Odi i giochi a turni? È colpa dei Pokémon

…e dei Final Fantasy, e di tanti altri JRPG.

Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica
4 min readAug 26, 2020

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La prima generazione di Pokémon che ha accompagnato infiniti giocatori.

Frequentando discussioni sui videogiochi in rete è impossibile non imbattersi ciclicamente in una delle più classiche delle diatribe: sono migliori i giochi a turni o quelli in tempo reale? Un dibattito potenzialmente interessante, dato che ci sono numerosi vantaggi e svantaggi per ognuna delle opzioni, tante diverse strutture di gioco che sfruttano meglio l’uno o l’altro approccio. E invece frequentemente ciò che ne emerge è la povertà di argomentazioni a sostegno de “i turni sono brutti”.

I commenti più gettonati parlano di azioni limitate, di lunghe animazioni e pause, di mancanza di realismo nel vedere combattenti in attesa e che si muovono a turno, di assenza di coinvolgimento, di monotonia, di impossibilità di movimento, di scarsa abilità richiesta… e tanta noia. Se vi rispecchiate in queste convinzioni lapidarie, c’è solo una spiegazione: siete stati traviati da quel mostro giallo di Pikachu, e probabilmente anche dal fighetto biondo Cloud. Già, perché quel che emerge è una visione molto specifica e superficiale della categoria, legata in particolar modo a una precisa corrente del panorama JRPG i cui esponenti più famosi sono appunto i giochi di Pokémon e i Final Fantasy vecchia scuola. Siete stati tormentati fino alla nausea dagli Zubat selvatici, e avete fatto di tutta l’erba un fascio. Ma il mondo è popolato da tanti esempi ben più intriganti.

Uno scontro in Final Fantasy Tactics.

Già passando allo spin-off Final Fantasy Tactics e alla sua fonte d’ispirazione Tactics Ogre, la situazione cambia parecchio grazie alla presenza di arene a scacchiera, movimento libero e un party allargato. Avendo libertà di posizionare nel migliore dei modi i personaggi, anche sfruttando lo scenario, la profondità del sistema aumenta esponenzialmente: gli arcieri in punti rialzati guadagnano una maggiore gittata, attacchi alle spalle o ai fianchi godono di bonus a danni e precisione, ostacoli ambientali possono servire da riparo o essere usati per incanalare i nemici verso la nostra robusta linea difensiva.

Tante altre chicche si possono poi aggiungere per valorizzare un combattimento, prime fra tutte una buona varietà di situazioni e obiettivi di vittoria. Già, ammazzare tutti i nemici non è l’unico modo per vincere. Shadowrun: Dragonfall e Hong Kong non sono tattici a turni particolarmente virtuosi nelle loro meccaniche, prodotti senza infamia e senza lode. Però mi hanno divertito un sacco grazie all’ottimo design di arene e obiettivi, sempre freschi e dinamici. Un esempio? Dover inviare il tuo hacker a un terminale mentre lo proteggi dal fuoco nemico, in modo che possa entrare nel cyberspazio e attivare l’impianto d’areazione, eliminando così il veleno che gli avversati hanno nebulizzato nell’edificio.

Sfruttamento dell’ambiente in Shadowrun: Hong Kong.

Un varietà simile, supportata stavolta anche da un core gameplay solidissimo, la troviamo in uno dei più famosi tattici a turni recenti: X-COM. Gli ultimi capitoli della serie, sviluppati da Firaxis Games, hanno sapientemente unito la gran qualità della tradizione a una veste moderna e accattivante. Tra missioni di salvataggio, di recupero risorse, di disarmo d’ordigni, di ricognizione, e chi più ne ha più ne metta, passeranno moltissime ore prima di sentire qualsivoglia ripetitività. Anche perché in X-COM 2 le mappe sono generate proceduralmente da ottimi algoritmi, mantenendole fresche ma con una cura che non si direbbe frutto di un processo semi-casuale. Il tutto condito da un ambiente da sfruttare sia in orizzontale che in verticale, con elementi interagibili e coperture da distruggere. Insomma, c’è una distanza siderale tra tutto questo e il ripetitivo premere su “attack” non appena la barra d’azione s’è riempita.

Ma se questi specifici esempi non vi garbano, magari perché non avete lo spirito del giocatore di Poker e l’aleatorietà di X-COM vi fa venir voglia di prendere a testate lo schermo, c’è una folta schiera di valide alternative, ognuna con la sua particolare identità. The Banner Saga ad esempio racchiude in una sola risorsa sia i punti vita che la forza d’attacco di un’unità, allontanando il giocatore dal solito modo di ragionare: in questo caso anziché uccidere i nemici in fretta è meglio indebolirli così che diventino una scarsa minaccia, ma lasciarli in vita per congestionare la coda d’azione avversaria con personaggi poco efficaci.

The Banner Saga non solo è bello da giocare, ma anche da vedere.

O ancora, Into the Breach rende sempre nota la prossima mossa dei nemici, lasciandoci il compito di trovare il perfetto incastro di azioni per nullificare ogni loro attacco. Particolare anche l’enfasi sulla manipolazione degli avversari, che potremo spingere, lanciare o teletrasportare per posizionarli dove fa a noi più comodo, anche facendo in modo che si colpiscano tra loro. Ispirato a questo roguelike di Subset Games c’è pure il ben poco conosciuto Druidstone: The Secret of the Menhir Forest, che mischia le arene da combattimento al dungeon crawling inserendovi esplorazione, trappole, piccoli enigmi e passaggi segreti. E potrei citare anche Divinity: Original Sin, Valkyria Chronicles, Jagged Alliance, Vagrant Story, Fire Emblem (magari non il recente Three Houses, che non ha pienamente convinto la nostra redazione), King’s Bounty…

Insomma, nessuno vi obbliga ad apprezzare i giochi a turni, ma prima di etichettarli come roba stantia e banale è meglio che vi diate un’occhiata attorno, perché siete circondati da esponenti eccezionali.

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Mattia “Harlequin” Mangano
Frequenza Critica

Appassionato di sistemi, trova ristoro in esplorazione, funghi e polenta.