La rivoluzione concettuale di Death Stranding — Parte 2

“Interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete”.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
8 min readDec 7, 2019

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Ho scritto nella prima parte di questo speciale come la struttura archetipica del videogioco poggi su una stilizzazione standard: dal punto A al punto B, attraverso uno spazio virtuale che è “inerte”. Sì potrebbe dire, arrivando alle estreme conseguenze, che il videogiocare non consista in altro che nell’attesa del raggiungimento dell’azione ludica (che sovente combacia con quella drammatica): ciò che vi è nel mezzo (lo spazio virtuale) contribuisce unicamente all’immedesimazione nel mondo fittizio e nel racconto. Focalizzate questa struttura tipica come macro bolle legate da un filo sottilissimo: è in corrispondenza di queste bolle che si irradia il gameplay, il filo è contesto, lungo il quale si può incorrere in bolle “minori” a cui corrispondono i punti intermedi di cui parlavo nella prima parte.

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Il videogioco è un continuo e ideale percorrimento di una linea immaginaria che conduce da un punto d’azione all’altro; tale linea è lo spazio videoludico. Su di essa e nel mezzo della distanza dei suddetti macro-punti, spesso si “incontrano” punti intermedi, ma lo schema non viene eroso.

Death Stranding mira a capovolgere totalmente l’impostazione che ho illustrato fino a ora. Ai fini di chiarezza esemplificativa, crei il lettore un’immagine mentale dell’opera di Kojima Production come di un’unica grossa catena, formata da amplissimi anelli avvinti gli uni agli altri. Questi anelli sono così preponderanti rispetto al “contesto” (o, meglio, sono così integrati in esso) da formare un’esperienza che appare, in una visione d’insieme, come unitaria. Così coesa che i punti d’azione ludica tradizionali (i punti A e B) perdono totale centralità ludica.

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In Death Stranding l’azione ludica è così indissolubilmente legata allo spazio videoludico da risultare quest’ultimo “indistinto” e indistinguibile, al punto da essere quasi impossibile una segmentazione in punti di azione. In una visione complessiva, la sensazione è di un’esperienza incredibilmente coesa, come di un flusso continuo, senza stacchi. Il “contesto” è assorbito, come le linee sottili testimoniano.

In altri termini, laddove il videogioco normalmente concentra il suo focus ludico intorno a determinati “momenti”, nettamente separati (e separabili) sia da un punto di vista logico che cronologico — nel senso che io posso sezionare l’esperienza ludica proprio grazie a questa segmentazione, che mi permette di individuare l’unità logica avente un senso compiuto in sé e la sua precisa collocazione temporale — in Death Stranding il gameplay è così intrinsecamente “disseminato” senza una reale soluzione di continuità, da infrangere i “punti A e B”, i quali perdono concettualmente qualsiasi rilevanza. Incredibile come la smaterializzazione di questa struttura archetipica del videogioco si realizzi proprio in uno dei videogame che, apparentemente, impernia tutta la propria esperienza su questo assunto.

In che modo Kojima Productions punta a raggiungere questo risultato straordinario? Legando in maniera mai vista prima l’azione ludica allo spazio virtuale.

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Non è mio obiettivo in questo speciale raccontare le specificità del core gameplay dell’ultimo lavoro di Kojima (dunque non parlerò di quanto poi concretamente tutto ciò sia riuscito in sede di esecuzione), né illustrare come questo trovi un’aderenza incredibile sia al contesto narrativo sia al “messaggio” che l’autore voleva veicolare (anche grazie a un uso dell’online probabilmente mai visto, come ci ha raccontato Master); ci sarà tempo e modo.

Piuttosto, è necessario in questa sede mettere in luce l’ubi consistam di questo gameplay. In Death Stranding, si passa tutto il tempo a fare “fetch quest” camminando su una superficie quasi totalmente spoglia e priva di attrattive (quantomeno artificiali), e trasportando oggetti identici (casse e valigette) fra mete del tutto identiche. Continuamente, ancora e ancora, da A a B, poi C, poi di nuovo A e ancora B; dall’inizio alla fine.

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Come è possibile che una sequela apparentemente così stantia e meccanica di azioni possa rappresentare uno degli apici emozionali di questo medium? Semplice, il centro dell’esperienza ludica non si trova agli estremi del percorso, ovvero i “punti A e B”, presso i quali, abbiamo visto, normalmente si concentra l’azione ludica; bensì è il percorso stesso che lega i due punti a rappresentare il centro del gameplay in virtù del suo essere così strettamente legato allo spazio virtuale.

L’idea rivoluzionaria alla base di Death Stranding sta nella priorità che viene accordata al rapporto fra avatar e ambiente d’azione; rapporto che mai prima d’ora aveva acquisito una tale preordinazione e rilevanza rispetto a qualsiasi altro elemento ludico. Rapporto che, infine, salda in maniera del tutto nuova l’azione ludica con lo spazio virtuale, il quale non è più mero sfondo drammatico o empatico dell’agire, ma co-protagonista dell’interazione dell’utente, un vero fattore ludico.

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Pensateci, spostandovi con Geralt in sella alla sua Roach o correndo per i declivi con Aloy o facendovi strada con la vostre bocche di fuoco in Doom, pensavate al terreno sotto ai vostri piedi, alla fatica di spostare un peso reale (il vostro) e tangibile, alla ripidità di una salita? Avvertivate come un materiale e concreto fattore da prendere in considerazione l’ambiente circostante, nella sua natura di altro-da-sé, esterno, che limita?

No, non parlo dell’acqua elettrificata, della stamina che diminuisce in corsa, degli spuntoni dal terreno: queste sono astrazioni, non molto dissimili dal ferirsi toccando l’acqua in un vecchio platform. Mi riferisco al concreto peso del singolo passo, del baricentro che si sbilancia in seguito a una folata di vento, dell’aderenza che diminuisce su un terreno bagnato. È il movimento stesso dell’avatar, la più basica (e scontata) delle interazioni videoludiche, a essere il centro del gameplay.

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In The Witcher 3, in Horizon: Zero Dawn, in Doom, lo spazio virtuale mantiene la sua funzione di collante strutturale di isolate stazioni di azione ludica. L’ambiente permane nella sua funzione di non-luogo, connotato da un elevato grado di astrazione, realizzato per essere immaginato e premesso, più che esperito; e astratte e idealizzate sono le relazioni dell’avatar di gioco con questo ambiente — Geralt avrà un’animazione differente salendo una collina, ma quanto ciò conta davvero?

Se invece, in Death Stranding, è proprio il rapporto dell’avatar nel suo muoversi nell’ambiente di gioco il fulcro ludico dell’esperienza, allora la conseguenza è che il core gameplay non si annida più in isolate sezioni inserite in un contesto drammatico, bensì si intreccia strettamente, quasi in simbiosi, con lo spazio in cui si esprime. Ed è per questo che diventano così secondari i punti estremi che contornano lo spostamento (il dove si parte e il dove si arriva, i nodi, quasi superflui, e come tali trattati da Kojima); ed è per questo che diventa così secondario il cosa si trasporti (nel gioco si trasportano contenitori tutti identici, raramente corpi); ed è per questo che è così secondario, infine, che si faccia la medesima cosa per tutto il tempo del gioco.

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Discutendo con alcuni miei colleghi di Frequenza Critica, confidavo come forse mai prima di allora, non trovassi un momento giusto per staccare, per interrompere l’esperienza; mai prima di Death Stranding ho compiuto sessioni così lunghe di gioco (e sono un tipo di videogiocatore con un’autonomia abbastanza limitata di solito). Chiedendomi da dove giungesse questa assuefazione, questa mancata diminuzione di libido nel tempo, giungevo infine a legare questa sensazione alle conclusioni che qui sto riportando. Se il viaggio è così preponderante sulla meta — se dunque “ciò che c’è fra A e B” è tanto più focale — al punto che il giocatore sosterà davvero per una frazione infinitesimale di tempo nei suddetti punti, diventa evidente come Death Stranding sia una sorta di flusso infinito di gioco, tale da rendere “problematico” trovare un punto in cui fermarsi.

Ma perché possa prodursi una simile approssimazione fra l’azione ludica e lo spazio virtuale è necessario che quest’ultimo assecondi le determinazioni del giocatore, evitando di porgli artificiali ostacoli d’attuazione. In altre parole, gli unici limiti ammissibili sono quelli inerenti le regole stesse che regolano il movimento; stabilite queste, per il resto al giocatore deve essere data totale libertà di scelta.

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Lo spazio virtuale di Death Stranding è come un enorme recinto ripieno di sabbia, in cui l’agire del giocatore (meglio, dei giocatori) modella i propri castelli. Il world design partorito da Kojima Productions è frutto in realtà di un sapiente ragionamento di percorsi e alternative di traversamento, costantemente rivolto ai proponimenti che il singolo giocatore può avere. A ciò si aggiunge la concreta possibilità per tutti i corrieri del mondo di poter fattivamente modificare l’ambiente, che si modella sulle esigenze dell’uomo — osservare la natura ostile prendere, con il tempo, le forme di uno spazio pervaso dal passaggio umano è una delle esperienze più potenti di quest’opera. Allo stesso tempo anche solo ogni singola pietra sul cammino è pensata per produrre una serie di conseguenze fisiche sul corpo di Sam, rappresentando un elemento primario di interazione e gameplay.

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Il risultato è uno straordinario ecosistema di correlazioni fra caratteristiche proprie dell’avatar (peso, strumenti, fisica) e i dati esterni dello spazio circostante (caratteristiche del terreno, condizioni atmosferiche, percorsi, fisica). Questa osmosi unica evapora qualsiasi forma di concettuale segmentazione del “flow” (che ritorna, con poche fortune, unicamente nelle sezioni più votate a un interazione classica, come le battaglie). Il contesto ambientale sfida costantemente il giocatore, per ogni suo singolo movimento; il “dialogo” fra soggetto e oggetto è costante; questa relazione perpetua è la perfetta fusione di un’azione ludica che si alimenta da e si diffonde mediante uno spazio virtuale “vivo” come mai visto prima d’ora.

L’ultimo lavoro di Hideo Kojima, mediante una rivoluzionaria idea d’interrelazione fra il controllo dell’alter ego digitale e un ambiente a esso capillarmente responsivo in ogni suo momento, tenta di superare una delle tacite convenzioni del videogioco. Death Stranding riesce, nonostante tutte le incertezze che non ho potuto qui illustrare, a ergersi come un’esperienza incredibilmente coesa, sacrificando qualsiasi esigenza di frammentazione del momento ludico, grazie a un inedito ripensamento delle conseguenze di uno spazio fittizio (ma mai così tangibile) sull’avatar che lo percorre.

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Nel mio articolo sulla ricezione nel pubblico di Hideo Kojima, affermavo come il suo essere un autore di grande personalità ma irrimediabilmente ancorato a una concezione mainstream delle finalità ultime dell’interazione videoludica fosse al contempo il suo pregio e la sua condanna, sotto diversi aspetti. Mi chiedevo anche se un’opera apparentemente lontana dal gusto comune, come Death Stranding, potesse rappresentare una nuova fase nel percorso artistico del designer giapponese e preludere a una rinnovata percezione da parte del pubblico generalista.

La realtà è che, come argomenta perfettamente Andrea Leonessa, Kojima è rimasto, quantomeno nei suoi topoi, saldamente coerente con la sua poetica, nonostante le apparenze. Anzi, Death Stranding ancor più della Metal Gear Saga vive questo suo dualismo irriducibile; e mai come in questo caso ciò ha rappresentato un limite alla dirompenza del design del director nipponico.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.