sono limitati a dare un contegno alle mie manie di perfezionismo. Hanno trasportato nei videogiochi un aspetto della realtà che avrei preferito lasciare al di qua dello schermo: l’ingiustizia. Accettare un errore è più difficile se la colpa non è propria — o almeno non del tutto. Sfruttare il senso di ingiustizia con intelligenza può portare a risultati interessanti, dal punto di vista ludico e narrativo, ma lasciare che scorra senza freni può aprire le porte di un abisso di frustrazione. La scelta tra salvataggi automatici e manuali determina chi ha il controllo sull’andamento della storia: io sono disposto a rinunciare a una parte delle mie possibilità come giocatore, ma questo comporta responsabilità maggiori per gli sviluppatori, che devono essere in grado di prevedere le ingiustizie involontarie all’interno dei loro mondi virtuali.

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Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica

Chiacchieratore seriale, passa buona parte del suo tempo a parlare ad altri della sua passione per i videogiochi.