La luce alla fine del tunnel di Borderlands 3

Sperando sia arancione e non un pacco di soldi sovrapposto a un drop bianco.

Marco "Brom" Bortoluzzi
Frequenza Critica
10 min readSep 27, 2019

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[Nota dell’autore: questa recensione non contiene spoiler]

Borderlands 3 è un gioco che aspetto da tempo, o meglio: è da tempo che aspetto un gioco che riesca a coinvolgermi quanto era riuscito a fare Borderlands 2, su cui fra 2012 e 2014 spesi qualche centinaio di ore, più un altro centinaio circa su The Pre-Sequel. Ma nessuno dei looter-shooter (per i profani: una categoria che combina sparatutto con gestione dell’inventario alla Diablo) che ho provato nel frattempo è riuscito a convincermi. A Warframe diedi più possibilità, per restarne rapidamente annoiato ogni volta. The Division aveva un’ottima ambientazione, ma proprio questa ambientazione lo obbligava a un armamentario che offriva poca varietà in termini di caratteristiche particolari delle armi. Destiny 2, con il suo ottimo gunplay, ci andò vicino, ma faccio fatica ad apprezzare la sua gestione del farming e trovo la sua scrittura molto deludente. Rage 2, anche se non un looter-shooter, sembrava poter riempire quella mancanza di “sparatutto nelle terre di frontiera” che sentivo da tempo; ma mi bastò leggere di una durata totale sulle dieci ore per perdere interesse.

Per un motivo o per l’altro, nessuno di questi giochi riusciva a catturare quella magia che mi aveva fatto entusiasmare così tanto a Borderlands 1 prima, e al suo seguito poi. E quindi, non restava che aspettare il ritorno della serie di casa Gearbox, appassionandomi sempre di più mano a mano che la data fatidica si avvicinava, e stringendo un bel po’ i denti ogni volta che vedevo il nome di Randy Pitchford apparire da qualche parte. E poi, finalmente, il 13 settembre è arrivato.

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Claptrap non è andato da nessuna parte, tranquilli.

Solo perché ci ho passato qualche centinaio di ore non significa fossi convinto che Borderlands 2 fosse il gioco perfetto, anzi: di difetti anche abbastanza grossolani da limare non era certo carente. Forse il più eclatante riguardava proprio la sua componente più importante, ovvero il gunplay. Diventa ben presto evidente che, da questo punto di vista, nel terzo capitolo è stato fatto un lavoro non da poco: gli scontri a fuoco sono molto più piacevoli, i nemici molto più mobili e meno — con qualche eccezione — spugnosi, le armi meglio caratterizzate dal punto di vista del sonoro e anche dell’impatto, con fucili a pompa e armi esplosive che non mancheranno di far volare a qualche metro di distanza i nemici colpiti (e non ancora ridotti in spezzatino). Non siamo ai livelli di Destiny 2, questo è vero, ma il passo avanti è comunque significativo.

Anche le proprietà speciali di ciascuna marca di armi sono state riviste. Se alcune — come Tediore e Jakobs — rimangono sostanzialmente invariate rispetto a Borderlands 2, altre hanno subito leggere modifiche con l’introduzione delle modalità alternative di fuoco: le armi della Maliwan, per esempio, ci permetteranno di scegliere fra due elementi diversi, rendendole adatte a più situazioni. Più significative le differenze in altri casi: le armi della Hyperion, invece di diventare sempre più precise mano a mano che si spara come in Borderlands 2, proiettano uno scudo in grado di assorbire o di riflettere i colpi nemici.

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E poi ci sono le armi possedute da una qualche strana entità aliena.

Lo sforzo fatto in questo senso è proteso a cercare di rendere tutte le marche di armi appetibili, mantenendo però la loro identità distinta: evidente in questo senso il caso della Dahl, il cui selettore di fuoco bloccato sulla raffica di tre colpi avrà fatto odiare le sue armi a più di un giocatore, ma che in Borderlands 3 invece ci permette di scegliere fra due su tre modalità di fuoco (automatica, raffica, semiautomatica) a seconda dell’arma. Va detto però che, nonostante i tentativi di equilibrare il divario fra le varie marche, in linea di massima le armi della Jakobs e della Torgue sembrano superiori alle loro concorrenti; e visto che, per ogni cento uccisioni compiute con l’arma di una specifica marca, la componente “social” del gioco ci premierà con un’arma di buona qualità di quella stessa marca, è facile trovarsi ad utilizzare sempre armi molto simili.

Per chiudere il discorso sulla parte strettamente armaiola del gioco, la probabilità di veder spuntare le tanto bramate armi arancioni è stata di molto aumentata rispetto al predecessore, dove era incredibilmente bassa. Da un lato questo è molto apprezzato dal sottoscritto, che non aveva nessuna voglia di ripetere l’oretta e mezza spesa per ottenere una Double Penetrating Unkempt Harold. Dall’altro, però, spero che questo non porti alla sindrome di The Division, dove nel giro di qualche patch sono passato dal non vedere un’arancione manco per sbaglio a esserne letteralmente sommerso, fino al punto che quella rarità perdeva completamente di significato. Trovo anche discutibile la scelta di far sì che la maggior parte dei leggendari sembrino essere “world drop”, ovvero ottenibili da qualunque nemico sconfitto: anche qui, se questo ha i suoi lati positivi, d’altro canto rende difficile impegnarsi nella ricerca di uno specifico pezzo che magari si adatta bene al ramo di abilità che abbiamo scelto.

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Certo che però in Borderlands 2 trovare un’Infinity in un forziere a caso non succedeva mica tutti i giorni.

In Borderlands però non si spara e basta. La storia di Borderlands 3, come preannunciato dalla conclusione del secondo capitolo, ci porterà ben presto a lasciarci (temporaneamente) alle spalle Pandora e a visitare altri pianeti. L’idea è intrigante: spesso nei giochi precedenti capitava di sentir nominare posti come Promethea ed Eden 6, e andare a sparare anche alla fauna locale non sembrava certo una cattiva idea. Ma se i pianeti in sé e i loro abitanti sono ben caratterizzati, una nota stonata è il fatto che a ogni pianeta sia riservato uno specifico bioma: se in Borderlands 2, girando per Pandora, oltre al deserto vediamo distese innevate, caverne corrosive e terre devastate dall’eridium, in Borderlands 3 Pandora è il pianeta desertico, Promethea è la megalopoli ultramoderna e Eden 6 è la palude. Notevole però è il lavoro fatto per le singole aree, ciascuna molto più vasta rispetto a quelle del predecessore, e la cui navigazione è resa molto più agevole dal fatto di poter accedere al Fast Travel semplicemente aprendo la mappa.

Una cosa che però non cambia fra Pandora e gli altri pianeti è quanto i loro pittoreschi personaggi adorino parlare. La domanda che sorge spontanea è: ma tutto questo ciarlare ha anche un senso? La risposta a questa domanda è duplice: per quanto riguarda lo sviluppo e la trama dei singoli pianeti, così come delle sidequest lì presenti, la qualità dei dialoghi è generalmente molto buona, con qualche piccola sbavatura; diciamo solo che passare qualche minuto a sentire un’I.A. che fa i versi di una scimmia in calore era tranquillamente evitabile. Ho trovato molto convincenti in particolare Vaughn, Rhys (che ritornano dopo essere apparsi per la prima volta in Tales From the Borderlands; Vaughn era presente anche nel DLC di Borderlands 2 rilasciato qualche mese fa, Commander Lilith & the Fight For Sanctuary) e Wainwright Jakobs, nuovo personaggio, così come ho trovato apprezzabili altri personaggi secondari come Lorelei, Katagawa Jr, Clay e BALEX.

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In Borderlands 3 è giunto il turno della Maliwan di provare a fermarci. Chissà se gli andrà bene? (spoiler: no)

Il problema vero però sorge quando andiamo a vedere il modo in cui tutti questi personaggi e le loro storie vengono integrati nella storia principale, quella che riguarda la lotta dei Crimson Raiders contro i Calypso, fratello e sorella che, apparsi apparentemente dal nulla, sono riusciti ad unificare tutti i banditi della galassia sotto un’unica bandiera. Se inevitabile è il confronto impari con Handsome Jack, da cui escono battuti, allo stesso tempo li ho trovati cattivi convincenti, seppur mancanti di qualunque aspetto che possa servire a renderli in qualche modo simpatetici: Tyreen e Troy sono due infami assetati di potere e senza alcun riguardo per la vita umana, e i loro personaggi si esauriscono lì. Oltre a questo, una cosa che ho trovato poco convincente è come i due gemelli facciano uso dei loro poteri solo quando gli scrittori se ne ricordano. La trama è proprio il punto più debole di Borderlands 3: oltre a fare uso di tattiche a dir poco frustranti come l’assoluta sparizione dei nostri personaggi nel corso della cutscene, ha seri problemi di ritmo: dopo aver raggiunto un picco con la difesa della sede Atlas di Promethea e con gli eventi che traspaiono una volta aperta la prima Cripta, la trama tira praticamente il freno a mano e ci manda nelle paludi di Eden 6 a cercare pezzi di un’altra chiave della Cripta e a fare missioni che sarebbero state apprezzabili come sidequest, ma stonano abbastanza con il carattere di urgenza che dovrebbe essere presente nella storia principale.

A dir poco irritante è invece la tendenza a mandarti a fare qualcosa, solo per poi dirti, una volta arrivato lì, che oh no la porta è chiusa e devi andare in quest’altra area a fare tutto il giro o a pescare il MacGuffin (termine tecnico, cercatevelo) che serve per aprire la porta. Se succedesse una volta ogni tanto andrebbe anche bene, ma è uno sviluppo degli eventi troppo frequente, e questo continuo spezzare il ritmo diventa ben presto snervante. Fa sorgere qualche dubbio anche il ruolo giocato dai Cacciatori della Cripta dei giochi precedenti, che, con l’esclusione di Maya e Lilith, è praticamente nullo: Brick aprirà giusto un paio di porte prima di sparire in terzo piano, così come Zer0 e Mordecai; tutti gli altri, invece, assenti ingiustificati. E se posso capire che, chessò, Gaige e Axton siano impegnati nella ricerca di altre cripte, dov’è Salvador, che invece è natio di Pandora? E, visto anche il ruolo di Maya, dov’è Krieg? È abbastanza evidente che per rispondere a queste domande dovremo aspettare i DLC, ma vista anche la lunghezza non indifferente della campagna di Borderlands 3 (siamo sulle 25 ore circa) queste mancanze fanno un po’ storcere il naso.

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La Tannis, qui rappresentata in un momento di relativa normalità, ha un ruolo di primo piano in Borderlands 3.

Ma, come i predecessori, Borderlands 3 non è un gioco che finisce una volta conclusa la sua storia. Un forte accento è posto sulla rigiocabilità: oltre alla True Vault Hunter Mode, che qui ritorna proposta in salsa un po’ diversa (è possibilissimo arrivare al 50 anche restando nella modalità Normale, visto che si chiude attorno al livello 40 e una volta finita i nemici si adeguano al nostro livello), il gioco invoglia a prendere in mano anche altri personaggi e a sperimentare le loro abilità. In questo senso il lavoro fatto è stato molto buono: dopo aver consultato i vari alberi di abilità, ammetto di aver passato qualche minuto a fissare la schermata di selezione del personaggio prima di orientarmi su Moze e sul suo mech da battaglia. Per aggiungere più varietà, ogni personaggio ha a sua disposizione più modi di modificare la propria abilità attiva: Moze, per esempio, può cambiare le due armi assegnate al suo mech, mentre Zane può attivare due abilità (su tre totali) allo stesso tempo. I passi in avanti rispetto a Borderlands 2, in questo senso, sono significativi.

C’è poi la componente “endgame”, ovvero quel contenuto che tiene attaccati i giocatori anche dopo aver completato la trama e tutte le sidequest, come potevano essere i raid boss di Borderlands 2 (Terramorphous e Voracidius, nel gioco base). Va detto che da questo punto di vista Borderlands 3 è abbastanza limitato: esiste la possibilità, in maniera simile a quanto succede ad esempio con i Torment Levels di Diablo 3 o il World Level di The Division, di aumentare la difficoltà del mondo di gioco per ottenere ricompense migliori. Oltre ad metterci di fronte nemici più resistenti, queste modalità introdurranno anche modificatori casuali, che possono andare da semplici buff o debuff al danno di specifiche categorie di armi a cose un po’ più particolari, come la possibilità che i nemici sparino due colpi invece di uno — il che diventa rapidamente pericoloso quando vi trovate davanti nemici armati di lanciamissili. Suscita numerose perplessità uno in particolare di questi modificatori, ovvero quello che conferisce ai nemici una possibilità del 30% di rispedirci in faccia in proiettili da noi sparati, capace di rendere rapidamente frustrante l’esperienza. Similmente, il modo in cui è strutturato l’endgame al momento sembra incentivare i giocatori a concentrarsi su un boss in particolare (Gravewarden) a scapito di tutto il resto del contenuto, proprio per la questione citata prima dei leggendari come “world drop”.

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Per fortuna i modificatori non sono nascosti. Se non vi piacciono, tornate al menù e rientrate in gioco.

Per concludere con una breve parentesi sulla componente tecnica: Borderlands 3 è sicuramente un gioco molto piacevole da guardare. La qualità delle texture non sarà sicuramente a livello di altri suoi concorrenti, ma quando tutti i pezzi sono in movimento è davvero piacevole da vedere (anche se molto sconsigliato a chi soffre di epilessia). Il design del mondo di gioco e delle aree è molto ben fatto, e si vede che in questo senso il team ha cercato di prendere ispirazione da Destiny. Ma il gioco soffre anche di qualche problema di ottimizzazione, che a questo punto è cronico nei prodotti di casa Gearbox: particolarmente fastidioso quello che causa cali di frame rate quando prendiamo la mira con un’arma (nel mio caso si arriva a perdite anche di 20 frame per secondo). Un problema che si presenta anche nel caso di ingrandimenti non particolarmente elevati, e che non può che lasciare l’amaro in bocca. [nota dell’autore: il problema sembra essere stato risolto con la patch del 26 settembre]

Al netto di tutto, Borderlands 3 resta un ottimo capitolo della serie Borderlands, e sicuramente un valido concorrente per Shadowkeep, l’espansione di Destiny 2 che uscirà a breve. Come i suoi predecessori, non è privo di difetti, che nel caso della storia in particolare sono anche abbastanza grossi; ma questi difetti sono adeguatamente bilanciati dalle cose che invece riesce a fare bene — per dirne un paio non ancora citate, avere per la prima volta scontri con i boss degni di questo nome e la possibilità di giocare con amici di livello diverso dal nostro senza problemi. La differenza nei prossimi mesi ed anni, come sempre nel caso dei giochi di questo genere, la farà il contenuto aggiuntivo. Sperando che la Gearbox, fra un evento speciale e l’altro, non si dimentichi di sistemare almeno i difetti tecnici, e di regolare l’endgame in maniera che diventi appetibile anche ai meno accaniti.

[Ho giocato Borderlands 3 su un i5–4570, GTX 1070 e 8 GB di RAM]

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