No, il tuo gioco sulla guerra non è apolitico

Parlare di guerra, soprattutto se vera, comporta delle responsabilità.

Marco "Brom" Bortoluzzi
Frequenza Critica
7 min readMar 22, 2021

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Marine pronti alla battaglia

Che ci volete fare, dev’essere una specie di appuntamento fisso: un po’ come le tasse, l’Italia ai mondiali e Damaso che mi chiede dov’è il mio articolo per questo mese, ogni tanto tocca parlare anche della politica nei videogiochi. A me non è che dispiaccia, eh; i più attenti ricorderanno il mio articolo di qualche mese fa. Però è pur sempre un tema spinoso da affrontare, perché, insomma, io sono solo un tizio che scrive di videogiochi, non è che ho le risposte pronte su ogni cosa. Però ogni tanto mi trovo davanti cose che non mi tornano, che mi fanno percepire un po’ di disonestà e questo non mi va proprio giù.

Il mio articolo di oggi nasce da un gioco risorto dalle sue ceneri: Six Days in Fallujah. Originariamente annunciato nel 2009, il gioco doveva ripercorrere gli eventi della Seconda Battaglia di Fallujah, avvenuta nel corso dell’intervento militare (ah, che bella coppia di parole) americano in Iraq che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein, nel 2004. Il suo annuncio fu però seguito da numerose controversie: molti si chiedevano se i videogiochi, e in particolare uno sparatutto in prima persona, fossero lo strumento giusto per rappresentare quella che era stata una battaglia sanguinosa e tutt’altro che pulita. Non ci volle molto prima che Konami decidesse di cassare il progetto; il CEO di Atomic Games Peter Tamte non abbandonò però l’idea, ed è riemerso di recente con un nuovo trailer per Six Days in Fallujah, che — a quanto pare — vedrà la collaborazione di veterani dei franchise di Halo e Destiny.

Ma cos’è, di preciso, Six Days in Fallujah? Cos’è che si propone di essere? È un semplice sparatutto tattico a sfondo mediorientale o c’è qualcosa di più? Come già evidenziato dal trailer di presentazione e approfondito nell’annuncio ufficiale, ovviamente c’è dell’altro: il gioco di Highwire Games vuole farci vivere situazioni vere che sono accadute a soldati veri che interpreteremo nel corso del gioco, come ad esempio il sergente maggiore Eddie Garcia. Lo sforzo fatto per contestualizzare gli eventi di cui saremo testimoni nel corso del gioco non si è limitato al minimo indispensabile: “più di 100 marine, soldati e civili iracheni presenti durante la seconda battaglia di Fallujah hanno condiviso le loro storie personali, fotografie e registrazioni video con il team di sviluppo.”

Il taglio che si vuole dare a questo gioco viene spesso paragonato a quello di un documentario: durante i vari livelli alcuni dei documenti raccolti da Highwire Games nel corso degli ultimi anni verranno presentati al giocatore, così da permettere di contestualizzare ciò che si è appena provato e dare un volto e una voce a chi ha effettivamente vissuto quelle vicende, sia dal lato delle forze della coalizione che da quello dei civili iracheni, che loro malgrado si sono trovati coinvolti da questa guerra. Con tutta probabilità, Peter Tamte e soci hanno cercato di evitare quanto successo nel 2009, chiarendo a tutti quale sia l’obiettivo del gioco: Six Days in Fallujah non vuole essere “solo” uno sparatutto, ma anche un’esperienza che permetta a più gente possibile di scoprire un evento della storia recente e capire cosa significa trovarsi coinvolti in prima persona in una scenario di guerra moderna.

Combattimento per le strade di Fallujah
Combattere per le strade di Fallujah non sarà affar semplice.

Ora, è giusto mettere in chiaro che il progetto è stato criticato fin da subito; la preoccupazione più sostanziale è che si tratti semplicemente di uno strumento di propaganda per l’esercito americano — tutt’altro che nuovo all’utilizzo dei videogiochi in questo senso, basti pensare alla recente questione legata a Twitch o, andando più indietro negli anni, allo sparatutto multiplayer America’s Army — e che voglia giustificare quelle che sono state le sue azioni nel corso della guerra irachena, perché se da un lato difficilmente piangerò qualche lacrima per Saddam Hussein o per Al Qaeda, la guerra raramente è un affare in bianco e nero. Le dichiarazioni rilasciate in merito però lasciano intendere che si sia cercato di presentare la battaglia da più prospettive, e se da un lato è possibilissimo che sia semplice PR speech, dall’altro è impossibile valutare torti e meriti del gioco fin quando non ne avremo in mano la versione completa. Giudizio sospeso, dunque.

Il problema risiede altrove ed è legato ad alcune dichiarazioni di Peter Tamte, padre del progetto. L’intervista da lui rilasciata a Polygon, in particolare, lo ha visto uscirsene con dichiarazioni come la seguente:

“Per noi lo scopo [del gioco] è aiutare i giocatori a capire la complessità del combattimento urbano. È basato sull’esperienza di quella persona che ora è lì a causa di decisioni politiche. E vogliamo mostrare come le decisioni prese dai politici possono influenzare le decisioni che [un marine] deve prendere sul campo di battaglia. E così come quel [marine] non può dubitare delle decisioni dei politici, anche noi non stiamo cercando di fare un commento politico sulla guerra per dire se è stata una buona o cattiva idea.”

Facciamo un attimo un passo indietro. I rapporti fra Iraq e Stati Uniti non iniziano e si esauriscono con la (seconda) guerra in Iraq, anzi, vanno indietro di qualche decennio, e la questione è tutt’altro che pulita. Nel 1980, l’Iraq di Saddam Hussein dichiarò guerra all’Iran, e dopo favorevoli battute iniziali, l’esercito iraniano respinse gli invasori e anzi superò quello che era il confine prebellico. Fondamentale per evitare la sconfitta irachena fu il sostegno di molti paesi, fra cui gli Stati Uniti che, secondo le parole di Reagan, “non potevano permettersi che l’Iraq perdesse la guerra contro l’Iran.” Il perché aveva a che fare con la recente rivoluzione di stampo teocratico avvenuta in quest’ultimo Paese e che l’aveva allontanata dall’asse filostatunitense; insomma, già capite che stiamo ad addentrarci in una bella palude di geopolitica.

Soldati americani di stanza a Fallujah
Il gioco coinvolgerà anche persone realmente presenti all’epoca dei fatti.

Ovviamente, non ci volle molto perché Saddam Hussein desse motivo agli Stati Uniti di pentirsi del sostegno dato. Nel 1990, ad appena due anni dalla fine del lungo conflitto con l’Iran, il dittatore diede infatti il via all’invasione del Kuwait, bersaglio goloso per via dei suoi ricchi pozzi di petrolio; una coalizione di forze internazionali — entro la quale gli Stati Uniti ebbero un ruolo di primo piano — intervenne per fermare questa invasione. Seguì più di una decade di sanzioni economiche, che prevedibilmente non fecero granché per convincere Hussein della bontà della democrazia, e nel 2003 si arrivò alla controversa seconda guerra in Iraq: perché se, ancora una volta, nessuno piange la scomparsa di un regime dittatoriale, d’altro canto la dichiarazione di guerra statunitense e britannica fu mossa sulla base di un evidente pretesto (e sulla scorta dei sentimenti — ancora vivissimi — post 11 settembre) e anche la guerra in sé fu tutt’altro che un affare pulito.

Prendiamo la Seconda Battaglia di Fallujah, per esempio. Nel corso degli scontri, le forze americane fecero uso del fosforo bianco per stanare gli insorgenti. Ora, il fosforo bianco è un agente chimico altamente incendiario, e in quanto tale è bandito dalla Chemical Weapons Convention quando utilizzato con fini offensivi; visto il denso fumo bianco che produce, può invece essere utilizzato per nascondere la propria posizione agli occhi del nemico. Questo trattato fu firmato e ratificato anche dagli Stati Uniti, ma siccome questi ultimi hanno sempre avuto un rapporto molto libertino con i trattati internazionali, lo utilizzarono lo stesso. E qual è la posizione di Peter Tamte in merito?

“Ci sono cose che ci dividono, e includere quelle questioni divisive distrae la gente dalla storie umane in cui tutti possiamo riconoscerci. Ci sono due cose che mi preoccupano a proposito dell’includere il fosforo bianco come arma. Primo, non è parte delle storie che ci hanno raccontato, quindi non ho una base autentica, fattuale su cui basare il mio racconto. Ed è la cosa più importante. Numero due, non voglio che elementi sensazionalistici distraggano da altre parti dell’esperienza.”

Questa dichiarazione di Tamte ha ovviamente sollevato tante discussioni: quelle parti che lui definisce “divisive” e “sensazionalistiche” sono infatti anch’esse parte integrante dell’esperienza, e decidere di escluderle non potrebbe essere altro che una decisione politica, che sia essa cosciente o meno; e inizialmente, era proprio su questo che si chiudeva il pezzo che state leggendo. Nelle ultime ore, però, Victura ha rilasciato una nuova dichiarazione.

Comunicazione di Victura
Le parole con cui la software house ha voluto riesaminare la questione.

Come potete notare, si tratta di un’inversione netta rispetto a quanto detto da Peter Tamte: il fosforo bianco non sarà presente come arma utilizzabile dai giocatori, ma il suo uso verrà raccontato nel corso delle interviste. Il publisher ha anche specificato che ritiene Six Days in Fallujah un titolo “inseparabile dalla politica”.

Non possiamo fare altro che sperare che queste e le altre parole dette siano sincere, perché quella di Fallujah è un’eredità complessa: oltre alla cacciata di Al Qaeda, la battaglia portò anche alla morte, secondo la Croce Rossa, di 800 civili, e l’ampio uso fatto di agenti chimici e di proiettili all’uranio impoverito ha portato a un significativo aumento dei casi di cancro fra giovani e neonati. Una questione complessa, dunque, che va affrontata col rispetto che merita.

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