Jonathan Blow - La poetica della ricerca

Le potenzialità del videogioco, la condizione umana e la ricerca della Principessa.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
11 min readJun 15, 2020

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Avviso ai lettori: questo articolo contiene spoiler su Braid e The Witness.

A knowledge of the existence of something we cannot penetrate, our perceptions of the profoundest reason and the most radiant beauty, which only in their most primitive forms are accessible to our minds: it is this knowledge and this emotion that constitute true religiosity. In this sense, and only this sense, I am a deeply religious man… I am satisfied with the mystery of life’s eternity and with a knowledge, a sense, of the marvelous structure of existence — as well as the humble attempt to understand even a tiny portion of the Reason that manifests itself in nature.
-Albert Einstein, 1931 (citazione presente in The Witness)

Jonathan Blow è uno degli autori che più di tutti ha compreso e realizzato il potenziale espressivo del medium videoludico. È un’affermazione forte, me ne rendo conto, quindi va giustificata.

L’autore americano, oltre che per Braid e The Witness, è famoso anche per le sue opinioni molto forti sullo stato dell’industria videoludica, su cosa costituisca secondo lui un “buon” o un “cattivo” game design, sulle pratiche manipolative di alcuni videogiochi (in particolare social game alla Farmville e MMO alla World of Warcraft), opinioni che ha espresso più volte nei numerosi panel da lui tenuti e in diverse interviste nel corso degli anni. Sempre molto critico, soprattutto nei confronti dei videogiochi più ad alto budget, più portati ad “andare sul sicuro” invece di prendersi rischi creativi, Blow crede che siano in pochi a tentare di portare realmente avanti il medium, esplorando le sue potenzialità.

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Ma cosa si intende con potenziale espressivo del videogioco, e in che modo Braid e The Witness lo realizzano? L’impostazione prevalente nel medium videoludico, dagli albori a oggi, è quella dedita al cosiddetto escapismo: giocare significa evadere dalla realtà, dimenticare le preoccupazioni e perdersi in un mondo fittizio, virtuale. In questa concezione, anche a causa di una spesso scarsa comprensione delle molte sfumature di un termine come gioco, il videogioco avrebbe l’obbligo di essere divertente, pena il fallimento nel raggiungere il proprio scopo (divertire, dal latino divertere: allontanare, distogliere).

Ascoltando un’intervista a Jonathan Blow tenuta da Adam Conover, una delle risposte che più mi ha colpito riguardava proprio questo argomento: per Blow, l’interesse di un oggetto culturale (che si parli di film, musica o, appunto, videogiochi) più che nella capacità di intrattenere e divertire, di allontanare da, sta nella capacità di avvicinare a qualcosa, a delle idee. Intendiamoci: personalmente non ho nulla in contrario ai giochi di intrattenimento (basti leggere il mio nick), ma se si ritiene — come faccio — che la varietà di esperienze non possa che arricchire un medium e di converso tutti i suoi fruitori, si deve riconoscere che i videogiochi sono (e ancor di più lo erano ai tempi in cui uscì Braid) indietro nella capacità di offrire esperienze significative nel senso più puro del termine.

Videogiochi che parlino della condizione umana e alla condizione umana, capaci di colpire nel profondo e di aprire nuove prospettive sul mondo. Videogiochi non per forza divertenti sempre e comunque, ma capaci di lasciare qualcosa ben oltre la fine dei titoli di coda o la chiusura del gioco. Sebbene superficialmente Braid e The Witness non potrebbero apparire più diversi, sono entrambi chiaramente frutto di questa stessa visione, di questo stesso humus, di questa volontà di scardinare le abitudini consolidate nella creazione e nella fruizione di un videogioco.

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Oggi il fenomeno indie è più consolidato che mai: sul mercato si affastellano continuamente produzioni frutto del lavoro di piccoli team, quando non di persone singole, senza l’appoggio di grossi publisher, molto spesso — ma ovviamente non sempre — più originali e creative di tanti titoli dal budget multimilionario. Opere come Undertale, The Stanley Parable, Papers, Please e Journey, per citare solo alcuni degli esponenti più brillanti e celebrati della categoria.

Quindici anni fa non era così, e se l’esplosione del fenomeno è dipesa in larga parte dall’avvento del digital e di Steam, o di programmi come Xbox Live Arcade, va anche dato credito a quelle opere che, per prime, hanno mostrato le incredibili potenzialità creative del videogioco indipendente: tra queste, chiaramente, Braid ricopre un ruolo di primo piano. All’apparenza Braid potrebbe sembrare un videogioco incredibilmente classico, appoggiato sulla struttura archetipica che più di tutte simboleggia il Videogioco: un (puzzle) platformer in cui il giocatore, avanzando da sinistra verso destra, completa un livello dopo l’altro, alla ricerca della solita Principessa da salvare.

Il tropo della principessa da salvare è probabilmente il più abusato della storia dei videogiochi. Quante principesse abbiamo salvato nella nostra vita da videogiocatori? Chi ha vissuto l’epoca delle console a 8 o 16 bit — o chi come me, pur essendo più giovane, ha recuperato certi titoli successivamente — ricorderà sicuramente che c’è stato un periodo in cui quasi ogni gioco presentava una qualche variante di questo tropo: che fosse la principessa Peach in Super Mario, Marian in Double Dragon o Irene in Ninja Gaiden, la via preferita per dare al giocatore una motivazione narrativa all’avanzamento era la cosiddetta “damigella in pericolo”.

Se Braid si appoggia a questo tropo non è però per evocare una qualche forma di sentimento nostalgico, bensì per decostruirlo e metterlo sotto una luce totalmente diversa.

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Non mi riferisco al modo, pur di per sé interessante e d’impatto, con cui nel finale rovescia la relazione rendendo il protagonista (e quindi il giocatore) un persecutore invece che un salvatore, ma a qualcosa di più profondo.

Blow ha innanzitutto capito che la fruizione di un videogioco è una forma di comunicazione non verbale tra giocatore e videogioco (e quindi, indirettamente, tra giocatore e designer). È il motivo per cui sia in Braid che in The Witness non sono presenti tutorial espliciti, ma il gioco trasmette le sue regole organicamente attraverso i puzzle stessi. Ragionare su un puzzle e risolverlo, secondo la concezione di Blow, significa comprendere un pezzettino in più della “realtà” in cui ci si trova, assimilare l’idea che era alla base del design del puzzle stesso.

Ogni mondo di gioco in Braid ruota intorno a una meccanica principale (il rewind, l’immunità di certi oggetti al rewind, il legame tra tempo e spazio e così via) che rappresenta l’idea centrale, dalla quale discendono tutte le altre attraverso le concretizzazioni specifiche nei puzzle. In questo senso il percorso di attraversamento di un mondo e la risoluzione dei puzzle diventa, letteralmente un tassello alla volta, un processo di accrescimento di conoscenza e di comprensione.

L’obiettivo finale in ogni mondo è il castello, il luogo dove si troverà finalmente la Principessa, la cui ricerca in questo contesto metaforico non può che rappresentare (in quella che chiaramente è solo una delle chiavi di lettura possibili) la ricerca di Conoscenza, in senso gnoseologico, della Verità. Ma la Principessa sarà sempre in un altro castello.

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Creare un videogioco, più di molti altri media, significa creare un mondo, o meglio un universo. Se lo sviluppatore può essere visto come la mente creatrice, l’universo di gioco è un più o meno complesso sistema governato da regole proprie, che il giocatore deve imparare a conoscere e interiorizzare. In questo senso nelle opere di Blow la tensione del giocatore verso la comprensione diventa una metafora dello sforzo dell’umanità di comprendere la realtà che lo circonda, così come la natura sfuggente di questa Conoscenza (la Principessa non verrà mai raggiunta, e se anche ci si riuscisse…) simboleggia l’utopismo di questa tensione.

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“Il dubbio e la non conoscenza vanno accolti come possibilità di un nuovo potenziale”, dice Feynman in una delle sue tante citazioni presenti in The Witness. Nel finale di Braid tutti i puzzle risolti, tutte le conoscenze acquisite, si trasformano in blocchi che compongono un castello slanciato verso le nuvole: l’incapacità dell’uomo di arrivare a una comprensione che non sia parziale non implica un messaggio nichilista, non significa che non si debba continuare a costruire, un tassello alla volta.

The Witness continua il discorso intrapreso con Braid, ampliandone e raffinandone ulteriormente la visione. Il concept di The Witness, spiega Blow, nasce da una semplice idea di base: il giocatore scala una montagna e una volta arrivato in cima, rivolgendosi verso il sentiero appena percorso, scorge un pattern nell’ambiente (inizialmente doveva essere la formula di un incantesimo, in una sorta di RPG in cui questi si lanciavano disegnando degli specifici simboli).

Questo concept basato sull’idea di epifania, di prospettiva e sulla capacità di vedere nell’ambiente qualcosa che c’era sin dall’inizio ma non si era capaci di afferrare, è il cuore pulsante di The Witness. Niente incantesimi, niente nemici, solo puzzle da risolvere e una linea da tracciare: in una mossa sottrattiva che sa tanto di Ueda, Blow ha eliminato il superfluo e lasciato fiorire l’idea centrale.

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L’isola di The Witness è fondamentalmente statica, così come statiche sono le capacità del personaggio giocante. Quando si avvia il gioco e si arriva sull’isola, si è del tutto liberi di andare in qualsiasi zona, potenzialmente di completare qualsiasi puzzle, se non fosse per una sola cosa: la mancanza di conoscenza. A cambiare nel corso del gioco non sono quindi le possibilità del giocatore: il processo di risoluzione di nuovi puzzle e di accesso a nuove zone non dipende dallo sblocco di qualche nuovo potere, ma semplicemente da una crescente comprensione delle regole dell’universo in cui ci si trova.

La concezione di puzzle come forma di comunicazione non verbale di idee arriva alla sua sublimazione, ogni pannello risolto è come un mattoncino da aggiungere agli altri in quello che è il vero e proprio apprendimento di un linguaggio, il tutto senza la benché minima indicazione esplicita e senza una singola riga di testo. L’isola è un piccolo microcosmo, in cui zone dalle caratteristiche totalmente diverse si accostano senza soluzione di continuità, senza alcuna pretesa di realismo. In ogni zona il giocatore apprende nuove regole, un nuovo sistema simbolico, un nuovo aspetto della realtà e della natura, e dopo averlo padroneggiato aziona un meccanismo che attiva un raggio di luce diretto verso la montagna.

La montagna, sin dall’inizio stagliata all’orizzonte e ben visibile da qualsiasi punto dell’isola, assume da subito i connotati della destinazione finale, il luogo in cui ogni domanda troverà risposta e finalmente si otterrà l’illuminazione, insomma: l’equivalente della Principessa in Braid.

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Eppure, se il giocatore si limitasse ad andare di pannello in pannello, azionando tutti i laser e dirigendosi alla montagna, non troverebbe quello che cerca. Nel cuore della montagna, dopo una discesa al suo interno costituita da alcuni dei puzzle più complessi del gioco, una gabbia bianca attende il giocatore, una visione paradisiaca: la tanto attesa illuminazione è lì, a portata di mano. Ma la gabbia è un inganno, chiuso al suo interno il giocatore è costretto a ripercorrere tutta l’isola, osservando tutti i pannelli da lui faticosamente risolti spegnersi uno dopo l’altro mentre viene riportato all’inizio del gioco, nel buio.

Per giungere al vero cuore di The Witness si deve imparare a percepire la realtà in maniera diversa, ad allentare le catene delle proprie categorie mentali. Come nella succitata idea di base dell’epifania sulla cima della montagna, arriva un momento — che può essere diverso per ogni giocatore — in cui improvvisamente ci si rende conto di qualcosa che era sempre stato lì, ma non si riusciva a vedere.

In un attimo l’isola cambia totalmente, pur senza cambiare per niente, perché a essere ribaltata è la percezione del giocatore della realtà in cui si trova. Come ci insegna la psicologia della Gestalt, la percezione del mondo circostante passa necessariamente per l’identificazione di pattern, schemi, forme familiari apprese con l’esperienza. The Witness non scardina questo assunto, anzi, ma ci chiede di fare un passo indietro e di cambiare prospettiva, per accedere a un nuovo livello di conoscenza della realtà, mentre al tempo stesso — con il meraviglioso e segretissimo “The Secret of Psalm 46” — ci ammonisce sui pericoli che si annidano nella ricerca della verità e nell’identificazione di pattern.

Il senso attribuito alla realtà circostante attraverso i pattern che impariamo a riconoscere, è un qualcosa di reale ed esterno, o una mera proiezione? Stiamo davvero conoscendo la realtà, oppure in fondo siamo come le persone descritte da Brian Moriarty?

“They were channeling their preconceptions.
They were trapped in a labyrinth of delusion, mining order from chaos.

“Angler[s] in a lake of darkness.” Lear III.6

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L’isola di The Witness, il microcosmo in cui il giocatore si muove, sembra quindi essere una brillante metafora della condizione umana, al cui interno è racchiusa l’intera storia della nostra specie. In giro per l’isola ci si imbatte in statue di pietra rappresentanti varie sfaccettature dell’umanità: una pittrice intenta a dipingere un panorama, un programmatore, un politico nel mezzo di un discorso.

Da Albert Einstein a Nicola Cusano, da Richard Feynman ad Andrej Tarkovskij, gli unici dialoghi e filmati presenti nel gioco sono citazioni di pensatori, artisti, uomini di fede e uomini di scienza, prospettive spesso contraddittorie e inconciliabili ma accomunate dalla volontà di conoscere, di capire e di spiegare. The Witness non vuole impartire una visione del mondo, dire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato: non ci sono risposte, e sicuramente non sono nel cuore della montagna.

The Witness è quindi un monumento all’umanità e alla ricerca di senso che ne costituisce l’essenza, pur nelle infinite declinazioni che questa ricerca ha assunto e assumerà, alle categorie mentali che ci consentono di conoscere la realtà, ma al tempo stesso ci incatenano in schemi che non potranno mai arrivare a una visione davvero complessiva.

“Should anyone express any concept by which you could be conceived, I know that this concept is not a concept of you, for every concept finds its boundary at the wall of Paradise.

[…]

For a most towering wall separates you from all these and secludes you from everything that can be said or thought, because you are absolute from all the things that can fall within any concept.”

- Nicola Cusano, 1453

La Principessa sarà sempre in un altro castello ma forse, un mattoncino alla volta, possiamo arrivare alle nuvole.

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