Politica, videogiochi, All lives matter e altre favole

Di proteste, di corporazioni e di sogni di un passato lontano.

Marco "Brom" Bortoluzzi
Frequenza Critica
6 min readJun 6, 2020

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Riot: Civil Unrest, screenshot di gioco

Ci risiamo: pare che sia un appuntamento periodico, ormai, quello in cui politica e videogiochi si scontrano in una maniera tale che anche per i più refrattari all’argomento diventa impossibile ignorare gli stimoli del mondo esterno. Il motivo, come saprete se non avete passato l’ultima settimana a giocare a Sakura Wars, sono le proteste sorte dopo la morte di George Floyd, ennesimo esempio della discriminazione sistemica presente all’interno della società americana e dell’impunità di cui godono i suoi agenti di polizia. Il risultato, come già era successo qualche anno fa, è stato il sorgere di proteste che da Minneapolis si sono poi diffuse in tutti e cinquanta gli stati dell’unione, con numerose manifestazioni di solidarietà anche all’estero. La bandiera sotto cui si sono unite queste proteste è quella di Black Lives Matter, e se seguite sui social qualche utente americano è letteralmente impossibile non aver visto l’hashtag #BlackLivesMatter.

A causa della diffusione capillare che ha avuto questa protesta, una diffusione senza precedenti nella storia recente americana, molte corporazioni hanno capito di non potersi permettere di fare finta di niente, e hanno quindi deciso di fare dichiarazioni di supporto a queste proteste sui loro canali social. Ovviamente, anche molti sviluppatori di videogiochi hanno fatto lo stesso; qui per esempio vediamo la dichiarazione (con annessa donazione, cosa che non tutti hanno fatto) della Ubisoft:

Il profilo Twitter della Ubisoft mostra il suo supporto per le proteste per la morte di George Floyd

In aggiunta a questi messaggio di supporto, alcuni sviluppatori (per esempio CD Projekt RED e Sony) hanno deciso di spostare eventi che si sarebbero altrimenti tenuti in questi giorni, per evitare di rubare visibilità alle proteste (e sicuramente anche per assicurarsi di avere più seguito trasmettendoli in momenti più tranquilli). Ora, ovviamente tutte queste dichiarazioni vanno prese con un pizzico di sale. Rientrano infatti nel dilemma delle woke brands: quante sono dichiarazioni sincere d’intenti, e quante rientrano semplicemente nella strategia corporativa di assicurarsi di essere dal lato giusto della storia, senza però sbilanciarsi troppo per cercare di cambiare la situazione? Perché se si può credere nell’onestà di intenti quando a sostenere le proteste è un piccolo sviluppatore come Harebrained Schemes, che in uno dei suoi titoli più famosi — Shadowrun: Dragonfall — affrontava senza mezzi termini i problemi del razzismo e della discriminazione, diventa molto più difficile crederci quando a farlo è invece Activision Blizzard, e sono sicuro che i nostri lettori più attenti sapranno bene perché.

Ora, degli sforzi delle corporazioni multimiliardarie per convincervi che sono brave e belle non mi interessa granché parlare, ma mi serviva come trampolino di lancio per discutere di qualcos’altro che riguarda noi giocatori molto di più, ed è appunto la risposta di una parte dei giocatori. Aprite uno qualunque dei tweet che ho linkato sopra, scorrete le risposte: oltre a reazioni comprensive e che elogiano la decisione di dare priorità ad altri argomenti, troverete chi si lamenta perché la sua vita è stata rovinata dal rinvio di qualche giorno di un evento che aspettava da secoli, chi dice che non tutto il mondo è gli Stati Uniti e quindi chissenefrega se lì protestano e chi dice anche quella cosa citata nel titolo: “all lives matter.”

“All lives matter” è un modo di dire che manca completamente il senso di Black Lives Matter

Mettiamo subito le cose in chiaro: se per caso in risposta a qualcuno che scrive “Black lives matter”, vi viene in mente di puntualizzare che “All lives matter”, state compiendo una scemenza. Primo, perché è una puntualizzazione che non serve a nulla: sì, ovvio che tutte le vite contano, ma il punto di queste proteste è che le vite dei neri sono quelle più minacciate — ma non le uniche, attenzione — dal razzismo sistemico, che va ben al di là del singolo episodio; e secondo, perché quello che state facendo è usare lo slogan di chi mira a svalutare le proteste di questi giorni nascondendosi dietro una frase apparentemente ragionevole. Se dico che a contare sono le vite dei neri, degli asiatici, degli ispanici, dei bianchi eccetera… beh, sono la cosa più lontana da un razzista che ci si possa immaginare, no? Però intanto quello che sto facendo è inquinare il discorso e spostare il centro dell’attenzione verso quello che interessa a me, invece di concentrarlo sul problema sotto la luce dei riflettori al momento. E poi, si sa: se si cerca di risolvere tutto non si riesce a risolvere niente, e quindi tanto vale non iniziare nemmeno e arrivederci alla prossima protesta.

Purtroppo, non è la prima volta che gruppi di videogiocatori dimostrano scarsa considerazione per problemi di tipo sociale. È un esempio recente quello del problema del crunch nelle ultime fasi dello sviluppo di un videogioco, o anche la protesta dei doppiatori per le loro condizioni di lavoro; in entrambi i casi non era troppo difficile, girando per Reddit o Twitter, trovare messaggi di chi sosteneva che decine di ore di straordinario fossero una parte necessaria del creare un prodotto di qualità, che se a qualcuno non va bene come funzionano le cose può sempre cercarsi un altro lavoro, che i sindacati sono roba da perdenti che non riescono a dimostrare il loro valore aggiunto, e altri discorsi dalla logica simile, che non fanno altro che dimostrare la totale mancanza d’empatia di chi li scrive.

E non è nemmeno la prima volta che dietro messaggi apparentemente lodevoli si nascondono intenti meno che eccelsi. Sono sicuro che molti ricorderanno Gamergate, nato come protesta contro la mancanza di eticità nel giornalismo videoludico per poi presto diventare una campagna di molestie nei confronti di giornalisti (e giornaliste) poco graditi e il cui retaggio è la fobia di una parte dei giocatori verso gli SJW, veri o presunti. Ed è una fobia che ci riporta al discorso di oggi: secondo questa frazione di giocatori, i Social Justice Warrior sono questa minoranza verso cui gli sviluppatori decidono di fare pandering (termine che non ha una traduzione diretta in italiano, ma che vuol dire “far contenti”) inserendo cast più diversificati nei propri giochi, il tutto nel nome di una non meglio specificata agenda politica. Solitamente, queste teorie di complotto vengono anche condite con reminiscenze dei bei vecchi tempi in cui i giochi non erano politici; il che è ovviamente una fesseria, ma provate a dirglielo e vi risponderanno con “eh ma una volta la politica si usava per raccontare storie, mica come ora che è solo pandering.”

Due piccole bandierine  in Celeste sono state sufficienti per far infuriare una ristretta nicchia di giocatori

La verità è che i tempi sono cambiati, non siamo più nel 1990 e con essi sono cambiate anche le sensibilità; ed è quindi naturale che quando il discorso nel campo dell’intrattenimento si orienta verso una maggiore rappresentazione di personaggi e protagonisti che siano diversi dal classico maschio bianco, anche i videogiochi si adattino e cerchino di fare la loro parte. Attenzione, non tutti lo fanno bene, e va tenuto a mente il discorso sulle woke brands che facevo sopra: non fate l’errore di dare per scontato che a queste corporazioni freghi effettivamente qualcosa della diversità, perché spesso e volentieri per loro è solo pubblicità. Ma questo non cambia il fatto che una maggiore diversità è solo positiva, perché permette a più parti della popolazione di sentirsi rappresentate, perché normalizza la presenza di personaggi di diverso colore, genere e orientamento sessuale e perché permette a chi non fa parte di queste minoranze di vivere punti di vista differenti. E se vi devo spiegare perché questi sono cambiamenti in meglio, abbiamo una visione del mondo inconciliabile.

Ma il cambiamento dà fastidio, lo so. Ne ho già parlato in passato, e anche se l’argomento era diverso, le somiglianze secondo me non mancano. Per molti di noi i videogiochi sono un’isola di conforto, che ci permette di staccare dalle rogne della vita reale e di rilassarci, e che ci riportano a un periodo in cui eravamo più giovani e più liberi di preoccupazioni, e sopratutto meno esperti nel riconoscere messaggi “politici”. E si vorrebbe poter ritornare a quel periodo e ai ricordi per forza di cose distorti che ne abbiamo, ma non è possibile. Non che ci sia nulla di male nel preferire giochi dedicati al puro svago; è una scelta più che legittima, e di titoli che permettono di farlo non c’è certo penuria. Ma non si può pretendere che l’industria e la massa dei consumatori si fermino per noi, non si può pretendere che chi scrive giochi decida di farlo ignorando il mondo reale, e non si può pretendere che i videogiochi non parlino di politica.

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